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Le nuove sfide dei nomadi digitali tra restrizioni e remote working

  • Il nomade digitale è un una persona che riesce a lavorare ovunque grazie agli strumenti messi a disposizione dalla tecnologia e che ha deciso di non legare la propria vita professionale ad un determinato ed unico luogo.
  • Dal copywriter allo sviluppatore di software, dal community manager al social media strategist: sono davvero tante le professioni a cui può ambire un nomade digitale.
  • Consapevolezza delle proprie capacità, attenta gestione delle finanze, elevato senso di responsabilità: alcune delle skills che potrebbero tornare utili una volta in viaggio.

 

Si è sentito parlare tanto, nell’ultimo anno, di smart working, di telelavoro, di concetti di flessibilità in termini di spazio e tempo per la propria professione. Un po’ meno di nomadismo digitale.

Bisognerebbe partire dal concetto che, grazie alla tecnologia, è già profondamente cambiato il modo di pensare al proprio “posto di lavoro”: la mente va subito al lungo periodo di lavoro da remoto durante il quale milioni di italiani hanno riorganizzato le proprie attività professionali (da oltre un anno) nei rispettivi salotti, cucine e giardini.

Si può continuare con i vari modelli di lavoro flessibile, di cui si è tanto discusso negli ultimi mesi: per esempio il South Working, modello che consentirebbe al dipendente di vivere in un borgo della Costiera Amalfitana, lavorando allo stesso tempo per un’azienda di Torino.

Se da un lato la tecnologia rende percorribile (ove possibile) la via della trasformazione dei metodi di lavoro tradizionali, dall’altro ci si trova di fronte a molti dubbi: mancanza di socialità fra colleghi, appiattimento della contaminazione professionale, attività commerciali che sorgono nei pressi di uffici in difficoltà. Solo per citarne alcuni.

La riflessione è: anche dopo la terza ondata o la conclusione dell’emergenza sanitaria, i nuovi metodi di lavoro e i nuovi stili di vita continueranno a essere parte delle quotidianità di ognuno? I pareri sono ancora discordanti.

Tuttavia, potrà essere in ogni caso utile un breve approfondimento sul nomadismo digitale.

Cos’è il nomadismo digitale

Il nomade digitale è un una persona che può lavorare ovunque grazie agli strumenti messi a disposizione dal mondo digitale, e che per una scelta di vita ha deciso di non legare la propria vita professionale ad un determinato ed unico luogo.

Per il nomade digitale non esistono limiti spaziali, esistono solo luoghi con una connessione a internet e luoghi senza. Curiosità e indipendenza dovrebbero essere elementi chiave per intraprendere questa scelta di vita. Si superano così i concetti di smart working e di telelavoro.

Si tratta di persone che utilizzando gli strumenti tecnologici, notebook, tablet, smartphone e qualsiasi tipo di wearable device, decidono di svolgere il proprio lavoro in piena flessibilità spaziale (e anche in termini di tempo): oggi da Londra, il mese successivo da una meta tropicale.

Non ci sono dei requisiti minimi, tuttavia pare che la regola madre sia “il tuo lavoro deve poter essere svolto al 100% da remoto”.

Potrebbe essere davvero utile avere già delle esperienze professionali consolidate nel proprio campo, in quanto sarà sicuramente necessario saper fronteggiare le difficoltà inerenti al proprio lavoro con una buona dose di indipendenza e con un atteggiamento proattivo.

Le professioni del nomade digitale

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Quali sono i lavori adatti a un nomade digitale?

Beh, non c’è una regola scritta, ma ogni lavoro che può essere svolto al 100% da remoto, e con una connessione internet a disposizione, è un buon lavoro per intraprendere questa strada.

Dal copywriter allo sviluppatore di software, dal community manager al social media strategist o addirittura founder di una startup: sono davvero tanti i lavori digitali che possono essere svolti da qualsiasi latitudine.

Inoltre, occorre una predisposizione all’organizzazione del proprio tempo e un elevato grado di responsabilità professionale per completare ogni giorno i propri task con efficienza e qualità.

In poche parole, saper lavorare per obiettivi. Potrebbero tornare utili anche intraprendenza e spirito di adattamento nei confronti dei nuovi posti da visitare e in cui vivere.

Altre professioni adatte al nomade digitale potrebbero essere, ad esempio, il traduttore, il giornalista, il videomaker.

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Quale meta scegliere

Con la crescita (in termini di utilizzo) delle varie tipologie di lavoro da remoto, molti Paesi hanno offerto negli scorsi mesi la possibilità di lavorare dai propri territori, con “pacchetti” temporanei e dedicati agli smart worker e ai nomadi digitali.

Sono molte le mete adatte per un nomade digitale: a seconda delle proprie esigenze e delle proprie possibilità economiche andrebbero tenute in considerazione variabili come il costo della vita, le attrazioni naturalistiche ed artificiali, il livello di sicurezza, clima e cultura, prima di scegliere il paese dove recarsi per questa esperienza alternativa.

Purtroppo, la situazione di incertezza dovuta alla nuova ondata di contagi (in Italia e in molti altri paesi europei) a causa del virus probabilmente non è il miglior contesto storico per prendere decisioni così significative.

Tuttavia, è anche probabile che, una volta superata l’ennesima fase acuta della pandemia e con il progresso delle campagne vaccinali, sia in Italia che nel resto del mondo cresceranno le possibilità professionali di lavoro in remoto e che molti altri paesi si attrezzeranno per ospitare nomadi digitali da ogni parte del globo.

Economia: gestione delle entrate e delle uscite

La gestione delle finanze è un altro tema da tenere sempre sott’occhio e particolarmente sentito fra i nomadi digitali: non disporre di un’entrata economica fissa a fine mese, deve essere uno stimolo in più per stare attenti alle proprie finanze e bilanciare al meglio le entrate e le uscite.

Potrebbe tornare utile avere a disposizione una somma di denaro nel salvadanaio per fronteggiare eventuali imprevisti, oltre che trovare un equilibrio con tutte le spese fisse da sostenere una volta approcciati a questa nuova esperienza: alloggio, pasti, esperienze culturali, internet sono solo alcune delle voci (fra le uscite economiche) che peseranno sulle finanze del nomade in maniera periodica e ripetuta.

Agende, app per la gestione delle spese, fogli elettronici: l’importante è tenere questo aspetto (particolarmente rilevante) sempre sotto controllo.

Gli “uffici” in giro per il mondo

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Se un vero e proprio ufficio non c’è, quali sono i luoghi dove il nomade digitale può trovare ispirazione e concentrazione? Le soluzioni sono innumerevoli: cafè, spiagge attrezzate, lounge bar ma soprattutto spazi per il co-working.

Il co-working può essere la risposta ad alcune delle difficoltà a cui si può andare incontro quando si cambia spesso città: la mancanza di socialità e la conseguente privazione di contaminazione culturale e professionale.

Ovviamente questo ultimo punto, legato al tema della socialità, viene meno quando è necessario rispettare norme di restrizione e distanziamento sociale per proteggere sé stessi e gli altri da un problema comune come il Covid-19.

Si tratta di una scelta di vita molto affascinante ma, forse, non adatta a tutti.

Bezos ai vertici del mondo. Ecco chi sono i più ricchi del 2021

È Jeff Bezos l’uomo più ricco al mondo. Il fondatore del gigante dell’eCommerce  Amazon per il quarto anno consecutivo domina la classifica annuale stilata dalla rivista Forbes con 177 miliardi di dollari, ben 64 miliardi in più dello scorso anno. È salito al secondo posto con 151 miliardi di dollari, grazie all’aumento delle azioni di Tesla e Amazon, Elon Musk. Al gradino più basso del podio, ma primo in Europa, il magnate dei beni di lusso, Bernard Arnault, anche se la sua fortuna di 150 miliardi di dollari è quasi raddoppiata rispetto ai 76 miliardi di un anno fa, a causa di un aumento del valore delle azioni LVMH.

Se la pandemia da Covid 19 ha accresciuto il divario sociale, con milioni di persone sulla soglia della povertà e la ricchezza concentrata nelle mani di determinati settori, dall’eCommerce, alla tecnologia al food, dall’altro lato il 2021 registra una crescita record di nuovi miliardari: in totale 2.755, con l’ingresso nel gotha dei più ricchi al mondo di 660 nuovi miliardari rispetto al 2020, ovvero uno ogni 17 ore.

In Italia la top ten vede in testa Leonardo del Vecchio, fondatore di Luxottica, l’azienda fondata nel 1961, con un patrimonio stimato in 25,8 miliardi di dollari. Nel ranking anche Giorgio Armani, icona indiscussa della moda made in Italy e Silvio Berlusconi.

È l’italiano più ricco, ma anche il più ricco del Belgio (non avendo più residenza in Italia), Giovanni Ferrero di Nutella, Tic Tac e Kinder Egg, che ha registrato un aumento della sua ricchezza da 10,6 miliardi a 35,1 miliardi. Si aggiungono 11 nuovi miliardari, tra cui Marina e Giuliana Caprotti, che hanno preso il controllo della catena di supermercati Esselunga, e Sergio Stevanato dell’azienda di packaging medicale Stevanato Group.

La 35esima “Forbes World’s Billionaires List”, nella quale si registrano 493 new entry. Tra queste anche Kim Kardashian con il suo primo miliardo di dollari.

Qual è il valore della top ten in totale?

Il totale dei patrimoni delle dieci personalità più ricche del pianetaè stimata in a 1.115 miliardi di dollari, due terzi in più dei 686 miliardi dell’anno scorso. Nel 2021 in quattro hanno un patrimonio pari o superiore a 100 miliardi di dollari, nel 2020 solo era solo Jeff Besoz.

“È stato un anno come nessun altro e non stiamo parlando della pandemia – sottolinea Forbes – Ci sono state offerte pubbliche a fuoco rapido, criptovalute in aumento e prezzi delle azioni alle stelle. Il numero di miliardari nella 35a lista annuale di Forbes dei più ricchi del mondo è esploso a 2.755, senza precedenti, con 660 personalità in più. 493 sono nuovi nella lista, di cui 210 provenienti dalla Cina e da Hong Kong. Altri 250 caduti in passato sono tornati ruggendo. Uno sbalorditivo 86% è più ricco”.

Complessivamente, la somma dei patrimoni dei miliardari vale 13,1 trilioni di dollari, rispetto agli 8 trilioni di dollari del 2020 (ben 5trilioni in più). Gli Stati Uniti ne hanno ancora di più, con 724, seguiti dalla Cina (tra cui Hong Kong e Macao) con 698. La metodologia usata da Forbes ha utilizzato come parametro cardine i prezzi delle azioni e dei tassi di cambio dal 5 marzo per calcolare il patrimonio netto.

Chi sono quindi i più ricchi?

elon musk interview

Elon Musk

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La Top Ten mondiale

Al primo posto Jeff Bezos, con un patrimonio di 177 miliardi di dollari, 64 miliardi in più dello scorso anno. A breve, Besoz, che ha fondato Amazon nel 1994 nel suo garage a Seattle, si dimetterà dalla carica di CEO e diventerà presidente esecutivo alla fine del 2021.

Il segreto del suo successo? Sembra essere contenuto nelle sue parole riportate da Forbes:

“Sapevo che se avessi fallito, non mi sarei mai pentito. Sospettavo che sarei sempre stato ossessionato dal rimorso e dalla decisione di non provarci affatto”. (Jeff Besoz)

Segue Elon Musk, fondatore di Tesla, con 151 miliardi. 126,4 miliardi in più rispetto a un anno fa, quando occupava il 31esimo posto e aveva un patrimonio di 24,6 miliardi.

Terzo sul podio Bernard Arnault, proprietario del gruppo del lusso LVMH, con un patrimonio di 150 miliardi di dollari: l’anno scorso erano 76.

Al quarto posto il fondatore di Microsoft Bill Gates con 124 miliardi di dollari (98 miliardi lo scorso anno)

Al quinto l’ideatore di Facebook Mark Zuckerberg con i suoi 97 miliardi, con un 42,3 miliardi in un anno.

L’imprenditore Warren Buffett è in sesta posizione con un patrimonio di 96 miliardi di dollari: l’anno scorso erano 67,5 miliardi.

Settimo Larry Ellison, cofondatore e CTO della Oracle Corporation, che vanta un patrimonio di 93 miliardi di dollari (+34 miliardi in un anno).

Ottavo il co-fondatore di Google Larry Page  con 91,5 miliardi di dollari, che ha scalato la classifica dai 50,9 miliardi dello scorso anno.

A seguire l’altro co-fondatore di Google Sergey Brin con 89 miliardi di dollari, contro i 49,1 dello scorso anno.

Chiude la top ten Mukesh Ambani, presidente, amministratore delegato e il maggiore azionista di Reliance Industries Limited (84,5 miliardi di dollari, 36,8 lo scorso anno).

Bernard Arnault

E in Europa?

Se il più ricco d’Europa si conferma, seguito dal magnate spagnolo del fast-fashion Amancio Ortega con 77 milairdi di dollari, è la Germania a dominare la classifica per numero di miliardari, con una ricchezza stimata in 3 trilioni di dollari, al riparo dai danni finanziari causati dalla pandemia di coronavirus.

Sono 628 i miliardari europei classificati da Forbes, rispetto ai 511 dell’anno precedente. Come gruppo, sono 1 trilione di dollari in più rispetto a un anno fa: “Il che suggerisce – scrive Forbes – che per i ricchi, l’anno della pandemia è stato redditizio”.

I miliardari italiani sono 51, compresi i non residenti, (contro 36 nel 2020), con un patrimonio netto totale di 204,5 miliardi rispetto ai 125,6 miliardi nel 2020

Leonardo del Vecchio

La top ten italiana

Il più ricco, fondatore di Luxottica, con 25,8 miliardi di dollari, in 62esima posizione.

Seconda la donna più ricca d’Italia, Massimiliana Landini che, con un patrimonio di 9,1 miliardi di dollari, erede insieme ai figli del gigante della farmaceutica Menarini.

Segue re Giorgio Armani con un patrimonio netto stimato di 7,7 miliardi di dollari.

Quarto in Italia Silvio Berlusconi & Family con 7,6 miliardi di dollari, con imprese nel settore media, editoriale, publishing.

Quinto Giuseppe De’ Longhi con un patrimonio di 5,2 miliardi di dollari.

Sesto posto per Gustavo Denegri, presidente di DiaSorin, con 5,1 miliardi.

Settima ed ottava posizione per Patrizio Bertelli, amministratore delegato del gruppo Prada e per la moglie, la stilista Miuccia Prada con 4,6 miliardi.

Segue Luca Garavoglia, presidente del gruppo Campari, con 4,2 miliardi di dollari

Ai piedi della top ten italiana Piero Ferrari con 4,1 miliardi di dollari.

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food trends 2031

Food trend 2031: come sarà la nostra dieta tra 10 anni?

La pandemia che stiamo affrontando, ormai da più di un anno, ci ha insegnato che è l’imprevedibilità a modellare la realtà, inducendo a “rivoluzioni” del pensare e dell’agire.

E quello dell’alimentare, probabilmente, è uno dei settori che vedrà i maggiori cambiamenti, con un’accelerazione, o viceversa, un arresto, dei progetti pregressi e l’individuazione di nuove opportunità, tese a soddisfare nuove esigenze, dei popoli e del pianeta.

Nonostante la fragilità del momento, grazie al parere di alcuni esperti, che in passato hanno dato prova della loro lungimiranza, siamo in grado di azzardare delle previsioni, o meglio delle ipotesi, su quello che sarà la nostra dieta fra dieci anni.

Stando ad un recente report pubblicato dal WWF, la diffusione del coronavirus nel mondo non avrebbe fatto altro che evidenziare, ancora una volta, la stretta correlazione tra lo sviluppo di malattie pandemiche da zoonosi (cioè malattie che vengono trasmesse dagli animali all’uomo) e i cambiamenti climatici, sempre più accentuati e preoccupanti.

Cambiare la dieta per salvare il pianeta, una sfida per il futuro

Il surriscaldamento globale, infatti, non ha effetti devastanti solo sugli ecosistemi ma anche, e in modo sempre più diretto, sull’uomo.

Come già sottolineato in precedenza, l’allevamento e l’agricoltura sono tra i settori che più concorrono al climate-change, a causa delle ingenti emissioni di gas ad effetto serra, in primis, metano, e al consumo delle risorse naturali (acqua, suolo ecc.).

Pertanto questi settori sono sotto la lente di ingrandimento di ricercatori e filantropi miliardari, come Bill Gates, Elon Musk e Warren Buffet che, attraverso cospicue donazioni, finanziano progetti all’avanguardia per rendere la filiera agroalimentare sempre più sostenibile.

Tuttavia, ad indurre questi grandi “benefattori” ad elargire parte del proprio patrimonio non sarebbe soltanto la spiccata sensibilità verso il tema “ambiente” ma anche le interessanti prospettive di guadagno (a medio e lungo termine), ora che il mercato sembra finalmente pronto ad accogliere novità fino a qualche tempo fa inimmaginabili

Protesta per i cambiamenti climatici in corso

L’avvento del “biologico” in Italia: ieri, oggi e domani

Basti pensare all’evoluzione del biologico, di cui in Italia si cominciò a parlare agli inizi degli anni 70’ ma che solo recentemente ha riscosso un ampio consenso di pubblico, entrando stabilmente in GDO.

All’inizio, infatti, i pionieri del “bio” tra cui Gino Girolomoni, fondatore della Cooperativa Alce Nero, incontrarono non poche difficoltà nella promozione della loro filosofia, dal momento che la stragrande maggioranza delle persone non si poneva la questione di scegliere un’alimentazione che fosse anche naturale.

Con il boom economico degli anni 60’, l’industria alimentare era cresciuta a dismisura, tanto da rendere i consumatori “affamati” di cibi confezionati e, al contempo, ciechi di fronte agli ingredienti utilizzati, zuccheri, conservanti e coloranti erano infatti impiegati a profusione.

Poi, a partire dal nuovo millennio, sono proliferati i fast-food, per soddisfare la vita frenetica dei lavoratori e la limitata disponibilità economica dei più giovani.

Mentre oggi, appunto, grazie all’aumentato interesse dei consumatori verso temi quali il benessere e l’ambiente, sono i prodotti biologici a registrare il record di acquisti e, ben presto, potrebbero monopolizzare l’intera offerta di iper e super-mercati, similmente a quanto già accaduto in Danimarca.

Insomma, la dieta delle persone è fortemente legata al contesto storico-politico, economico, culturale ed ambientale di ogni epoca. Pertanto, ogni nuova proposta di cambiamento, per trovare concretezza, soprattutto nel breve periodo, dovrà basarsi sull’effettiva esistenza della domanda, dimostrando la propria sostenibilità economica.

Carote appena raccolte da agricoltura biologica

La corsa dei prodotti plant-based, dieta sempre più green

Dunque, per meglio capire quali cibi andremo a mangiare, per la prima volta o con maggior frequenza, fra 10 anni, dobbiamo tener conto anche di questo aspetto.

Accanto ai prodotti biologici che, come abbiamo anticipato, continueranno la propria corsa (+7% solo nel 2020), troviamo i cibi plant-based, cioè al 100% vegetali, che puntano a sostituire la carne e, in generale, tutti gli alimenti di origine animale; un mercato che si stima possa raggiungere un valore di oltre 12 miliardi di dollari già entro il 2023.

Una conferma del trend positivo di questi alimenti arriva dalla lettura dei bilanci di Impossible Foods e Beyond Meat, che negli ultimi due anni hanno visto letteralmente lievitare il proprio fatturato.

I loro prodotti, infatti, ora sono disponibili nelle più grandi catene di distribuzione nonché di ristorazione (vedi Mc Donald, Burger King o la nostrana WellDone), e sembrano convincere anche i “carnivori”, grazie al loro gusto estremamente simile a quello della “vera” carne.

Hamburger vegetale con cetriolini sottaceto e verdure miste

Carne “in vitro”: orizzonte sempre più vicino

Molto probabilmente, la diffusione della “carne vegetale” verrà affiancata dall’affermazione della carne in vitro, promossa da alcune start-up visionarie come l’olandese Mosa Meat guidata dal Dott. Mark Post, professore emerito di Fisiologia Vascolare all’Università di Maastricht e teorico dell’agricoltura cellulare applicata alla carne, secondo cui è possibile ottenere qualcosa come 175 milioni di hamburger a partire dalle cellule di una singola mucca, anziché macellarne 440 mila.

E già nel 2013, a Londra, in diretta internazionale, alcuni autorevoli giornalisti hanno potuto assaggiare in anteprima il primo hamburger di carne “coltivata”, costato la bellezza di 330.000 dollari.

Lo chef Richard McGeown è apparso sorpreso, mentre cucinava quello che probabilmente è stato il più esclusivo hamburger della sua carriera e davanti ai microfoni ha dichiarato entusiasta “emana un profumo veramente ottimo e mi sembra di cuocere un classico hamburger di carne, oltre al fatto che mantiene perfettamente la sua consistenza. Poi il colore è assolutamente fantastico, sembra incredibilmente appetitoso”.

Al di là dell’enfasi del tutto coerente con la straordinarietà dell’evento, appare evidente che ci sano ancora alcune questioni da risolvere, soprattutto di ordine economico.

Tuttavia, negli Stati Uniti, il 64% degli americani si dichiara pronto ad assaggiare la carne coltivata e a comprarla non appena raggiungerà un costo competitivo con quello della carne convenzionale.

E fra qualche anno, grazie ai progressi della ricerca e all’introduzione di nuove tecnologie, la richiesta potrebbe venire soddisfatta.

A crederlo è anche Sergej Brin, CEO di Google, che ha finanziato il progetto Mosa Meat, con l’obiettivo di testare la bontà dell’idea e favorire altresì la diffusione di una carne realmente “pulita” (o Clean Meat), che oltre a non comportare l’uccisione di animali, non contiene neppure residui di antibiotici.

Dopo Mosa Meat, si sono aggiunte altre realtà, come Modern Meadow, Clara Foods e Perfect Day, tutte accomunate dalla volontà di rendere l’atto della macellazione solo un lontano ricordo.

E, come si legge in un recente articolo di Agnese Codignola, pubblicato su “Il Fatto Alimentare”, la prima carne coltivata è già disponibile in alcuni ristoranti, a Israele e a Singapore.

La carne sintetica è pronta a inserirsi tra il cibo del futuro - This MARKETERs Life

Insetti, un’alternativa sostenibile per il futuro

Rivolgendoci sempre al mercato delle proteine, ecco che incontriamo gli insetti che, grazie al recente via libera dell’EFSA al consumo umano di larve gialle essiccate (Tenebrio Molitor), sono stati finalmente sdoganati anche in Europa e, nel prossimo futuro, potrebbero far parte della nostra dieta.

Il loro profilo nutrizionale, infatti, è eccellente e il loro allevamento ha un impatto sull’ambiente che è nettamente inferiore rispetto a quello degli animali da reddito tradizionali, come vacche e suini.

Attualmente, si conoscono oltre 3.000 specie di insetti commestibili e la loro accettazione, come già sottolineato in un precedente articolo, contribuirebbe a rendere la filiera agro-alimentare non solo più sostenibile ma anche più varia.

Cavalletta riposa su un sasso durante una giornata di sole

Orti verticali, serre sottomarine e galleggianti: idee che diventano realtà

Tuttavia, la mania per le proteine, potrebbe subire una graduale contrazione, come affermato dalla Dott.ssa Morgaine Gaye, esperta in Food Trends, in favore di sali minerali e vitamine, e quindi di frutta e verdura.

In poche parole, la Dott.ssa Gaye sostiene che la dieta vegetariana potrebbe diventare sempre più popolare, premiando così i progetti di agricoltura sostenibile, non necessariamente sulla terra ferma.

E allora è probabile che mangeremo cocomeri provenienti da orti sottomarini (vedi Nemo’s Garden di Sergio Gamberini) oppure pomodori coltivati in serre galleggianti a forma di medusa, come quelle progettate Stefano Mancuso e presentate in occasione di EXPO 2015, che allora avevano suscitato un enorme interesse.

O ancora, le fragole in idroponica, cresciute senza l’utilizzo di pesticidi su orti verticali e sotto luci psichedeliche, che tutto richiamano alla mente tranne che l’agricoltura cosiddetta naturale.

Tuttavia è proprio l’idroponica ad avere le migliori prospettive di evoluzione, anche in vista della “conquista” dello spazio; non a caso, è stata scelta dalla NASA per compiere alcuni esperimenti a gravità zero.

Coltivazione di Radicchio in Idroponica

Fra dieci anni, dunque, la nostra dieta potrebbe vedere un’ulteriore riduzione del consumo di carne e, in generale, degli alimenti di origine animale e una maggiore inclusione delle alternative vegetali, nonché la definitiva accettazione dell’entomofagia e delle carni “coltivate”, nel caso raggiungessero dei prezzi accessibili.

Inoltre, la diffusione di taluni prodotti sarebbe probabilmente accompagnata da una completa eliminazione della plastica e dall’adozione di soluzioni di packaging eco-sostenibili, come in parte sta già avvenendo.

Disordine informativo

Disordine informativo: l’influenza dei media sugli user generated content distorti

Nonostante il “caso AstraZeneca” sia ancora lontano dall’essere arrivato alla conclusione, è possibile analizzarlo un po’ più da vicino, perché alcune dinamiche sono paradigmatiche dei reali rapporti di forza tra giornalismo e user generated content nella costruzione dell’agenda informativa.

Il contesto italiano è l’unico in Europa in cui i media tradizionali, a partire dai quotidiani, hanno enfatizzato la componente sensazionalistica della vicenda attraverso l’utilizzo di parole utilizzate in modo deliberato per evocare un certo tipo di emozioni: caos, allarme, dubbi.

L’obiettivo era tenere i lettori sulla corda, immergerli in una specie di spy-story a puntate. Peccato che ci fosse la salute pubblica al centro e che in questi casi le aziende editoriali hanno, ancora più del solito, una responsabilità etica nei confronti dell’opinione pubblica, oltre che un orientamento al profitto.

Altrove non si è scelta la via dell’attivazione emotiva: persino in Danimarca, il primo paese che è intervenuto sulla sospensione dell’utilizzo del lotto ABV2856 del vaccino anti-Covid di AstraZeneca, si è puntato su un altro registro linguistico ed emotivo: ‘sospensione precauzionale’. A questa linea si sono associati i principali giornali del Vecchio Continente.

astrazeneca google trends

L’incorniciamento congnitivo dei media

Fare scelte di framing, cioè di incorniciamento cognitivo su “cosa dovrebbero pensare” gli italiani è tra le prerogative del giornalismo e tale rimarrà. Ciò ha però una conseguenza pratica. Mettere una notizia in prima pagina o definire la scaletta di un telegiornale in un certo modo non è mai una scelta neutra (come del resto non lo è il giornalismo: si può essere accurati e non faziosi, difficilmente si può essere imparziali).

Scegliere il registro dell’emozione a discapito di quello informativo ha dunque conseguenze. Il paradosso è che oggi queste scelte sono più rilevanti sul dibattito pubblico rispetto al passato pre-digitale.

Si è detto molte volte che i social media sono “in competizione” con i mezzi tradizionali dal punto di vista dell’economia dell’attenzione degli utenti e che quindi hanno inciso sulla contrazione dei ricavi pubblicitari dei gruppi editoriali tradizionali. Difficilmente si può essere in disaccordo con questa assunzione. Questo, però, è solo l’aspetto più visibile.

trend marzo
La seconda parte di questa storia è più complicata da mettere a fuoco, ma è anche la più interessante.

Quando si parla di hard news (politica, economia, o vaccini solo per citare gli esempi più comuni) online gli utenti scrivono perlopiù di cose che hanno appreso dai media tradizionali (o da amici che hanno appreso qualcosa dai media tradizionali).

Non possiamo inoltre dimenticare che i grandi gruppi editoriali sono presenti anche online e sui social media, sviluppando moli di traffico notevoli.

C’è chiaramente una elaborazione personale di quel tipo di informazione, ci si può dire d’accordo o in disaccordo; ci può essere un argomento apparentemente marginale rispetto all’agenda setting dei media tradizionali che poi diventa trending topic su Twitter e che viene così rivalutato, e così via. In passato esisteva una modalità individuale, o comunque circoscritta ai propri gruppi informali, di elaborazione dell’informazione.

Oggi il processo può avere conseguenze molto più tangibili, come conseguenza di un mix di fattori: l’agenda setting dei media tradizionali impatta sull’opinione pubblica (cioè dalla somma dei destinatari dell’informazione), che però ha oggi un potere di aumento della propagazione, della rilevanza e visibilità.

Dalla carta stampata ai canali online

Volendo ragionare in termini estremi: un influencer da tre milioni di follower che commenta un articolo di giornale avrà probabilmente una base di lettori più estesa (reach) rispetto al numero di persone che avranno comprato il quotidiano da cui è stato tratto quello stesso articolo, ma ciò non toglie che quel processo di diffusione dell’informazione è comunque nato, seppur in via indiretta, sulla carta stampata.

La produzione di contenuti online, soprattutto su questioni di rilevanza pubblica, è dunque messa in moto dallo stesso propellente che orientava il mondo prima che Facebook esistesse: le priorità informative dei media tradizionali. Ciò ha due conseguenze:

  1. I media tradizionali hanno una capacità persuasiva ben più rilevante di ciò che sia gli utenti dei social media sia gli stessi editori sarebbero disposti ad ammettere nel 2021;
  2. Quando ci si lamenta dell’incapacità di elaborazione dei destinatari dell’informazione o nella propagazione di pezzi di disinformazione ‘user generated’ sarebbe buon consiglio non cercare responsabilità solo nella coda del processo, ma anche nella testa.

Questa dinamica, che certamente genera esiti almeno in parte dipendenti dalle priorità di agenda dei gruppi editoriali, può distorcere il dibattito pubblico anche in modalità meno dannose per il dibattito pubblico, ma questo non vuol dire che non succeda anche in modo “involontario” o “a fin di bene”. 

Basti pensare a due esempi eclatanti e molto diversi tra loro provenienti dalle cronache italiane degli ultimi anni.

La campagna per le politiche del 2018

Gennaio 2018: nel pieno della campagna elettorale per le Politiche due quotidiani di area, Libero e il Giornale, denunciano un presunto conflitto di interessi tra l’allora segretario del PD Matteo Renzi e Catia Bastioli, amministratrice delegata della Novamont, a causa dell’introduzione dell’obbligo di utilizzare sacchetti biodegradabili nei supermercati per imbustare prodotti alimentari freschi o sfusi. L’accusa era: Novamont agisce in regime di monopolio.

Ciò non si è poi rivelato vero, ma tanto è bastato per far partire un’enorme mobilitazione online, sui social media e anche sui servizi di instant messaging, che di fatto ha propagato un messaggio, manipolatorio se non apertamente falso, nato su un media tradizionale.

Se è vero che il grosso dell’attivazione è avvenuta online (anche perché Libero e il Giornale, sommati, vendono qualche decina di migliaia di copie al giorno in Italia), è altrettanto vero che l’innesco è nato offline.

Gli “eroi del bus” nel 2019

A marzo 2019, due giovani ragazzi figli di genitori stranieri regolarmente residenti in Italia, Ramy e Adam, hanno contribuito a evitare il dirottamento di uno scuolabus in provincia di Milano. L’attuale legge sulla cittadinanza non avrebbe permesso a questi due “eroi” di essere considerati cittadini italiani. La soluzione provvisoria che fu trovata per rendere la circostanza meno imbarazzante per lo Stato fu l’assegnazione della cittadinanza onoraria per Ramy e Adam.

La legge sulla cittadinanza non è ancora cambiata: un figlio di genitori stranieri diventa italiano solo al diciottessimo anno d’età. Ciò che però accadde nell’opinione pubblica fu assolutamente rilevante, seppur temporaneo.

Basta andare a consultare i sondaggi a cavallo tra il mese di marzo e di aprile del 2019 per scoprire che il gradimento degli italiani nei confronti dello ius soli raggiunse livelli mai toccati in precedenza e mai più rivisti in seguito.

sondaggio ius soli

Istituto Piepoli – 03/04/2019

Ed è sufficiente andare a spulciare una bacheca Facebook di un grosso quotidiano italiano (in questo caso il Corriere della Sera) per scoprire come i movimenti di opinione fossero stati generati anche online, e anche grazie alla “collaborazione” dei media mainstream (nel loro esercizio del diritto di cronaca).

Conclusioni

Tornando al caso AstraZeneca: il panico da vaccino è (stato?) più italiano che internazionale, ed è italiano anche perché i nostri media nazionali hanno raccontato la storia di AstraZeneca imbattendosi (non si sa quanto volontariamente) in tutti i principali bias cognitivi: falsa correlazione e utilizzo del caso particolare per ricavare riflessioni di carattere generale hanno trasformato un’incidenza statistica modestissima delle reazioni avverse al vaccino (i famosi “trenta casi su un milione”) in un processo di elaborazione personale dei fattori di rischio, riassumibili in migliaia di post uniti da una comune matrice: “e se capitasse anche a me?”

Al di là dei casi specifici, possiamo provare a dedurre una considerazione generale: questa irrazionalità non è una totale invenzione degli utenti, ma è frutto di un processo di induzione da parte dei media tradizionali. E i rapporti di forza tra editori e utenti, tra mittenti e destinatari, restano a vantaggio dei mittenti, nonostante da anni piaccia pensare il contrario. 

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Perché per la tua azienda è importante creare contenuti inclusivi (e come produrli)

Creare contenuti inclusivi è ormai una priorità per moltissime aziende che puntano a far presa su un pubblico più vasto attraverso una comunicazione realizzata ponendo maggiore attenzione verso tutti.

Cosa si intende per contenuti inclusivi

I contenuti inclusivi possono essere definiti come una tipologia di contenuti che abbracciano la diversità, permettendo a tutti di identificarsi e favorendo la comprensione anche da parte delle persone con disabilità. La chiave di questa tipologia di contenuti è dunque l’accessibilità. 

Per spiegare al meglio il concetto di accessibilità in riferimento ai contenuti inclusivi, possiamo avvalerci della definizione data dalla Legge 4/2004, art.2, comma a secondo cui “per accessibilità si intende la capacità dei sistemi informatici, nelle forme e nei limiti consentiti dalle conoscenze tecnologiche, di erogare servizi e fornire informazioni fruibili, senza discriminazioni, anche da parte di coloro che a causa di disabilità necessitano di tecnologie assistive o configurazioni particolari.”

Realizzare contenuti inclusivi si traduce quindi nell’elevare voci diverse riducendo i pregiudizi culturali. Questo significa che le aziende che adottano questo tipo di comunicazione si rendono partecipi di un cambiamento sociale positivo, guidato attraverso la produzione di contenuti attenti e rispettosi verso tutti.

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Perché creare contenuti inclusivi è una buona scelta per la tua azienda

Partendo dal presupposto che il content marketing ha come obiettivo quello di attrarre il pubblico per poi indurlo a intraprendere una determinata azione, appare chiaro come una comunicazione inclusiva capace di attrarre una maggior fetta di pubblico possa essere un valido approccio da utilizzare per qualsiasi tipologia di azienda.

Il motivo per cui un’azienda dovrebbe adottare una comunicazione inclusiva appare dunque ovvio e consiste nella conquista di nuove fette di mercato, scopo per il quale è ogni giorno maggiore il numero dei grandi brand che hanno scelto un marketing inclusivo cambiando i loro contenuti, la loro immagine e i loro prodotti per andare incontro ad un nuovo pubblico come quello della generazione Z. 

contenuti inclusivi 01

Una generazione questa, che insieme ai Millennial, dalle risposte ricavate in uno studio del 2017 condotto su un campione italiano, ha dimostrato di essere particolarmente sensibile rispetto alle pubblicità in cui sono presenti:

  • famiglie non tradizionali
  • persone di etnie o identità sessuali diverse dalla loro

Nella grafica di seguito è invece possibile vedere i fattori che impattano sulla decisione di acquisto o sostegno di un brand da parte di una diversa fetta di pubblico, quella appartenente ai millennial.

infografica contenuti inclusivi

Infografica ricavata da Nielsen

Le regole per creare contenuti inclusivi

Per creare contenuti inclusivi è bene seguire 5 punti fondamentali: 

  • evitare di usare un dizionario burocratico o tecnico non comprensibile a tutti
  • essere esplicativi senza dare per scontato che chi leggerà ha già tutte le informazioni per comprendere il contenuto del testo
  • quando si comunica attraverso il testo è bene usare un approccio alla persona (“Person-first”) che risulterà più inclusivo rispetto ad un approccio all’identità (“Identity-first”) basata solo su etichette (es: moglie, padre etc)
  • è bene parlare di genere e non di sesso 
  • va utilizzato un linguaggio specifico se si vuole comunicare con una tipologia di persone in particolare

Altre linee guida da seguire per realizzare contenuti inclusivi ci vengono suggeriti anche dalla guida allo stile della documentazione per sviluppatori di Google. Eccone alcune:

  • Evita un linguaggio di genere non necessario prestando attenzione all’uso dei pronomi e di tutte le possibili fonti di linguaggio di genere.
  • Evita un linguaggio inutilmente violento non usando un linguaggio figurativo che possa essere interpretato come violento
  • Scrivi esempi diversi e inclusivi usando nomi, generi, età e luoghi diversi negli esempi.
  • Scrivi su funzionalità e utenti in modo inclusivo evitando di fare riferimento alle persone in modo divisivo identificandole per categorie
  • Sostituisci i termini stabiliti, ovvero quelli ampiamente utilizzati con termini più inclusivi
  • Non utilizzare un nome o una parola chiave non inclusiva a meno che non sia nel carattere del codice
  • Evita pregiudizi e danni quando parli di disabilità e accessibilità. Non descrivere le persone senza disabilità come “normali” o “sane”, cerca i modi in cui le persone nelle comunità di cui scrivi preferiscono essere identificate, evita termini che riflettono o proiettano sentimenti e giudizi sulla disabilità di una persona, evita eufemismi o termini paternalistici 

Le caratteristiche dei contenuti inclusivi

I contenuti inclusivi si caratterizzano per essere:

  • empatici
  • significativi
  • descrittivi 
  • esplicativi
  • illustrativi
  • informativi
  • economici
  • diversi 
  • ordinati 
  • consapevoli del codice

Vediamo nel dettaglio in che modo produrre contenuti che abbiano queste caratteristiche.

I contenuti empatici

Produrre contenuti empatici si traduce nell’avere maggiore considerazione di tutti i possibili fruitori di quel contenuto, come le persone con disabilità motorie o cognitive e dell’impatto che questi contenuti possono avere su queste persone.

I contenuti significativi

Un contenuto può essere significativo ad esempio se viene inserito il titolo dell’oggetto nel collegamento ipertestuale presente nel testo. Questa accortezza permette infatti all’utente di comprendere l’argomento fuori contesto.

I contenuti descrittivi

I contenuti sono descrittivi quando vengono utilizzate descrizioni pertinenti inserite all’interno del testo alternativo, così da non escludere le persone non vedenti che non potrebbero altrimenti vedere immagini come le infografiche.

I contenuti esplicativi

Spiegare bene la call to action quando presente è fondamentale, ma altrettanto importante è non utilizzare i colori nell’invito a cliccare su un determinato punto nella pagina (ad es: fai clic sul pulsante verde per accedere) così da non escludere gli utenti dislessici che troverebbero un limite nella fruizione del testo. Preferire l’utilizzo di simboli o etichette è una scelta più inclusiva.

I contenuti economici

La riduzione dei tempi di caricamento e download è fondamentale per facilitare gli utenti con una connessione più lenta. Per farlo è sufficiente inserire immagini con una risoluzione inferiore e file meno pesanti.

I contenuti illustrativi

I contenuti illustrativi non devono essere immagini in movimento poiché rappresentano quel tipo di contenuto in grado di distrarre facilmente gli utenti con disabilità cognitiva, tuttavia immagini senza caratteristiche di movimento e pertinenti al contenuto sono un’ottima soluzione a  corredo dell’articolo per facilitare la comprensione del contenuto a utenti con tali disabilità, seppur sempre con l’aggiunta di un testo alternativo a corredo delle immagini.

I contenuti informativi

Attraverso titoli e sottotitoli all’interno del testo sarà possibile identificare più facilemente gli argomenti ed offrire così una presentazione del testo divisa in blocchi che permettono una lettura più semplice specialmente a persone anziane o con dislessia.

I contenuti diversi

Produrre contenuti diversi significa utilizzare un contrasto tra il primo piano e lo sfondo rispetto alle immagini e ai suoni, così da andare incontro alle persone non udenti o con altre disabilità quali dislessia o daltonismo.

I contenuti ordinati

Per realizzare contenuti ordinati è necessario visualizzare i contenuti della pagina del sito senza un foglio di stile ma utilizzando uno screen reader, ovvero lo stesso strumento che utilizzerà una persona non vedente. In questo modo sarà possibile verificare se questi utenti avranno un percorso di navigazione di senso compiuto.

creare contenuti inclusivi in azienda

I contenuti consapevoli del codice

Il software di lettura dello schermo per non vedenti e ipovedenti non effettua una lettura dello schermo bensì accede ad una codifica nota come linguaggio di markup ipertestuale, perciò la presenza di titoli descrittivi che aiutano gli utenti non vedenti nella fruizione del testo è fondamentale per permettergli di scegliere facilmente se il contenuto può essere o meno di loro interesse.

Per quanto riguarda la creazione di contenuti inclusivi per i video, anche Youtube, attraverso un’infografica ha raccolto una serie di domande da porsi come utile supporto per la produzione di contenuti inclusivi.

Di seguito è riportata la traduzione delle domande principali presenti nell’infografica di Youtube.

  • Contenuto: quali argomenti sono trattati e quali prospettive sono incluse?
  • Sullo schermo: cosa vedono le persone quando vengono a trovarmi?
  • Coinvolgimento: come posso coinvolgere e supportare altri creator?
  • Pubblico: come penso al pubblico quando creo contenuti?
  • Creatori di contenuti: chi fa parte del mio team?

Conclusioni

In conclusione una comunicazione inclusiva è un elemento fondamentale per qualunque tipo di azienda poiché grazie a contenuti inclusivi è possibile mirare ad acquisire una fetta di mercato sempre maggiore. 

Per raggiungere tale obiettivo un buon approccio iniziale una volta posta la giusta attenzione a tutti gli aspetti più “tecnici” della costruzione dei contenuti all’interno delle pagine, può essere quello di chiedersi: quali argomenti trattiamo come azienda, nella nostra comunicazione e quali punti di vista sono inclusi?

instagram giveaway

Giveaway e concorsi fotografici su Instagram: regole base per muovere i primi passi

Nati in America, i giveaway ormai sono popolarissimi anche in Italia e sono assimilabili a veri e propri concorsi a premi. All’utente, di solito, viene chiesto di svolgere una o più azioni in cambio della possibilità di ricevere un premio, a seguito di un’estrazione.

Prendiamo questo meccanismo e trasponiamolo su Instagram, il social visual più utilizzato al mondo; può così diventare uno strumento molto potente di awareness e di engagement.

Questo è il motivo per cui i giveaway si moltiplicano. A esserne interessati, sono solo i settori del fashion e del beauty: nel corso degli ultimi anni, il food ha coperto un bacino di utenza sempre più ampio. Sono appassionati di cucina, persone attente alla forma fisica o che vogliono preparare una cena speciale senza rinunciare all’estetica del piatto: sappiamo bene che, per noi italiani, il cibo è un elemento fondamentale della cultura.

Instagram, per la sua natura di raccoglitore di foto e video ispirazionali, diventa quindi un canale da tenere in considerazione per ogni azienda. Anche la piattaforma e i suoi manager lo sanno, per questo è nata la sezione Shop ed è diventato più facile creare il proprio catalogo di prodotti da mostrare agli utenti.

Considerando che del miliardo di utenti di Instagram, il 71% ha un’età inferiore ai 35 anni e utilizza la piattaforma per circa 58 minuti al giorno, è comprensibile che i brand siano impegnati in una lotta serratissima per catturare la loro attenzione sul feed.

statista instagram use

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Quali sono le iniziative a premi realizzate dai brand su Instagram

Come dicevamo, si lotta. Vogliamo che i nostri prodotti vengano conosciuti dagli utenti giusti, lanciargli il giusto messaggio e seguirli fino alla conversione finale.

Instagram, infatti, può generare un’interazione 4 volte superiore rispetto a quella su Facebook. Perché questo avvenga, sarà però necessario creare una motivazione attraverso la quale l’utente venga in contatto con noi.

Qui possono entrare in gioco i contest. In particolare, sono due le esperienze di concorsi su Instagram proposte agli utenti:

Il Giveaway

Si chiede all’utente di commentare un post, taggare i propri amici e\o seguire il profilo. In cambio, potranno essere sorteggiati per ottenere un premio.

A differenza di un Giveaway classico, che si svolge all’interno di uno spazio web come un sito o una landing page, l’intero flusso di partecipazione è su Instagram.

Le community che seguono i propri brand preferiti su Instagram sono molto attratti dalle occasioni che offrono nuovi prodotti in omaggio, dalla possibilità di incontrare i propri idoli o altri tipi di gratificazioni.

Instagram Giveaway - mastro geppetto e ra boutique

Realizzarlo tecnicamente non richiede particolari complessità: basta pubblicare un post annunciando l’iniziativa, ottenere interazioni e commenti, nominare quindi il vincitore e attribuirgli il premio.

Il contest fotografico con #hashtag

Si chiede all’utente di realizzare una foto e\o un video seguendo il tema del regolamento (spesso viene chiesto che il prodotto si trovi all’interno del contenuto) inserendo in descrizione l’hashtag ufficiale e la menzione del profilo del Brand.

In questo caso, oltre all’engagement si riescono a produrre UGC (User Generated Content) che poi possono essere repostati sul profilo aziendale. Inoltre, stimolati dalla ricezione di un premio, i partecipanti si trasformano in “micro-influencer”, facendo conoscere il prodotto anche ai loro follower.

Ankarsrum - Foto Contest

Quali sono i rischi

La maggior parte di queste iniziative che troviamo su Instagram non sono “a norma di legge”: non sono mai stati comunicati al MiSE (Ministero dello Sviluppo Economico), non hanno un sistema di mirroring invisibile e anche la questione premi e vincitori sono spesso gestiti “in modo artigianale”, attraverso comment picker gratuiti sul web.

I social contest non sono vietati in sé, lo diventano se non viene seguita la precisa normativa indicata dal MiSE.

Sono un influencer, un’associazione, una P.IVA: posso fare un contest su Instagram?

Purtroppo la risposta è “No, ma…”

I contest, sotto ogni forma e non solo su Instagram, possono essere realizzati solo da aziende che hanno una sede legale in Italia. Se rientri nelle categorie di cui sopra, stringi una collaborazione con il brand del premio che vorresti mettere in palio e fai in modo che sia lui il soggetto promotore.

Se vuoi raggiungere più utenti e far conoscere nuovi prodotti, un concorso su Instagram può essere super produttivo, ma segui l’iter del MiSE facendoti aiutare da agenzie specializzate e usando tool certificati che effettuano il mirroring dei dati su server italiani, per evitare di incorrere in pesanti sanzioni.

marketing automation

I vantaggi dell’applicazione della Marketing Automation in azienda

Hai mai pensato di andare in America utilizzando una barca a remi?”. Può sembrare una domanda banale dalla altrettanto banale risposta, ma per molte aziende non è così.

Molto spesso, infatti, le aziende nutrono grandi speranze di emergere nel proprio mercato senza però considerare che, senza un’adeguata strategia, questo viaggio lo stanno affrontando praticamente a nuoto.

Sappiamo bene quanto la digital transformation abbia portato una serie di vantaggi assolutamente impensabili, fino a qualche anno fa, nelle nostre vite e nei nostri business.  E siamo consapevoli di quanto questa evoluzione viaggi ad una velocità impressionante.

Eppure, ancora oggi, si fa fatica a comprendere che le azioni di marketing che servono a generare nuovi lead, a mantenere costante il rapporto con il cliente e a migliorare il loro Lifetime Value, possono essere automatizzate.

Marketing Automation

La Marketing Automation ha seguito passo passo questa evoluzione: dal semplice autorisponditore che aveva il compito di avvisare con una email il completamento di un form online, siamo arrivati a sostituire il customer care umano con un semplice bot dotato di intelligenza artificiale, in grado di suggerire il prodotto migliore grazie ad un’analisi predittiva di acquisto.

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Marketing Automation, questa (semi)sconosciuta

Cos’è la Marketing Automation? Per semplificare al massimo, si tratta un tool (o, se vi piace di più, un software) che permette di automatizzare campagne di marketing, generare continuamente nuovi lead e portare a profitto tutte le azioni con il cliente in funzione delle sue risposte a “stimoli” di marketing, per mantenere sempre attiva la sua customer journey.

Riduttivo? In qualche modo, sì, ma prima di tutto, scopriamo quali sono i vantaggi nell’applicazione della Marketing Automation in un’azienda.

Ecco i 5 principali:

  • Migliorare la comunicazione con clienti e fornitori: se prima la comunicazione era massiva, la Marketing Automation ha dato la possibilità di far scegliere al contatto quando e come comunicare, eliminando completamente le barriere del tempo (a differenza di un essere umano, fa gli “straordinari” in azienda 24/7) e dello spazio (il canale migliore lo sceglie il cliente stesso e il tool si adegua di conseguenza);
  • Conoscere il target, i giusti mezzi e canali: più di ogni altra cosa la Marketing Automation ha il potere di clusterizzare in modo automatico i contatti in funzione delle azioni che esso compie (applicando anche strategie di scoring), non solo in termini di acquisto.
  • Acquisire nuovi lead e fidelizzare clienti: oggi più che mai l’azienda deve essere multi-canale (online e offline). Nulla può essere lasciato al caso, anche perché è possibile prevedere i touchpoint con il cliente ma alla fine sarà sempre lui a scegliere quello più comodo (ci sarà il contatto amante delle lunghe chiacchierate al telefono e quello che “si sfoga” con un’intelligenza artificiale in chat). Ecco quindi come la Marketing Automation può amplificare questa presenza, facendosi trovare pronta per cogliere quei segnali utili a generare nuovi lead o mantenere attivo l’interesse dei già clienti nei confronti dell’azienda;
  • Risparmiare tempo (e denaro) in processi ricorsivi: in due parole mantenere efficacia ed efficienza in azienda;
  • Aumentare le opportunità di vendita: seguire un contatto in tutta la sua Customer Journey, capirne le abitudini e in funzione di esse individuare automaticamente, con l’aiuto dell’AI, il momento migliore per proporre il prodotto che fa per lui, risolvendo il suo bisogno.

Volendo riassumere questi 5 punti, se prima il reparto marketing di un’azienda doveva prevedere e ipotizzare se un lead fosse freddo o meno, intuendo lo step migliore da intraprendere per portare il contatto verso l’acquisto (con buona pace del Sales team che perdeva tempo su contatti non in target o non pronti all’acquisto), oggi la Marketing Automation analizza e automatizza ogni passaggio, riscaldando il cliente adattandosi in tempo reale ad ogni sua azione, misurando ogni interazione.

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Attenzione! Questo non vuol dire soppiantare completamente e mandare a casa un intero reparto marketing. Pensare questo è come prendersela con la tecnologia che toglie posti di lavoro a chi non sa adattare la propria professionalità al cambiamento. Se esiste un’evoluzione digitale, esiste anche un’evoluzione professionale.

Ed ecco, quindi, che la Marketing Automation non può ridursi ad un semplice tool.

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Il Titanic è affondato a causa di un iceberg

Ai suoi tempi, il Titanic  fu definita la nave inaffondabile. Il modo perfetto per raggiungere l’America il più velocemente possibile. Eppure, purtroppo, non è bastato solo il mezzo.

C’è un lato nascosto, infatti, sotto la punta di questo enorme iceberg che molto spesso viene sottovalutato dalle aziende che vogliono approcciarsi alla Marketing Automation e che, spesso, ne determina l’insuccesso nelle diverse attività.

Considerare la Marketing Automation ad un semplice tool significa non comprendere quanto sia necessario progettare ogni aspetto che la Strategia di Marketing Automation andrà a toccare. Se questa strategia non è ben definita e, con lei, le aree del business che verranno investite da questa “innovazione aziendale” i risultati possono essere solo negativi.

Il concetto è semplice, la Marketing Automation è un acceleratore per il business. L’accelerazione può essere positiva (e allora il business si trasformerà in un razzo per portarci in America) o negativa (neanche il nuoto potrà salvarci).

Se un imprenditore pensa che “installare” un software di Marketing Automation sia la panacea per il suo business, senza prima adattare la propria azienda a questo cambiamento (migliorando sia gli aspetti organizzativi che le strategie a supporto di questa innovazione), ha creato la prima falla durante la navigazione verso il successo.

La Marketing Automation è quindi un acceleratore pazzesco per un’azienda e, come tale, deve essere controllato.

digital tool della settimana

Genei, Purpley e Relaxx: i digital tool della settimana

Una nuova selezione di una manciata di tool utilissimi anche per questa settimana. Risparmiare tempo e riscoprire il silenzio possono aggiungere gran valore alla nostra giornata, specie se siamo stressati d scadenze e task.

Tra una call e l’altra, mentre rispondiamo furiosamente alle decine di email in sospeso, alcuni di questi tool possono aiutarci a ottimizzare le risorse a nostra disposizione e a non perdere la testa, anche quando il burnout si affaccia minaccioso all’orizzonte.

Ecco i nostri strumenti digitali per questa settimana.

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L’estensione salva-tempo

digital tool genei

Hai mai sognato di riassumere un articolo o una pagina web in una semplice lista, facile e veloce da capire? Genei è il tool che fa per te! Utilizza l’intelligenza artificiale per riassumere automaticamente qualsiasi pagina web, articolo o PDF in un elenco puntato.

Una cena perfetta dopo il lavoro

digital tool purpley

Sfruttando migliaia di recensioni di sommelier professionisti, Purpley fornisce abbinamenti perfetti di cibo e vino. Oltre 100.000 cibi e piatti sono supportati da raccomandazioni per 125 varietà diverse.

Zero mail in arrivo

digital tool per email

Hai mai sognato di avere un grande bottone rosso che, quando viene premuto, cancella tutte le email non lette della tua casella di posta? Bene, Nuke è un tool in edizione limitata che fa più o meno questo: risponde a tutte le email in sospeso comunicando ai mittenti che saranno ricontattati in pochi giorni. E poi, nei giorni successivi, ti mostra quelle email (1-2 al giorno) in modo che tu possa rispondere senza essere sopraffatto.

Sei un feticista del silenzio?

relaxx digital tool

Prova l’app Relaxx e “Ottantasei miliardi di neuroni nel tuo cervello ti ringrazieranno per aver dato loro un po’ di riposo”. Lo promette il dottor Krishna Bhatta , il creatore di questo tool di meditazione, ideale per creare pause silenziose di 10 minuti, utili contro il logorio della vita digitale!

Supera l’overload da newsletter

digital tool rollups

Se ti senti ormai sommerso dalle newsletter alle quali ti sei iscritto e non fai in tempo a leggere tutto ciò che vorresti, puoi provare Leave me alone Rollups. Uno strumento per sostituire il flusso costante di email con un unico riassunto settimanale. Per tutto il resto, naturalmente, c’è la mitica Ninja PRO Information!

 

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Se hai trovato utili questi tool, attiva la prova gratuita di Ninja PRO Information. Riceverai ogni giorno le news sempre aggiornate (anche in versione audio), insight, analisi degli esperti e i nostri consigli sui migliori strumenti.

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Brand Purpose: 10 marchi che non hanno avuto paura di schierarsi

Brand Purpose: ovvero come anteporre un bisogno naturale del consumatore al suo portafoglio.

Da qualche anno le persone decidono di interagire con un brand o una marca più in base ai suoi valori che ai prodotti o i servizi che eroga.

Da molti questa è indicata come l’alba di un futuro che appartiene a quelle realtà che riusciranno a prendersi cura della collettività, oltre che dei risultati di business.

Che cos’è la Brand Purpose?

La migliore definizione di Brand Purpose che si possa immaginare è “un motivo superiore che giustifica l’esistenza di un brand che non sia il mero profitto economico“.

Per comprendere meglio cosa sia la Brand Purpose, il capolavoro di Simon Sinek, Partire dal Perchè, è senza dubbio il punto di partenza migliore.

Secondo Sinek, conoscere il “Perché” più profondo che spiega la ragione per cui un’azienda o un brand esistono, fornisce le basi su cui costruire tutto il resto. Ovvero il “Come” (la cultura organizzativa, l’esperienza e il know-how del marchio) e il “Cosa” (gli specifici prodotti o servizi offerti).

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Uno dei maggiori problemi quando si discute di questo argomento è che non sembra esserci un insieme di termini comunemente accettati per definire “purpose” e il modo in cui un’azienda lo traduce in azione. Una delle storie più efficaci che illustrano il potere della brand purpose come fonte di ispirazione per aziende e organizzazioni è quella che coinvolge il presidente americano John F. Kennedy.

In visita alla NASA nel 1962, Kennedy incrociò un inserviente intento a ritirare una scopa. Domandando all’uomo cosa stesse facendo, l’inserviente gli rispose: “Signor Presidente, sto aiutando la mia azienda a portare un uomo sulla luna“. Questa espressione è altamente indicativa di quanto lo “scopo” della NASA fosse permeato in ogni singola persona all’interno dell’organizzazione.

Una Brand Purpose semplice, immediata e aderente ai valori identitari è ciò che contraddistingue un’azienda agli occhi delle nuove generazioni di consumatori.

10 esempi di 10 aziende che hanno dichiarato la loro Brand Purpose

1. Bring Hemp Home, Patagonia

Non è un segreto che il brand di abbigliamento tecnico sportivo sia da tempo impegnato sul fronte della sostenibilità.

L’anno scorso, Patagonia Workwear ha messo in contatto un’azienda agricola della San Luis Valley, Colorado, con i geologi della Colorado State University, il governatore del Colorado e il fornitore di canapa per Patagonia dalla Cina.

Bring Hemp Home: Patagonia si è schierata in prima linea per fare in modo che lo Stato del Colorado aderisse a una partnership integrata per ripristinare l’industria della canapa negli Stati Uniti, promuove la salute del suolo e offrire agli agricoltori americani una possibilità di continuare a lavorare la terra.

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2. The Toughest Athletes, Nike

Nike si impegna per portare innovazione e ispirazione a ogni atleta nel mondo. La vision fortissima di Nike è che se hai un corpo, sei un atleta.

La maternità potrebbe sembrare diversa per ogni donna di questo mondo. Ma il marchio sportswear più famoso al mondo ci tiene a sottolineare che non importa come una mamma si allena. È sempre l’atleta più tenace.

Questa è l’ultima campagna di Brand Purpose con cui Nike dichiara di fare tutto il possibile per espandere il potenziale umano. Non solo con l’innovazione tecnologica dei suoi prodotti, ma lavorando per una produzione sostenibile e producendo un impatto positivo nelle comunità in cui è presente.

3. Plants Now Made from Real Plants, LEGO

Quando il celebre produttore di giocattoli danese ha annunciato l’intenzione di riformulare l’essenza letterale del suo prodotto – sostituendo la plastica tradizionale con plastica di canna da zucchero – a molti è sembrata una mossa rischiosa.

Tuttavia, l’impegno di LEGO per distribuire i nuovi mattoncini nella maggior parte delle sue collezioni entro il 2030, dimostra un scelta di responsabilità verso la sostenibilità e le generazioni future che mette da parte le logiche di marketing aziendali in favore di un serio impegno sociale.

4. FedEx Commits to Carbon Neutral by 2040, FedEx

FedEx Corp, una delle più grandi compagnie aeree cargo al mondo, ha annunciato pochi giorni fa di voler impegnarsi per raggiungere un obiettivo ambizioso: completare le consegne a livello globale a emissioni zero entro il 2040.

Per contribuire a raggiungere questo obiettivo, FedEx sta impegnando più di 2 miliardi di dollari di investimento in tre aree chiave del suo business: elettrificazione dei veicoli, uso di energia sostenibile e abbandono graduale di fonti energetiche provenienti dal carbonio.

5. Buy a Lady a Drink, Stella Artois

Probabilmente Stella Artois, la storica produttrice di birra belga, è l’ultimo marchio a cui tipicamente si associa una campagna di Brand Purpose. Tuttavia la sua campagna “Buy a Lady a Drink” è durata tre anni fino al 2017 e ha portato maggiore consapevolezza sulla crisi idrica globale.

Presentata da Matt Damon e in collaborazione con Water.org, Stella Artois ha utilizzato annunci televisivi per ingaggiare ulteriormente i consumatori e sensibilizzarli.

La campagna prevedeva che per ogni confezione di bottiglie e calici in edizione limitata acquistati, si poteva fornire un mese di acqua pulita alle donne e alle loro famiglie nei paesi in via di sviluppo.

6. The Look, P&G

Lanciata nel 2019, la campagna “The Look” racconta fatti e storie contemporanee per evidenziare il pregiudizio di carattere razziale sperimentato da donne e uomini di colore in America.

Il cortometraggio aiuta a creare empatia, cambiare prospettiva, sollecitare l’introspezione personale e riunire le persone per affrontare un dibattito costruttivo.

Procter & Gamble, con il video The Look e la più ampia campagna Talk About Bias, ha deciso di affrontare la questione razziale in America con uno strumento educativo che ispirasse trasversalmente tutti i livelli sociali del paese.

7. Flowe

Difficile scegliere un’unica campagna che rappresenti in pieno la Brand Purpose di Flowe, l’app di servizi finanziari che promette di piantare un albero in Guatemala per ogni carta di debito aperta con il servizio. L’azienda è stata fondata prendendo in considerazione quelli che sono i principali bisogni dell’uomo di oggi e del futuro: sostenibilità e crescita personale.

Flowe ha deciso di racchiudere il suo brand (e il suo business) all’interno di due direttrici ben definite: un ambiente più sano e un uomo migliore. Grazie al forte coinvolgimento di giovani creator, influencer e youtuber, l’azienda guida le persone verso scelte consapevoli, che guardano all’evoluzione della società cercando di alleggerire in qualsiasi modo il carbon footprint, la produzione di plastica e l’impatto dei consumi sulla Terra.

8. Apple at Work – The Underdogs, Apple

Nella Top 10 delle Brand Purpose, non poteva mancare Apple, il brand ispirazionale per eccellenza.

Nel 2019 Apple ha aggiornato la sua homepage business con un nuova sezione ”Apple at Work” in cui si descrive come gli utenti aziendali possono sfruttare i device della casa di Cupertino al meglio.

Per sostenere questa iniziativa, Apple ha realizzato un video intitolato “The Underdogs”. Il corto si concentra su come i vari prodotti hardware di Apple lavorino in sinergia e senza soluzione di continuità per creare un ecosistema condiviso e coeso.

Il messaggio che Apple vuole trasmettere è il seguente: “quando le persone hanno il potere di lavorare come vogliono, possono cambiare il futuro della loro attività“. “The Underdogs” segue quattro colleghi che hanno due giorni per preparare un progetto e presentarlo in meeting.

È così che Apple bussa alla porta di milioni di lavoratori e colleghi in tutto il mondo per far sapere che i suoi prodotti saranno sempre pronti ad offrire il sostegno necessario. Per inciso, la scatola della pizza progettata nel video è quella che Apple utilizza realmente nei suoi Caffè Macs a Cupertino.

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9. The Nightwatch on tour, Philips

Il 2020 è stato certamente un anno fuori dall’ordinario. E Philips, come tanti altri brand, ha preso parte alla lotta contro la pandemia con i mezzi a sua disposizione, attraverso i valori che contraddistinguono l’organizzazione in campo tecnologico e sociale.

Uno dei recenti progetti che ha maggiormente contraddistinto la Brand Purpose dell’azienda è “Night Watch On Tour” sviluppato nell’estate del 2020. Una speciale partnership tra Philips e il Rijksmuseum di Amsterdam, ha permesso di ammirare diverse repliche a grandezza naturale del dipinto The Night Watch di Rembrandt in trenta case di cura in tutti i Paesi Bassi.

Lo scopo dell’iniziativa era proporre agli anziani residenti, bloccati a causa della pandemia, un momento piacevole di intrattenimento culturale di alto livello. I volontari di Philips hanno reso possibile il progetto agendo come vere e proprio guide museali per i residenti delle case di cura, raccontando la storia dietro il capolavoro e rispondendo alle domande degli ospiti.

10. Womb Stories, Bodyform

Bodyform, azienda UK di prodotti per l’igiene e la cura della persona,  si è schierata in prima linea per far luce sugli aspetti che influenzano in modo particolare la salute delle donne. La campagna “Womb Stories” del 2020 mirava proprio a questo: evidenziare le “verità non dette” che caratterizzano le esperienze fisiche delle donne, come l’endometriosi, l’infertilità, i primi cicli mestruali e le vampate di calore della menopausa. Momenti che hanno un impatto sul benessere emotivo e mentale di una donna.

La campagna video, supportata da una serie di animazioni che si intrecciano con filmanti di vita reale, raffigura gli avvenimenti all’interno dell’utero di sei donne che vivono vite diverse. Womb Stories è stata creata sulla scia di una ricerca che ha rilevato che il 21% delle donne percepisce un dibattito sociale insufficiente riguardo le esperienze specifiche del sesso femminile. Mentre il 44% delle donne coinvolte nella ricerca, ritiene che ciò abbia danneggiato la propria salute mentale.