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L’affascinante storia di Netflix che dovresti conoscere

  • Nell’arco di un ventennio Netflix ha cambiato radicalmente tempi e modi di fruizione dei prodotti audiovisivi.
  • Nella realtà dei fatti, la sua nascita non fu esattamente frutto di un colpo di genio.

 

Il “mito” della fondazione di Netflix risale a metà degli anni ’90, quando Reed Hasting, uno dei due founder, si trovava a dover pagare a Blockbuster una penale di 40 dollari per aver restituito in ritardo la videocassetta di Apollo 13. In seguito a quell’episodio, avrebbe iniziato a riflettere sulle possibilità offerte dal mercato dei dvd, allora in ascesa e ancora poco diffuso.

Nella realtà dei fatti, la nascita di Netflix non fu esattamente frutto di un colpo di genio, come ha raccontato Marc Randolph, l’altro founder e CEO di Netflix in un libro di recente pubblicazione, That will Never work.

Le epifanie sono rare. E quando compaiono nelle storie sulle origini, sono spesso troppo semplificate o semplicemente false. Ci piacciono questi racconti perché sono in linea con un’idea romantica di ispirazione e genialità. Ma la verità di solito è più complicata di così.

Quando diedero vita a Netflix, Hashting e Randolph avevano lavorato insieme già per diversi anni da Pure Atria, la software house nella Silicon Valley gestita dallo stesso Hastings, prima che Pure Atria fosse acquisita a sua volta da Rational Software.

Sempre Randolph ha raccontato che la società è stata fondata nel 1997 quando lui e Hastings decisero di creare “the Amazon of something”, e quel qualcosa fu il primo servizio online di noleggio di dvd.

Convertito nell’arco di un decennio dal noleggio allo streaming, Netflix conta ad oggi 151 milioni di abbonati in 190 paesi, con un fatturato di 20,16 miliardi di dollari e un valore azionario di 470,61 dollari (23 settembre 2020).

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Il primo servizio Netflix

Nel 1998 Reed Hastings era un imprenditore trentacinquenne che aveva appena venduto Pure, la sua software house, con profitti milionari. Insieme a Marc Randolph, che vantava già ai tempi una brillante carriera come consulente e investitore nella Silicon Valley, aprirono la piattaforma netflix.com, dove si potevano noleggiare online film in formato dvd, che venivano consegnati a domicilio entro 3 giorni lavorativi.

Gli utenti potevano sfogliare una libreria e ricevere il film comodamente a casa a un prezzo accessibile, e poi rispedirlo dopo averlo guardato.

Lanciato inizialmente come “Kibble”, Netflix è un sevizio nativo digitale, che ha offerto una prima alternativa al noleggio tradizionale, mettendo in crisi colossi come Blockbuster.

Nel giro di un decennio, infatti, Blockbuster vide i propri affari crollare, per poi dichiarare bancarotta nel 2010 e sparire completamente dalla circolazione 3 anni dopo.

Netflix-Blockbuster

E pensare che esattamente 10 anni prima il CEO di Bluckbuster aveva liquidato una proposta di collaborazione da parte di Reed Hastings e sempre nello stesso periodo rifiutò di comprare Netflix per 50 milioni di dollari. Ad oggi, Netflix ha una capitalizzazione di mercato di 209,74 miliardi di dollari (luglio 2020).

La svolta streaming

In quegli anni, in parecchi avevano fiutato la nuova opportunità di business, non solo per il noleggio per posta, ma anche per i primi servizi di download a pagamento, Amazon e Apple in prima linea.

Dal lato suo, Netflix ha sempre saputo distinguersi per la personalizzazione del servizio: fin dal 2001 è stata introdotta sulla piattaforma la sezione “consigliato per te”, che utilizzava le valutazione degli utenti per intercettare i gusti e anticipare le scelte.

Ma la vera svolta è avvenuta nel 2007 con il lancio del servizio streaming “Watch now”, che consentiva di guardare istantaneamente film e programmi televisivi sul loro computer. Gli utenti avevano accesso ad un massimo di 18 ore di streaming gratuito, numero variabile in base al piano di abbonamento dell’utente.

Lo streaming fu lanciato inizialmente come plus per gli abbonati al noleggio per posta e accessibile dallo stesso account, ma era chiaro da subito che sarebbe stato il futuro dell’intrattenimento: alla fine del 2007 Netflix aveva 7,5 milioni di abbonati con un incremento del 20% rispetto all’anno precedente.

La debacle di Qwikster

Nonostante le intuizioni fossero quelle giuste fin dall’inizio, la storia di Netflix non è stata sempre una vie en rose.

Nel 2011 Hastings decide di scorporare il servizio streaming da quello del noleggio di dvd, che rese accessibile separatamente, con il nome di Qwuikster. I due servizi avrebbero avuto due account diversi e il piano tariffario sarebbe variato in base al servizio o al pacchetto di servizi selezionato.

In pochi mesi la piattaforma aveva perso circa 600 mila abbonati e le azioni della società metà del valore.

Nonostante ciò, Hastings decise in un primo momento di mantenere una linea dura, tenendo separato il servizio di noleggio, ma circa un mese dopo dovette arrendersi al malcontento del suo pubblico e abbandonare i suoi piani per Qwikster.

Il 2017 è un altro anno nero per Netflix

Anche il 2017 è stato un anno tutt’altro che roseo. All’inizio dell’anno Netflix introduce la funzione di download e subito dopo si ritrova nel mezzo di un’azione legale per la violazione di un brevetto depositato nel 2000, che ha coinvolto anche altre piattaforme tra cui SoundCloud, Vimeo, Starz, Mubi e Studio 3 Partners. La causa fu intentata da Blackbird Tech, una piccola società cosiddetta patent troll, ovvero che non svolge nessuna attività, ad eccezione di detenere brevetti generici per puoi muovere azioni legali contro altre aziende.

Per concludere l’anno in bellezza, Netflix commette un errore, abbastanza grave per un brand del suo calibro che comunica sui social. In un tweet, si rivolge direttamente a 53 utenti che all’inizio di dicembre avevano riguardato quotidianamente per diversi giorni la commedia romantica natalizia Christmas Price.

 

Oltre che per i toni, il tweet ha suscitato parecchie reazioni negative, in quanto ha reso lo spettatore molto più consapevole della precisione con cui le sue abitudini di visione vengono monitorate, sollevando preoccupazioni in fatto di privacy.

Cosa ha in serbo Netflix per il futuro

Come scrive Randolph nel suo libro, “per ogni idea buona, ce ne sono mille cattive”. In effetti, la storia di Netflix è stata un po’ una scommessa fin dall’inizio: quando il progetto era ancora al suo stadio embrionale, nessuno dei due founder sapeva dove sarebbe andato a parare.

Tra le idee che Randolph racconta di aver presentato ad Hastings c’erano: articoli sportivi personalizzati, tavole da surf personalizzate, cibo per cani formulato individualmente per il tuo cane.

Tutto ciò che sapevano è che l’attività che stavano avviando avrebbe coinvolto la vendita online, orientandosi da subito verso un servizio che fossa altamente customizzato. Il sistema su cui è basato Netflix porta sempre in evidenza i contenuti che possono interessare all’utente, in base alle sue interazioni.

Attualmente, molti esperti ritengono che il futuro per Netflix potrebbe non essere così radioso, a causa dell’esplosione di altri servizi streaming emersi negli ultimi anni, che sembrano minacciare il suo dominio.

Ma, che questo sarebbe avvenuto, Netflix pareva saperlo già da diversi anni, ragion per cui nel 2018 ha investito ben 12 miliardi di dollari per la produzione di contenuti originali nella sua libreria, circa l’88% in più rispetto al 2017.

Anche per quanto riguarda i suoi piani per il futuro, l’azienda resta orientata verso la produzione in casa di film e serie tv, piuttosto che sull’introduzione di un sistema basato sulla pubblicità, a cui si è opposta fin dal principio.

La comunicazione turistica in Italia: dal Bonus Vacanze alla Ferragni

  • La consegna a Chiara Ferragni del Leone d’Oro a Venezia chiude ufficialmente il cerchio di un’estate turistica all’insegna degli Influencer.
  • Il marketing turistico post-Covid ha mutato i paradigmi di comunicazione ma non è riuscito a lasciare un segno o a smuovere le persone.
  • Gli influencer come i Ferragnez, invece, hanno saputo catalizzare l’attenzione e portare visibilità e prenotazioni alle destinazioni. Ma è davvero abbastanza per la comunicazione turistica in Italia?

 

È di pochi giorni fa la notizia che Chiara Ferragni, l’imprenditrice diventata un’eccellenza italiana internazionale quasi al pari del parmigiano, si è trovata a stringere tra le braccia un altro Leone (oltre a suo figlio): il Leone d’Oro di Venezia.

Un premio prestigiosissimo nell’ambito della Biennale di Venezia, più noto in campo cinematografico ma assegnato anche “al merito” in diverse occasioni.

E proprio questo è successo pochi giorni fa all’ombra di San Marco: che il Leone d’Oro è andato a Chiara Ferragni per, rullo di tamburi, “l’impegno civico dimostrato per l’Italia in questo periodo di emergenza, ricordando a tutti le bellezze di cui l’arte, la cultura e la tradizione italiana sono ricche“.

L’influencer nostrana infatti ha scelto di passare le sue vacanze estive in Italia, visitando diverse località più o meno note e raccontandolo al suo seguito sui social. Con come risultato una valanga di “cuori” che si è tradotta anche in concreti incrementi in termini di visite e prenotazioni. Il cosiddetto “effetto Ferragnez“.

Ed è proprio in questa nuova veste di Travel Influencer che Chiara ha ricevuto il suo premio.

 

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As you know I’m a big supporter of Italy and its hidden treasures, and this is the reason why in these days I’m in Venice to show you some of the most magical places that are still not that mainstream. For this reason and for the civic engagement and commitment I gave to my country, Italy during these hard times today I received the Leone d’Oro, which is the most prestigious award that you can receive in the city of Venice. This is just the beginning and my goal is to do more everyday, for my country and my people. Come molti di voi sapranno sono una grande supporter dell’Italia e dei suoi tesori nascosti soprattutto in questo momento difficile per il turismo, e proprio in questi giorni mi trovo a Venezia per mostrarvi alcuni luoghi ancora poco esplorati. Per aver scelto la città di Venezia come tesoro da far conoscere al mio pubblico internazionale in questi tre giorni in laguna e per l’impegno civico dimostrato per l’Italia in questo periodo di emergenza ricordando a tutti le bellezze di cui l’arte, la cultura e la tradizione italiana sono ricche, sono stata insignita dalla città del Leone D’Oro. Questo è solo l’inizio ??

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È questo l’apice di tante cose. L’apice dei motivi per cui chi apprezza Chiara Ferragni come donna e come imprenditrice poliedrica l’apprezzerà ancora di più, perché è riuscita a passare dalla moda al turismo senza intoppi, confermandosi davvero una “Regina Mida” che in qualunque settore si muove, fa piovere oro.

Dei motivi per cui chi odia Chiara Ferragni la odierà ancora di più, perché vede nella consegna di un premio così prestigioso (a una persona che “non ha fatto altro che girare l’Italia a scrocco tutta l’estate”, come è stato variamente scritto sui social) una grave onta.

L’apice di un’estate strana per il turismo italiano, che è rimasto duramente colpito dagli effetti del Covid ma che ha saputo in molti casi vivere una delle sue stagioni migliori di sempre.

Infine, l’apice di un trend di comunicazione a livello turistico nel nostro Paese che fa acqua da tutte le parti, e che quindi consacra giustamente Chiara Ferragni a paladina della promozione territoriale perché sì, è probabilmente la cosa migliore che ci potesse capitare.

Ma facciamo un passo indietro…

La comunicazione turistica in Italia nell’estate del Covid

Prima di parlare di cosa ha fatto o non ha fatto la Ferragni per il turismo italiano, è opportuno chiedersi cosa ha fatto l’Italia stessa per il suo turismo. Per un settore che è stato valutato fino al 13% del PIL nazionale.

Da quando il Coronavirus ha reso evidente che nel 2020 non ci sarebbe stata un’estate tradizionale all’insegna dei viaggi, molti dei Paesi in cui il turismo ha un peso maggiore hanno iniziato a preoccuparsi profondamente.

In Italia siamo esattamente in questa situazione. A giugno si prevedevano 12,8 milioni di viaggiatori e 56 milioni di pernottamenti in meno rispetto all’estate 2019 (dati Cst per Assoturismo Confesercenti).

Fortunatamente, è stato fin da subito chiaro che alla mancanza di turismo incoming dai Paesi extra-europei avrebbe sopperito un rinnovato patriottismo italiano, e che la maggior parte delle persone abituate ad espatriare durante le vacanze avrebbe passato l’estate in Italia.

Per stimolare il turismo nelle varie regioni e zone, dalle più note alle meno conosciute, è quindi partita la solita gara alla comunicazione territoriale (principalmente basata su materiale video). E ne abbiamo viste davvero di ogni.

C’è stata la campagna nazionale, che era noiosa già dal titolo :”viaggio in Italia – per un’estate italiana“. Praticamente ogni regione si è cimentata nel suo cortometraggio, spesso senza riuscire particolarmente a distinguersi o a centrare il punto, a parte il caso di assoluta maestria della Sicilia Occidentale.

Sono cambiati i “trending topic” del turismo italiano: dal mare più bello del mondo alla promessa di un’ulteriore sanificazione degli ambienti, dalla cultura e l’arte alla sicurezza e il distanziamento.

Il governo ha provato a dare una spinta ulteriore con la manovra del Bonus Vacanze, che però, come è capitato per altre attività, è stato accolto in maniera altalenante. Complici le difficoltà burocratiche per richiederlo, alcuni albergatori che hanno provato a fare i furbi e altri che si sono trovati in difficoltà ad accettarlo, il risultato pare essere stato sotto le aspettative.

Condisci il tutto con qualche polemica e diversi scivoloni, come quello di Easyjet sulla comunicazione promozionale a dir poco discutibile sulla Calabria, e hai un quadro completo della comunicazione turistica in Italia nel 2020.

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L’Influencer Marketing nel turismo: un tema controverso

Tutto quanto sopra fa da sfondo alla vicenda in apertura. Perché è in questo contesto di comunicazione turistica italiana post-Covid un po’ confusionario e povero di risposte innovative, che assume tanta più rilevanza il tema dell’influencer marketing.

Perché diciamocelo, gli influencer, e Chiara Ferragni in testa, questo lo sanno fare: sanno far parlare di sé. Ed è proprio ciò di cui avevano bisogno alcune destinazioni turistiche quest’anno.

Come Firenze. I luoghi che hanno sofferto maggiormente del calo del turismo di quest’estate sono soprattutto le città d’arte di cui l’Italia è piena.

Con lo spauracchio del virus in attesa tra le folle ai musei, e la mancanza di turisti stranieri che solitamente riempiono Piazza della Signoria anche con 40° ad agosto, Firenze e le sue compagne d’arte hanno vissuto duramente questa estate post lockdown.

E non c’è video istituzionale che tenga, quando si tratta di convincere le persone a superare la paura.

Un metodo semplice e sicuro però c’è, secondo la logica a noi tanto cara del “purché se ne parli“: coinvolgere gli influencer.

E quando si parla di influencer, in Italia chi c’è più in alto di lei, Chiara Ferragni?

Tra lei e il marito Fedez hanno una platea di pubblico di circa 30 milioni solo su Instagram. E poi, ed è qui il punto, coinvolgere loro in una qualsiasi operazione di marketing significa muovere tutto il corredo: stampa gossippara, post sui social dei lovers & degli haters, post degli altri influencer che si accodano, etc etc.

E così è quello che in tantissimi hanno deciso di fare quest’estate: come il B&B a Manarola alla Cinque Terre che li ha ospitati in cambio di foto e commenti favorevoli sui social, portando in due giorni i follower delle pagine della struttura da tremila a trentamila e, a detta del proprietario, moltiplicando le prenotazioni.

O la Galleria degli Uffizi di Firenze, appunto, che ha coinvolto la famiglia più famosa del web in un tour guidato.

 

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Ieri ed oggi … I canoni estetici cambiano nel corso dei secoli. L’ideale femminile della donna con i capelli biondi e la pelle diafana è un tipico ideale in voga nel Rinascimento. Magistralmente espresso alla fine del ‘400 da #SandroBotticelli nella Nascita di #Venere attraverso il volto probabilmente identificato con quello della bellissima Simonetta Vespucci, sua contemporanea. Una nobildonna di origine genovese, amata da Giuliano de’Medici, fratello minore di Lorenzo il Magnifico e idolatrata da Sandro Botticelli, tanto da diventarne sua Musa ispiratrice. Ai giorni nostri l’italiana Chiara Ferragni, nata a Cremona, incarna un mito per milioni di followers -una sorta di divinità contemporanea nell’era dei social – Il mito di Chiara Ferragni, diviso fra feroci detrattori e impavidi sostenitori, è un fenomeno sociologico che raccoglie milioni di seguaci in tutto il mondo, fotografando un’istantanea del nostro tempo. ?ENG: Beauty standards change in the course of time. The female ideal of a blonde- haired woman with diaphanous skin is a very common beauty model in the Renaissance. Masterfully expressed by the Florentine Sandro Botticelli in The birth of Venus maybe portraying the face of one of his contemporary, Simonetta Vespucci. A beautiful noble woman, of Genoese origin, beloved by Giuliano de’ Medici, the younger brother of Lorenzo the Magnificent ; she was so worshiped by Sandro Botticelli that she became his muse. Nowadays, Chiara Ferragni, born in Cremona, embodies a role model for millions of followers – a sort of contemporary divinity in the era of social media – The myth and the story of Chiara Ferragni, argued by harsh critics and supported by faithful fans, is a real sociological phenomenon that involves millions of supporter worldwide and it can undoubtedly be considered a snap-shot of our time.

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Il risultato, a quanto pare, è stato un successo. Il numero che è rimbalzato per tutto Internet è diventato quasi un meme: +27%.

“Oltre all’inedito dato degli Uffizi trend topic su Instagram e Twitter, c’è quello, concreto di ben 9312 visitatori accorsi in galleria tra venerdì è domenica. […] Inoltre un vero e proprio boom di giovani in museo: un aumento del 27%, ha comunicato in una nota diffusa il direttore Eike Schmidt.

Insomma, una strategia di influencer marketing che sembra aver più che ripagato l’investimento (che tra l’altro non sembra sia stato economicamente rilevante) degli Uffizi.

Però qui arriva il punto… è davvero questo il massimo che gli Uffizi potevano ottenere dalla venuta dei Ferragnez? E non parlo della visibilità, che è stata indubbiamente tanta, ma di ciò che è rimasto. A parte ovviamente un post in cui si paragona Chiara alla Venere di Botticelli.

In un mondo digitale che vive di contenuti di valore, sicuramente l’Influencer marketing fatto in questo modo funziona (come il tour dei Ferragnez ha dimostrato ampiamente), ma forse è un peccato che non faccia nulla di più.

Da un punto di vista di comunicazione, è una mossa tristemente geniale: significa sguinzagliare un peso da novanta, senza avere la minima strategia o un obiettivo chiaro. Significa ammettere di non essere in grado di promuoversi in maniera più strategica, e quindi farlo fare a qualcun altro.

Forse gli influencer andrebbero coinvolti in un modo più originale, più creativo.

Chiara, la regina della moda sui social, davvero non ha nulla di offrire di più concreto del suo bel visino? La Galleria degli Uffizi avrebbe potuto preparare una vera e propria strategia di influencer marketing, invece che una semplice “incursione”, e beneficiare probabilmente di più di una simile collaborazione in termini di comunicazione turistica.

Ottenendo non solo visibilità ma, magari, anche del materiale di comunicazione. O una linea di magliette brandizzate Chiara Ferragni. O qualsiasi altra cosa strategicamente interessante e rilevante.

Perciò la vera vincitrice di questa campagna, se così si può chiamare, di influencer marketing turistico non è l’Italia, né Firenze, né gli Uffizi.
È Chiara Ferragni stessa. Perché alla fine tutto ciò che noi abbiamo dalla sua visita agli Uffizi è una foto di Chiara davanti ad un quadro.

Lei invece per questa e per le altre sue dimostrazioni di “impegno civico” ha ricevuto come attestato il Leone d’Oro a Venezia, e si è consacrata ancora di più nell’Olimpo delle celebrità.

E quindi applausi a lei, che il suo lavoro lo sa fare davvero benissimo, e che è davvero la promotrice migliore che poteva capitarci. Un po’ meno all’Italia e alla sua comunicazione turistica.

L’Amazon Prime Day 2020 si farà: ecco la data

Il Prime Day di Amazon si terrà negli Stati Uniti il 13 e 14 ottobre, come suggeriscono alcune email interne trapelate ieri.

Presumibilmente le stesse date varranno anche per l’Italia, ma la data ufficiale si dovrebbe sapere solo domenica prossima, 27 settembre.

Il gigante dell’eCommerce non ha ancora confermato, infatti, dopo aver ritardato l’originale Prime Day, che di solito si tiene a luglio, a causa della pandemia.

amazon

Il messaggio ai dipendenti

Secondo quanto riferito da TheVerge un’email interna rivolta ai dipendenti confermava che l’evento annuale di shopping si sarebbe svolto nell’arco di 48 ore (come lo scorso anno), tra il 13 e 14 ottobre.

Un’altra comunicazione indicava poi ai dipendenti del magazzino di Amazon che l’azienda non avrebbe accettato nuove richieste di ferie per il 13-20 ottobre, suggerendo che si aspetta che le spedizioni vengano effettuate soprattutto in queste date, con la necessità quindi di avere tutto il personale a disposizione.

Le fughe di notizie confermano comunque la dichiarazione di Amazon, che era stata costretta ad anticipare che il Prime Day avrebbe avuto luogo nel quarto trimestre, dopo che un manifesto promozionale dell’azienda di elettrodomestici Braun con offerte per il Prime Day “a metà ottobre” era stato diffuso online la scorsa settimana per errore.

Amazon Prime Day e Black Friday

Qualunque sia la data, Amazon probabilmente vuole evitare che le vendite del Prime Day e del Black Friday si sovrappongano. Secondo Tamebay, una pubblicazione per venditori terzi di Amazon, gli accordi del Venerdì Nero dovrebbero iniziare ad apparire su Amazon intorno al 26 ottobre e durare diverse settimane.

Anche in passato il Prime Day è iniziato di lunedì, mentre solo l’anno scorso l’omaggio al consumismo è durato due giorni e, secondo le stime degli analisti, il Prime Day 2019 ha fruttato circa 6 miliardi di dollari.

Reuters ha riferito a luglio che la decisione di ritardare l’evento ha fatto sì che Amazon avesse 5 milioni di dispositivi in più, tra cui la sua popolare linea di altoparlanti intelligenti Echo, che avrebbe dovuto vendere con uno sconto, ma il quinto Prime Day annuale dovrebbe includere molte offerte anche per Apple, oltre ai consueti sconti su televisori, computer portatili, abbigliamento e altro ancora.

giornalismo polarizzazione

Social media e giornalismo: si può prevenire la polarizzazione? Le risposte di uno studio

  • Gli utenti online tendono a leggere solo le informazioni che aderiscono al loro sistema di credenze. Di questo beneficia il populismo, che punta alla polarizzazione.
  • Uno studio pubblicato su Nature si chiede se il giornalismo può limitare la polarizzazione attraverso la scelta consapevole delle tecniche e delle tipologie dei contenuti.
  • Lo studio ha dimostrato che il fenomeno della polarizzazione è difficile da contenere, ma fornisce comunque alcuni spunti di riflessione per il mondo del giornalismo.

 

È ormai risaputo che gli utenti online tendono a selezionare e quindi leggere solo le informazioni che aderiscono al loro sistema di credenze, unendosi quindi a gruppi che condividono una narrazione comune (echo chambers). Una dinamica che alimenta il tribalismo e non favorisce un dibattito informato, specialmente quando le questioni sono complesse e controverse. Una spirale di cui beneficia soprattutto la politica di stampo populista, accomunata dall’utilizzo intenzionale di un linguaggio infiammatorio e dalla diffusione di idee controverse per attirare l’attenzione e dividere l’elettorato in rozze guerre di “noi” contro “loro”.

Certo, l’attuale mercato pubblicitario online non aiuta. Anzi, favorisce le storie “acchiappa clic” (clickbaiting) e non distingue fra pubblicazioni autorevoli e contenuti deliberatamente faziosi e ingannevoli. E la stessa architettura algoritmica di Internet e dei social media tende a premiare materiale ultra-fazioso, che assume posizioni estreme e polarizzanti.

Modifiche agli algoritmi, iniziative di fact-checking e altri interventi non si sono dimostrati finora efficaci nell’affrontare il problema. Per questo, la polarizzazione gioca ancora un ruolo fondamentale nelle dinamiche sociali online. Ma se si potesse mitigare il problema a partire dalle scelte giornalistiche? Esistono tipologie di contenuti in grado di limitare la retorica divisiva?

Può il giornalismo prevenire la polarizzazione?

Hanno provato a rispondere a questa domanda i ricercatori dell’Università Ca’ Foscari di Venezia e del programma Arena della London School of Economics (tra cui il Premio Pulitzer Anne Applebaum), in collaborazione con il giornalista Beppe Severgnini e la social media manager del Corriere della Sera Andrea Federica de Cesco.

113 gli articoli che i ricercatori hanno analizzato sia all’interno del sito web della testata che sulla sua pagina Facebook. Contenuti pubblicati tra marzo e dicembre 2018 e tutti inerenti al tema dell’immigrazione, argomento scelto poiché “fortemente polarizzato e diventato identitario nella dialettica politica”, come spiega Walter Quattrociocchi dell’Università Ca’ Foscari.

Obiettivo dello studio, pubblicato su Nature lo scorso mese di luglio, scoprire quali tecniche giornalistiche favorissero un dibattito più civile, attenuassero la polarizzazione e accrescessero la fiducia verso l’attendibilità dei contenuti stessi. Per permettere alla redazioni di pensare un assetto editoriale immune dai giochi polarizzanti del populismo, creando contenuti al tempo stesso popolari e attendibili, in grado di coinvolgere i lettori in modo costruttivo e non divisivo.

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Analizzare mezzi, tecniche e temi per misurare la reazione

A partire dalla pagina Facebook del Corriere della Sera, i ricercatori hanno confrontato la quantità di contenuti sull’immigrazione con il numero di migranti effettivi entrati nel Paese, esaminato il sentimento prevalente negli articoli e nei commenti, analizzato metriche quantitative relative al coinvolgimento del pubblico e infine incluso un’analisi delle annotazioni degli oltre 20mila commenti.

Lo studio, in particolare, ha analizzato i contenuti in base a mezzo (puramente visivo, testuale, multimediale, infografica), tecnica (data-driven/fact-checking, editoriale, interesse umano, notizie costruttive, cultura popolare, notizie con contesto e notizie semplici) e tema (criminalità, crisi dei rifugiati, tensioni etniche, cultura e società). Obiettivo, misurare il loro impatto sui commenti degli utenti in termini di tossicità (linguaggio tossico come misura del discorso civile), critica al giornale (critiche esplicite alla credibilità del direttore, del giornalista o del quotidiano stesso in quanto fonti di informazione) e posizione in merito all’immigrazione (pro o contro).

Linguaggio più negativo per i contenuti sull’immigrazione

Per quanto riguarda i risultati direttamente collegati al contesto politico e mediatico, la ricerca evidenzia prima di tutto che, nonostante il numero di migranti arrivati in Italia sia calato drasticamente durante il 2018, il volume di contenuti relativi al tema è invece aumentato. Un fatto che coincide con la formazione di un nuovo governo, nel giugno 2018, e con gli sforzi del ministro dell’interno Matteo Salvini per dare la massima priorità proprio alla questione dell’immigrazione.

Dallo studio emerge che gli articoli sul tema dell’immigrazione coinvolgono molto più di altri, mentre i loro commenti fanno uso di un linguaggio più negativo rispetto a quelli inerenti ad altri temi. In particolare, ottengono il coinvolgimento più alto i contenuti che riguardano Salvini.

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Fact-cheking e contenuti data-driven

Ma cos’ha scoperto la ricerca riguardo alle diverse tipologie di contenuto? Ecco i punti chiave, alcuni dei quali forse inaspettati.

  • Il resoconto di notizie lineare, imparziale e non emotivo, che fornisce un contesto, è la tecnica che suscita il minor numero di commenti critici nei confronti della fonte della notizia.
  • Le storie di interesse umano provocano forti reazioni negative: suscitano un alto numero di commenti anti-immigrazione che spesso contengono un linguaggio tossico e molte critiche alla fonte d’informazione. Forse perché le persone si sentono in questo modo manipolate emotivamente e spinte ad assumere una posizione politica? Da rilevare comunque che la critica è più morbida quando l’articolo riguarda la storia di un singolo immigrato piuttosto che di gruppi.
  • Le notizie costruttive – contenuti che offrono soluzioni pratiche – ispirano un linguaggio meno tossico sull’immigrazione rispetto ai pezzi d’opinione e agli editoriali.
  • I contenuti basati sui dati suscitano un livello estremamente basso di fiducia nella fonte della notizia e provocano una grande quantità di commenti anti-immigrazione, ma non necessariamente un linguaggio tossico. Probabilmente, come spiega Quattrociocchi, “alla presentazione dei dati si innesca il meccanismo di rifiuto che porta a dire che essi sono presentati in maniera pretestuosa. Ma il punto più interessante è che in genere ricevono poca attenzione: i dati annoiano”.
  • Gli editoriali ottengono il maggiore coinvolgimento, mentre gli articoli con riferimenti alla cultura popolare il maggior numero di mi piace.
  • I contenuti di fact-cheking suscitano più commenti critici nei confronti della fonte di informazione e più commenti anti-immigrazione rispetto agli articoli di attualità.

Bene video e contenuti multimediali, male le infografiche

E per quanto riguarda le reazioni degli utenti rispetto ai formati?

  • Le infografiche possono stimolare il dibattito e la discussione, ma ricevono notevoli reazioni negative da parte delle voci anti-immigrazione e suscitano alti livelli di critica alla credibilità della fonte di informazione.
  • I video suscitano il livello più basso di critica alla credibilità della fonte di informazione. Forse perché “vedere è credere” o perché le voci anti-immigrazione diventano silenziose di fronte a prove video? O ancora magari perché quella del video è la forma di coinvolgimento più passiva (i video generalmente ricevono un basso numero di commenti)?
  • I contenuti multimediali – combinazioni di video, testo e foto – sono accolti con un grado di coinvolgimento forte e solidale e ottengono buoni risultati anche in termini di critica alla credibilità della fonte.

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I risultati della ricerca

Quindi? Secondo Quattrociocchi, i risultati dello studio portano prima di tutto a una dura presa di coscienza: “La polarizzazione è una cosa forte, difficile da smussare e da contenere. Le dinamiche di conferma delle proprie idee sono potenti e difficilmente aggirabili, almeno con gli strumenti attuali. Il tribalismo domina il dibattito online creando frizioni e insistendo su fratture che hanno radici profonde: la sfiducia, principalmente”. 

In sostanza, la bacchetta magica purtroppo non esiste. Ma i risultati della ricerca possono comunque aiutare le redazioni a essere più consapevoli del potenziale impatto dei loro contenuti sulla qualità del coinvolgimento del loro pubblico. Lo studio invita in particolare a prediligere articoli e servizi “imparziali”, accurati e contestualizzati, meglio se in formato multimediale e in ottica costruttiva, rispetto alle storie ad alto tasso emotivo; dimostra che le infografiche e i contenuti data-driven non sono necessariamente efficaci per convincere i lettori dell’attendibilità delle informazioni fornite; consiglia di evitare opinioni troppo “forti” e poco motivate per prevenire reazioni con un linguaggio tossico. I ricercatori invitano inoltre le redazioni a guardare oltre i mi piace e le condivisioni, per esaminare la qualità del coinvolgimento del proprio pubblico attraverso metriche che non siano più solamente quantitative.

Giornalismo e polarizzazione: provocazioni per il futuro

Insomma, “la lezione è che il giornalismo come lo conosciamo va ripensato e innovato, ma quale sia la via d’uscita ancora non è chiaro”. 

Secondo Peter Pomerantsev, direttore del programma Arena della LSE, la battaglia può e deve essere combattuta anche su altri fronti. Per esempio, esercitando un controllo pubblico più stringente sugli algoritmi e sui modelli di social media che attualmente incoraggiano le posizioni più estremeriformando il sistema ad-tech, per incentivare la creazione di contenuti che non siano semplicemente ‘acchiappa clic’, ma favoriscano una partecipazione più consapevole”.

Certo, nel frattempo, sarebbe auspicabile che la ricerca venisse ampliata da approfondimenti che cercano di capire come il linguaggio e il quadro di riferimento influenzano il coinvolgimento del pubblico. Come mostra un rapporto della LSE, ad esempio, i media europei tendono a descrivere i migranti in termini di nazionalità e di età. Ma cosa cambierebbe se dovessero descriverli in base alla loro professione? O se si focalizzassero sulle cause dei fenomeni migratori, invece di limitarsi a informare su quanti arrivano o tentano di arrivare in Europa?

COVdesign design COVID-19

COVID e Design: come la creatività si incastra con le opportunità post crisi

  • Le crisi portano progresso, sosteneva Albert Einstein e il design italiano è in prima fila per guidare un nuovo rinascimento delle idee, della creatività e del saper fare.
  • I nuovi scenari delineati dalla pandemia possono essere sfruttati per innovazioni e per soluzioni adatte alla nuova quotidianità.
  • Dai pannelli di design in plexiglass alle nuove postazioni di smart working, il genio creativo si fonde con le opportunità post pandemia. Il lato positivo COVID-19 c’è.

 

La storia insegna che l’altra faccia della medaglia delle crisi sono le opportunità. Giusto per rendere il concetto un po’ pop, in questo caso si potrebbe affermare che “si fa quel che si può, con quello che si ha”. Pane per i denti della creatività italiana.

Dovremmo aspettarci un secondo Rinascimento? Possiamo sperarci. Nel frattempo, le case e le cose vengono rivisitate e adattate alle nuove esigenze imposte dai tempi COVID-19.

In effetti, il Coronavirus ha cambiato e sta cambiando il nostro modo di vivere la socialità. Un metro di distanza ci separa da tutti coloro i quali non sono né congiunti, né familiari e il file rouge che muove la nostra quotidianità è il distanziamento sociale. Trasporto pubblico, uffici, stabilimenti, teatri, negozi, ristoranti, riflettono le nuove esigenze comportamentali.

Cambieranno conseguentemente anche gli spazi che viviamo?

Nuovi scenari

Va in scena il COVdesign che punta a risolvere le necessità quotidiane relative alla pandemia. Scenari noti messi in discussione, nuovi gesti, nuove prospettive che alimentano anche la progettazione di interni e il disegno industriale.

Smart working e mascherine fanno sì che sia attribuito un senso diverso a progetti e oggetti. È ragionevole, dunque, pensare che l’emergenza COVID-19 stia riplasmando case, uffici, città e infrastrutture?

Nonostante i pareri divergenti delle archistar, si fanno spazio alcune innovazioni d’artista al passo coi tempi. Aziende e design sono all’opera.

Il desginer Matteo Cibic, per esempio, firma la collezione COV e lancia alcuni tra i progetti italiani più interessanti legati alla pandemia. Li chiama “fancy transparent socializing panels”, i paraventi di design per essere protetti senza sentirsi isolati, utili soprattutto negli open space.

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C’è poi Christophe Gernigon, che con l’idea del “distanziamento socializzante” sperimenta sospensioni isolanti di plexiglass, per restare seduti a tavola in piena sicurezza.

Non mancano le postazioni di lavoro in casa: quinte o angoli per le diverse funzioni, per lavorare da remoto in serenità. Gli spazi domestici vengono dunque riorganizzati per improvvisare postazioni ufficio.

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E ancora una volta i designer si sbizzarriscono: dalla cosiddetta plancia di comando di Patricia Urquiola alla postazione operativa con vista sul Mediterraneo di Metz e Racine, le soluzioni sono molteplici e super creative.

Design in numeri

Nonostante le opportunità da cogliere un po’ giocoforza, la crisi COVID-19 ha inferto un duro colpo al mondo del design e, in maniera particolare, al comparto legno-arredo. In effetti, le micro imprese del settore hanno perso ad aprile 2020 il 72% del fatturato, assistendo ad un calo della domanda interna ed esterna.

In Italia sono 47.447 le unità locali che operano nel settore legno e mobili, dove in molte delle quali è alta la vocazione artigiana. È da questo tessuto e dell’attività dei maker che nascono creatività e innovazioni. Creatività messa alla prova già durante l’emergenza sanitaria, quando Christian Fracassi (maker e CEO di Isinnova) trasforma la famosa maschera di snorkeling di Decathlon Easybreath in un respiratore, utilizzando la stampa 3D.

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Il progetto di Isinnova ha poi ispirato anche un giovane tecnico antincendio di Ravenna, Ottavio Giannella, che ha ideato un raccordo che collega comuni maschere antigas da lavoro a ventilatori polmonari.

Il lato positivo

L’intento non è solo quello di descrivere ciò che il design può fare per rispondere al post COVID-19, ma è di dimostrare come designer e maker svolgano un ruolo fondamentale, soprattutto in tempi di crisi.

In effetti, il design in Italia è nato negli anni ’50 proprio dalla voglia di riscatto post-guerra e, da allora, ha sempre rivestito il ruolo di decodificatore delle necessità umane, nonché di traspositore dei bisogni e desideri dell’uomo nella realtà che lo circonda. E non si limita ad intervenire sull’esteriorità delle cose, ma ne investe anche la funzionalità e il profilo semantico.

Durante quei tempi, non si trattava di progettare oggetti nuovi, ma di sfruttare ingegno e creatività per rispondere ai problemi quotidiani. Ne sono testimonianza la Vespa, la macchina da scrivere Lexicon e la moka Bialetti. Oggetti che rappresentano come le minacce più gravi possano costituire un’opportunità per l’innovazione e la collettività.

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Dunque, nella società in cui ci troveremo a vivere post Covid-19, con le sue diverse e mutate esigenze, il design sarà un fondamentale strumento di adeguamento della realtà ai bisogni ed alle aspettative umane.

Chi l’avrebbe mai detto che COVID-19 e design sarebbero stati una perfect combo? Pensarla così aiuta a guardare il lato positivo della pandemia. Per il Rinascimento rimaniamo fiduciosi.

week in social

Week in Social: dallo stop a TikTok e WeChat alla Business Suite di Facebook

Sì, è successo davvero. Dopo settimane in bilico e in attesa di un accordo che salvasse le operazioni della piattaforma video in un mercato importante come quello statunitense, alla fine Trump ha tenuto fede all’ordine esecutivo e da domani non sarà più possibile scaricare TikTok e WeChat dagli app store US.

Ma nel mondo dei social questa settimana non è successo solo questo. Come ogni sabato, abbiamo raccolto per te le principali notizie e novità del settore, per un recap da veri Specialist.

Universo Facebook

Facebook ha lanciato Business Suite. Si tratta di una nuova dashboard per aiutare le aziende a gestire la loro attività su Facebook e Instagram sia da desktop che da mobile.

Attualmente, Business Suite include strumenti come quelli dedicati alla pubblicazione, alla messaggistica, agli insight e le funzionalità pubblicitarie, migliorando l’esperienza di gestione di un’azienda attraverso le applicazioni del social.

Per iniziare a usare Business Suite, che sarà rilasciato gradualmente da settembre bisogna collegare prima gli account Facebook e Instagram, se non lo sono già. Una volta fatto ciò, sarà possibile sfruttare le caratteristiche principali del prodotto per:

  • visualizzare gli aggiornamenti e tutti gli avvisi critici, i messaggi, i commenti e le altre attività di Facebook e Instagram che richiedono attenzione all’interno della schermata iniziale di Business Suite, consentendo così di stabilire facilmente le priorità e gestire l’attività aziendale durante l’intera giornata.
  • Programmare la pubblicazione nel feed in modo incrociato tra Facebook e Instagram.
  • Visualizzare gli insight sulla reach, l’engagement e la performance dei post su Facebook e Instagram.
  • Prendere in considerazione la possibilità di sponsorizzare un post per far sì che più persone lo vedano e si impegnino con quei contenuti.

Per accedere a Business Suite, basta accedere all’account Facebook associato all’azienda. Poi, se ne hai diritto, sarai automaticamente reindirizzato a Business Suite quando visiterai business.facebook.com su desktop.

Chi sta già utilizzando l’applicazione Pages Manager su cellulare, vedrà automaticamente l’opzione per accedere a Business Suite. L’opzione non è attualmente destinata a coloro che utilizzano Ads Manager per la pubblicità.

Facebook Creator Studio ha anche aggiunto la funzione ‘Crea post di test’. Secondo quanto raccontato con uno screenshot da Matt Navarra su Twitter, sarà possibile provare fino a 4 variazioni di post, che vengono mostrate ad una piccola % del proprio pubblico.

Dal punto di vista delle funzionalità, Facebook introduce anche Watch su Messenger. La nuova funzione ‘Watch Together’ permette di guardare i video di Facebook con amici e familiari e vedere le loro reazioni in tempo reale attraverso le video chiamate di Messenger e le Messenger Rooms.

Intanto Facebook ha anche annunciato nuove regole per i gruppi. Dopo vari report su come questi spazi facilitano la diffusione della disinformazione e dei discorsi di odio, il social rimuoverà i gruppi nei quali si incita la violenza e ridurrà l’esposizione di quelli che condividono ripetutamente contenuti classificati come fake.

La misura arriva anche in seguito all’ultimo boicottaggio da parte di alcune celebrità di fama mondiale come Kim Kardashian e Leonardo Di Caprio.

Novità su Instagram

Instagram aggiunge le didascalie automatiche per i video di IGTV. La funzione si colloca nell’ambito di un più ampio sforzo per migliorare le sue opzioni per i caption, basato sull’AI e per ora disponibile in 16 lingue.

In arrivo anche una funzione per le FAQ su Instagram. La piattaforma sarebbe a lavoro su una feature di domande frequenti per gli account Business che consentirebbe una risposta più immediata ai quesiti dei follower.

Nuove opzioni su WhatsApp

L’app di messaggistica istantanea sta testando una funzione per permettere agli utenti di impostare diversi background per le diverse chat.

Mondo TikTok

Prima di passare alla news più succosa della settimana social, un breve reminder sui dati utili. TikTok infatti questa settimana ha dichiarato per la prima volta il numero di utenti mensili in Europa: 100 milioni.

tiktok

E finalmente eccoci. Trump cancella WeChat e TikTok dagli app Store americani. Dal 20 settembre, infatti, sarà impossibile scaricarle su smartphone le due app o i loro aggiornamenti. Ma la mossa del presidente potrebbe danneggiare anche le aziende USA, in primis Apple e Google.

Dopo molte minacce, alla fine la decisione si è concretizzata, “per salvaguardare la sicurezza nazionale degli Stati Uniti”, si legge in una nota ufficiale del Dipartimento del Commercio USA. Secondo il governo i divieti “proteggono gli utenti negli Stati Uniti eliminando l’accesso a queste applicazioni e riducendo notevolmente la loro funzionalità”.

Intanto il Governo è anche in attesa di prendere una decisione sull’offerta proposta di ByteDance e Oracle per le attività statunitensi di TikTok, che nel fratttempo commenta in una nota: “Siamo in disaccordo con la decisione del Dipartimento del Commercio, e siamo delusi dal blocco dei nuovi download da domenica e sul divieto di uso dell’app TikTok dal 12 novembre”.

Pianeta Twitter

Twitter ha diffuso ‘Holiday Hub’. Si tratta di un mini-sito con lo scopo di aiutare i marketer a prepararsi per la stagione delle vacanze invernali, con consigli e strumenti per mappare le loro campagne.

Twitter testa anche gli audio clip nei messaggi diretti. Dopo aver rilasciato una funzione per aggiungere clip audio nei tweet nel mese di giugno, il social sta ora testando i DM audio con alcuni utenti in Brasile.

Galassia YouTube

YouTube offre nuovi strumenti pubblicitari. Con l’aumento del tempo di visione dei contenuti della piattaforma sugli schermi delle home TV, il gigante del web ha aggiunto alcuni nuovi tool per aiutare gli inserzionisti a raggiungere segmenti di pubblico più specifici.

YouTube lancia ‘Shorts’ in India. La piattaforma video ha annunciato il prossimo lancio della funzione in stile TikTok. Si tratta per ora solo di una versione beta.

Intanto la piattaforma video pianifica anche il lancio delle conversioni Engaged-View per la fine dell’anno. Misureranno quando qualcuno guarda almeno 10 secondi di un annuncio skippable e si converte, entro un numero di giorni prestabilito.

In breve dai social

Il primo video musicale girato su Snap Spectacles. Il clip è stato realizzato per accompagnare il singolo di Bosco “4 luglio” ed è tutto basato sugli effetti di realtà aumentata di Snapchat.

I nuovi trend su Pinterest. Il social ha rilasciato alcuni dati sulle principali tendenze in quest’ultimo trimestre del 2020. I pinner continuano a riflettere soprattutto su crescita personale e benessere mentale, con significativi picchi sui temi legati alla “positività” (+64%).

A Milano nasce Phyd Hub, un nuovo spazio tecnologico che guarda al futuro del lavoro

Entro il 2022 in Italia ci sarà bisogno di 2,5 milioni di nuovi occupati e il 75% delle aziende reagirà alla crisi prodotta dal Covid-19 con attività di re-skilling.

Da questi dati nasce l’idea del nuovo spazio di Phyd, digital venture di The Adecco Group, nel cuore di Milano, dedicato a orientamento e percorsi di up-skilling e re-skilling per studenti, professionisti e imprese attraverso esperienze Phy-gital.

La location è stata ideata e costruita con un investimento di oltre 6 milioni di euro, compresa la realizzazione della piattaforma, e ha l’obiettivo di formare e valorizzare il capitale umano con le nuove skill richieste dalla costante trasformazione che il mercato del lavoro sta conoscendo.

Il futuro del lavoro (e delle competenze)

Secondo il World Economic Forum, nei prossimi 3 anni, a livello globale, l’evoluzione del mondo del lavoro – accelerata dalla tecnologia, dal digitale e dell’automazione – determinerà la nascita di 133 milioni di nuove opportunità occupazionali, a fronte di 75 milioni di posti di lavoro destinati a scomparire. Unioncamere stima che solo in Italia, ci sarà bisogno di 2,5 milioni di occupati in più.

L’impatto della crisi economica legata alla pandemia rischia di avere un impatto al ribasso su queste stime, ma il tema delle competenze diventerà ancor più cruciale. Secondo il dossier 2020 Unioncamere-ANPAL, il 75% delle aziende italiane dichiara che, per fare fronte alla crisi, nei prossimi sei mesi metterà in campo azioni di reskilling del personale già presente in azienda. Questo produrrà un’ulteriore accelerazione del processo di riconversione e rafforzamento delle competenze del capitale umano, anche per favorire l’allineamento alle nuove forme organizzative del lavoro.

Secondo Andrea Malacrida, Fondatore di Phyd e Country Manager di The Adecco Group in Italia: “Il tema dell’aggiornamento professionale continuo rappresenta uno dei punti centrali per il mondo del lavoro del futuro. Nei prossimi anni, anche a seguito dell’emergenza sanitaria appena vissuta, il mondo del business subirà cambiamenti ancor più repentini di quelli che abbiamo vissuto fino ad ora e solo chi riuscirà a coltivare le proprie competenze professionali, aggiornandole e sviluppandone di nuove, avrà l’opportunità di rimanere appetibile sul mercato del lavoro”.

Fondamentale, dunque, l’acquisizione di nuova conoscenza, sia tecnica che trasversale, tanto per gli studenti quanto per i professionisti. Le soft skill, in particolare, sono destinate ad avere un impatto determinante sulle retribuzioni, fino a incrementare uno stipendio di oltre il 40%.

Inoltre, resta attuale la criticità rappresentata dalla distanza che separa le competenze richieste dal mercato con quelle proposte dai programmi scolastici e universitari: lo skill mismatch impatta negativamente sia sui lavoratori che sulle aziende, frenando la crescita dell’intero sistema-Paese. Nel settore ICT, per esempio, il gap tra domanda e offerta di competenze è attualmente del 18%.

Come spiegato da Silvia Candiani, Amministratore Delegato di Microsoft Italia: “Lo skills mismatch è un fenomeno che in Italia sta diventando davvero rilevante e urgente. […] Non si tratta solo di implementazione di nuove tecnologie come il Cloud Computing o l’Intelligenza Artificiale, ma di avere le giuste competenze per cogliere tutte le opportunità di sviluppo che il digitale offre. Un recente studio Microsoft ha rilevato per esempio che le organizzazioni che traggono maggior valore dall’adozione dell’AI sono quelle che non puntano solamente sull’automazione e sull’efficienza operativa ma anche sulla formazione”.

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Lo spazio di Phyd Hub

Phyd Hub nasce con l’idea di permettere a studenti e lavoratori di vivere un’esperienza phy-gital e rappresenta la naturale evoluzione della piattaforma digitale Phyd, che, attraverso le soluzioni di Intelligenza Artificiale di Microsoft, misura l’attitudine e l’occupabilità di una persona rispetto ad una professione, ricavandone il grado di adeguatezza e rilevanza (employability index).

Proprio come la piattaforma, anche la location di Phyd Hub, aperta a tutti, offre contenuti poliedrici, inserendoli nella cornice di un luogo progettato in modo inedito. Lo spazio, organizzato su più livelli, ospiterà incontri, eventi, opportunità di networking e percorsi di up-skilling e re-skilling caratterizzati da un denominatore comune: interpretare nel modo più ampio il futuro del lavoro attraverso attività di career gym, preparazione ai colloqui e di controllo del curriculum vitae.

Situata nel centro di Milano, in via Tortona, la nuova location si caratterizza per un palinsesto di contenuti cross-generazionali che si svilupperà ogni anno nell’arco di 44 settimane e sarà incentrato sui temi del future of work, del life long learning e delle skill emergenti. Tra i partner di contenuti formativi anche Ninja Academy.

Phyd Hub è organizzata su più livelli per dare spazio a una dimensione immersiva che segna il passaggio dal mondo fisico esterno a quello phygital della nuova piattaforma e un’area training pensata per la formazione individuale; infine il luogo dedicato all’apprendimento verticale per piccoli gruppi e quello più esteso che ospiterà corsi, workshop, talk ed eventi.

Manlio Ciralli, Chief Executive Officer di Phyd, ha dichiarato: “Phyd nasce con l’obiettivo di nutrire la conoscenza attraverso un percorso di esperienze e fruizione che coniuga fisico e digitale. L’obiettivo primario è quello di dare alle persone la possibilità di porsi in uno stato di aggiornamento continuo. […] L’ambizione di amplificare – attraverso l’intelligenza artificiale – le opportunità di conoscenza e l’accesso ai contenuti senza distinzioni territoriali e, attraverso il luogo fisico, di mantenere la prossimità tra le persone laddove il networking e lo scambio di esperienze rappresenta di per sé uno strumento di miglioramento, contaminazione e conoscenza”.

Come connettersi con i consumatori ancora stressati dal Covid: consigli utili e riflessioni.

Digital Marketing: come connettersi con i consumatori “stressati” di oggi

  • La pandemia non sembra cessare il suo corso, anche dopo i “rallentamenti” registrati nel post-lockdown.
  • Riuscire a definire delle prospettive future oggi è decisivo: le abitudini dei consumatori promettono di mutare in maniera definitiva.

 

A distanza di alcuni mesi dal terribile lockdown, il mondo del marketing osserva ancora più scrupolosamente gli atteggiamenti degli utenti. Profondamente mutati.

Il marketing post-lockdown

All’inizio della pandemia, i media erano un’ancora di salvezza per il “mondo esterno”. Già dalla fine di marzo, quasi la metà dei consumatori, se non la maggior parte, ha cercato una maggiore interazione con i media che già utilizzava, rispetto ai tempi pre-pandemici, secondo il recente studio “Meaningful Media in the Time of Covid-19”, condotto da Havas Media.

Emerge che i consumatori, desiderosi di una fuga dalle loro attuali realtà stressanti, hanno investito molto più tempo in attività fisica, cucina, lettura e progetti fai-da-te. Realtà come Buzzfeed e Thrillist, non gli ultimi arrivati insomma, hanno monitorato questa esigenza di evasione attraverso una maggiore interazione dei consumatori con contenuti che vanno dal fai-da-te all’intrattenimento, ai meme.

LEGGI ANCHE: Come potrebbero cambiare le scelte di marketing dopo il COVID-19

I dubbi dei marketer, possono essere riassunti essenzialmente così:

  • come rispondere e reagire alla crisi in atto;
  • se e come cambieranno i comportamenti dei consumatori, ancora una volta.

Quali attività adottare per incontrare le nuove abitudini degli utenti

Chi si occupa di marketing, d’altronde, deve osservare scrupolosamente la realtà ed i relativi comportamenti degli utenti. La complessità sta proprio nell’individuare la corretta strategia di comunicazione che possa essere efficace per quel prodotto/servizio.

Come connettersi con i consumatori ancora stressati dal Covid: consigli utili e riflessioni.

LEGGI ANCHE: Condurre una vita digitale dopo il lockdown

Attività costanti, come l’ascolto del pubblico e l’osservazione attenta delle sue evoluzioni, rispecchiano un’importanza fondamentale, soprattutto in un periodo del genere.

Il Coronavirus e le informazioni che vengono diffuse ogni giorno, hanno già mutato il comportamento della popolazione globale. Innanzitutto a livello psicologico. D’altronde, nei trend delle queries dei maggiori motori di ricerca primeggia, quasi esclusivamente, la parola Coronavirus e tutti i contenuti a lei relativi.

Le aziende dovrebbero tenere in grande considerazione tutti questi aspetti per poter gestire l’emergenza al meglio. E per migliorare la propria presenza, in linea con il sentiment diffuso dei propri utenti.

Gli errori da non fare

Considerare la comunicazione con i clienti un’attività secondaria, è l’errore che viene commesso più comunemente in questo momento. Difatti, molte aziende, anche alcuni dei giganti dell’economia mondiale, stanno cercando di affrontare l’emergenza agendo soltanto dal lato dei dati, dei numeri, degli andamenti di borsa, dimenticandosi che ad alimentare la loro realtà aziendale, è un pubblico composto essenzialmente da persone. Con reali sentimenti.

Ecco qui che si apre un capitolo che, timidamente, vista la sua vastità e complessità, è doveroso quantomeno accennare.

Come connettersi con i consumatori ancora stressati dal Covid: consigli utili e riflessioni.

La salute mentale dei consumatori: attualità e dati su cui riflettere

Durante questi mesi, la gestione della salute mentale è stata sotto i riflettori. Anche da parte del mondo del marketing.

I maggiori editori di media si sono uniti alle “conversazioni” sulla salute mentale dei propri consumatori, condividendo articoli su come ridurre il tempo trascorso a “scrollare” il feed o su come evitare la dipendenza dagli schermi digitali. Alcuni recenti studi, effettuati anche da Brandwatch, fanno emergere che le ricerche online relative alla salute mentale ed al benessere degli utenti, negli ultimi cinque mesi, sono aumentate di quasi il 90%. A conferma di ciò, l’app Calm ha visto un aumento del 29% di nuovi download dall’inizio della pandemia.

Altri interessanti dati emergono da un recente rapporto di un’indagine di Accenture: 4 intervistati su 5 con diagnosi di ansia, depressione, disturbo da stress post-traumatico, ADD o dipendenza, affermano che avrebbero “probabilmente” o “sicuramente” utilizzato risorse sanitarie virtuali per gestire le loro condizioni.

Ovviamente, è doveroso sottolineare come quello di cui necessitano gli individui, in generale, proprio in questo momento di continua incertezza, non sia analizzabile solo tramite un software, ma abbia origine nell’emotività umana.

Come connettersi con i consumatori ancora stressati dal Covid: consigli utili e riflessioni.

Adottare nuovi approcci verso “nuovi” consumatori

Nel complesso e preoccupante contesto che stiamo vivendo, è necessario per il momento abbandonare l’approccio economico tradizionale, per iniziare ad offrire non ciò che pensiamo possa piacere al consumatore, ma la soluzione ai suoi problemi. Problemi ben specifici che vive a causa della diffusione della pandemia.

Costa ben cinque volte meno cercare di mantenere un cliente già acquisito rispetto al cercare di attirarne uno nuovo. Ormai lo sappiamo.

Per questo motivo adottare una strategia legata a parametri, quali la customer retention, pare sia la strada più logica da percorrere. Perdere i propri clienti, non è più una probabilità assai lontana. Si sta trasformando gradualmente in un’amara realtà per tutte quelle imprese che stanno ignorando i bisogni dei consumatori, che negano l’evidenza a risultati negativi e poco soddisfacenti in merito alla customer loyalty.

Le necessità del proprio pubblico devono essere cercate in fondo a quel bisogno di sicurezza e promessa di un ritorno alla normalità. Le imprese non possono fare promesse, ma possono dimostrare la propria vicinanza ai clienti, manifestando comprensione e adeguando l’offerta che propongono a seconda delle circostanze.

Come connettersi con i consumatori ancora stressati dal Covid: consigli utili e riflessioni.

Essere vicini ai clienti. Ora o mai più!

Bisogna saper mostrare e dimostrare la propria vicinanza e comprensione al proprio pubblico. Cari colleghi e marketer: ci sono dei momenti in cui, più di altri, un’azienda deve dimostrare di possedere quelle skill che la differenziano dalla concorrenza, per costruire un legame empatico e sincero con il pubblico: non solo dire di essere la migliore in qualcosa, bensì dimostrare con i fatti che può davvero fare la differenza.

Gli slogan che hanno accompagnato l’immagine del brand devono essere tramutati in realtà, dimostrati con le azioni. Dire di essere vicini non basta, per restare veramente nelle menti dei consumatori in questo momento è necessario agire, fare.

Bisognerà tener conto che tutto ciò implica spendere del budget più o meno esosi ma certamente si tratta di un investimento a lungo termine per il posizionamento del brand che si segue.

Prepararsi al futuro ed essere pronti per quando l’epidemia terminerà il suo percorso. Ecco su cosa attualmente investire. Riuscire a definire delle prospettive è decisivo: le abitudini dei consumatori promettono di mutare in maniera definitiva.

Il mondo è stato messo a dura prova e non è possibile predire con assoluta certezza l’evolversi di questa particolare circostanza. Si può scegliere se abbandonarsi al flusso degli eventi o accettare la sfida che ci è stata posta e scovare all’interno di essa delle opportunità nascoste. La parola chiave è: riadattarsi.

In uno sforzo collettivo che è mosso e stimolato da nuove e positive opportunità di mercato.

lavoro da remoto

5 miti che sopravvivono ancora sul lavoro da remoto, da sfatare nel 2020

  • Ci sono molti falsi miti sul lavoro agile che inducono le aziende ad essere resistenti verso questa tipologia di lavoro.
  • L’argomento del lavoro agile va affrontato con un orizzonte temporale ampio senza legarlo al contingente momento emergenziale generato dalla pandemia.

 

Il lavoro agile o smart working è una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o spaziali e un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabilita mediante accordo tra dipendente e datore di lavoro; una modalità che aiuta il lavoratore a conciliare i tempi di vita e lavoro e, al contempo, favorire la crescita della sua produttività. Lo dice il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

Smart Working o Lavoro Agile: definizione e sviluppi

L’Osservatorio del Politecnico di Milano lo definisce: “una nuova filosofia manageriale fondata sulla restituzione alle persone di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati”.

Quello che abbiamo sperimentato fino ad oggi, nel periodo pandemico, è uno smart working agevolato, un po’ improvvisato, molto più vicino al concetto di telelavoro ma pur sempre una buona base di partenza per iniziare ad avvicinarsi alla corretta adozione.

Durante la pandemia il Governo, attraverso un decreto attuativo approvato con urgenza, ha previsto l’adozione dello smart working senza accordo preventivo con i dipendenti (in deroga alla Legge 81/2017) al fine di contenere e contrastare la diffusione del Covid-19, bloccando, di fatto, l’attività in presenza per milioni di italiani.

DL 111/2020

Lo smart working è stato poi ulteriormente esteso dal DL 111/2020 (contenente alcune misure a sostegno dell’avvio dell’anno scolastico) al genitore lavoratore, per tutto il periodo (o parte di esso) corrispondente alla durata della quarantena del figlio convivente, minore di anni 14, disposta dall’ASL, a seguito di contatto verificatosi a scuola.

La previsione è contenuta nell’art. 5 che stabilisce inoltre che se la prestazione lavorativa non può essere svolta in modalità lavoro agile, alternativamente, uno dei genitori può fruire di un apposito congedo straordinario percependo un’indennità pari al 50% della retribuzione (il calcolo avviene secondo le modalità fissate dall’art. 23 del D.lgs. 151/2001). Secondo il dettato legislativo i periodi in cui si è fruito del congedo sono coperti da contribuzione figurativa.

La possibilità di fruire dello smart working o del congedo, quando il figlio è stato posto in quarantena, non spetta al lavoratore genitore se l’altro già fruisce di una delle predette misure, oppure svolge la prestazione in modalità lavoro agile ad altro titolo. Congedo straordinario o smart working non spettano nemmeno se l’altro genitore è già a casa perché privo di impiego.

Dal 15 Ottobre

Il Governo, con la delibera 7/10/2020, ha prorogato dal 15 ottobre al 31 gennaio 2021 lo stato di emergenza dovuto alla diffusione dell’epidemia da Covid-19.

Fino al 31/01/2021 sarà quindi ancora possibile accedere allo Smart Working senza preventivo accordo individuale con il lavoratore. Permane, quindi, la line agevolativa. Il DL 125/2020 apporta modifiche anche al DL 83/2020 (L. 124/2020) disponendo in particolare la proroga dal 15 ottobre 2020 al 31 dicembre 2020 del diritto di svolgere il lavoro in Smart Working riconosciuto ai lavoratori c.d. fragili, ossia coloro che sono maggiormente esposti al rischio di contagio da Covid-19.

LEGGI ANCHE: Dal Remote Working allo Smart Working: come evolve il lavoro nelle organizzazioni

5 miti sul lavoro da remoto da sfatare nel 2020

Ci sono molti falsi miti sul lavoro agile che inducono le aziende ad essere resistenti verso questa tipologia di lavoro. Qui di seguito indichiamo i 5 principali falsi miti sul lavoro da remoto che dovranno essere superati nel futuro.

1. I dipendenti che lavorano da remoto sono poco produttivi e lavorano molto meno

Uno dei primi miti da sfatare è proprio l’assenza di produttività.

Spesso si pensa che il lavoratore non presente in ufficio, quindi non a stretto contatto con il capo o collega, sia meno produttivo di quello impiegato in azienda.

Questa convinzione, in realtà, è stata smentita; molti lavoratori hanno affermato di aver lavorato più ore da remoto rispetto al lavoro in presenza.

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2. I dipendenti che lavorano da remoto non fanno squadra e tendono ad isolarsi

Anche questo “mito” è frutto di una cultura non matura rispetto all’argomento.

Il lavoro agile non è sinonimo di isolamento, un programma di remote working può infatti alternare periodi in presenza con periodi a distanza. Durante i periodi in presenza si può continuare a coltivare le relazioni face to face, a seguire corsi di formazione e continuare a fare team building.

La comunicazione tra colleghi può avvenire in modo snello e completo anche se non si è vicini di scrivania, esistono infatti moltissimi software per la gestione delle comunicazioni a distanza e che consentono di tenere traccia di ogni conversazione.

Si possono organizzare video call con il proprio team che vadano al di là dei semplici meeting di lavoro ma che si tramutino, per esempio, in pause caffè per socializzare in modo informale con i membri del team.

Questi alcuni strumenti utili per il lavoro a distanza:

smart working e video call

3. Il lavoro da remoto permette di dedicarsi alle faccende domestiche

Nell’immaginario comune lo smartworker viene spesso rappresentato intento a lavorare e a svolgere, nel contempo, anche attività domestiche quali: prendersi cura dei figli, pulire la casa, cucinare ecc.

Il vero lavoratore remotizzato, in realtà, organizza molto bene la sua giornata al fine di evitare distrazioni e interruzioni legate alla sfera domestica/privata.

L’importante è definire una routine quotidiana e stabilire regole precise per interagire con eventuali altre persone della famiglia.

Anche il mercato immobiliare si sta muovendo nella direzione del lavoro agile. Aumentano, infatti, le richieste di immobili più ampi dove poter ricavare lo studio per collocare la propria postazione di lavoro, senza dover condividere spazi comuni quali salotto, cucina ecc…

Più che l’esposizione della camera da letto o la luminosità della cucina nella scelta dell’immobile si valutano il livello di comfort e il corretto isolamento dal resto della casa della stanza adibita a studio professionale. La priorità è poter lavorare in un ambiente tranquillo, che favorisca la concentrazione. Si tende a traslocare più di rado, ma anche a preferire l’affitto all’acquisto, in modo da poter cambiare domicilio più facilmente non appena ci si imbatte in un’offerta migliore. La parola d’ordine è flessibilità, concetto che si applica non solo agli orari di lavoro ma anche al modo di concepire la casa.

Va inoltre sottolineato che il lavoro agile non è necessariamente coincidente con l’home working, è possibile infatti lavorare a distanza da spazi neutri al di fuori delle mure domestiche, come ad esempio in apposite strutture di coworking (oggi meno utilizzati a causa della pandemia).

skill smart working

4. Il lavoratore da remoto non sarà mai un buon capo

Se i datori di lavoro sono scettici in relazione all’assunzione di dipendenti che lavorino da remoto, lo sono ancora di più quando sono i manager stessi a non essere fisicamente in ufficio a controllare e coordinare le risorse.

Anche questo è un falso mito, come sostiene HubSpot, dove la forza lavoro remotizzata è di oltre 300 persone e la maggior parte sono manager di medio e alto livello.

In Italia le aziende che hanno siglato accordi di smartworking sono:

  • Tim Spa;
  • Eni;
  • Enel;
  • Fincantieri;
  • Fastweb;
  • Leonardo.

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5. Il lavoratore da remoto ha tutto il tempo per prendersi cura di se stesso

Quante volte abbiamo sentito dire: “Ora che lavoro in smart working avrò sicuramente il tempo di andare in palestra” oppure “Ora finalmente potrò coltivare il mio hobby”.

Anche questo (purtroppo) è un falso mito.

Lo stile di vita remoto è in realtà molto più frenetico e la giornata lavorativa è molto più occupata.

Spesso chi lavora da remoto perde il contatto con la realtà: salta la pausa pranzo, non intervalla la routine lavorativa con delle pause, tende a non scollegarsi mai.

Molte volte questo burnout avviene perché si sente la pressione psicologica di dover dimostrare al proprio datore di lavoro che, anche da distanza, si mantengono alti i nostri standard produttivi, aumentando di fatto la prestazione lavorativa a discapito della sfera personale. Oppure perché non si è in grado, come indicato sopra, di porre dei limiti e di organizzare in modo corretto la giornata.

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Il futuro del lavoro da remoto

Il ricorso allo smart working è aumentato esponenzialmente durante il periodo pandemico e post-pandemico, ed è spesso stato confuso con il telelavoro o peggio ancora con l’home working.

In realtà occorre affrontare l’argomento del lavoro agile con un orizzonte temporale ampio, senza legarlo al contingente momento emergenziale generato dalla pandemia.

Le organizzazioni che hanno introdotto il lavoro da remoto durante il periodo pandemico devono interrogarsi su quanto questa forma di lavoro possa diventare un modello organizzativo stabile nel tempo, analizzando gli aspetti positivi e negativi di questa metodologia di lavoro.

Dal lato dell’organizzazione aziendale è un modo per essere in grado non solo di rispondere alle esigenze delle persone, ma di creare spazi di lavoro ottimizzati che consentono risparmi sugli affitti e facilities, con tecnologie che agevolano i processi lavorativi dell’impresa.

Il risvolto negativo che si otterrà, dalla scelta di adottare o meno il lavoro agile, sarà sui settori produttivi il cui indotto è strettamente correlato al lavoro in presenza negli uffici: ristorazione, pulizie e facility management i settori duramente colpiti.

“Per questi comparti la crisi generata dal lockdown è stata solo l’inizio: l’estrema prudenza con cui continueranno a essere gestiti i rientri nei luoghi di lavoro per evitare i contagi sarà, di fatto, una minaccia per la continuità dei conti di queste aziende, tranne per chi non ha saputo radicalmente rinnovare il proprio business”.

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Il lavoro da remoto sarà la forma di lavoro vincente solo se sussistono una serie di condizioni, tra cui:

  • una migliore standardizzazione e organizzazione dell’attività produttiva richiesta ad ogni lavoratore, attraverso una precisa definizione dei tempi di svolgimento della prestazione;
  • evitare che il distanziamento sociale e di spazio appesantisca le procedure all’interno dell’organizzazione;
  • una corretta modalità di controllo e vigilanza del lavoro, tema delicato poiché nelle organizzazioni non esistono funzioni aziendali dedicate a questa attività.

UPDATE: In una precedente versione di questo articolo si riportava quanto segue: “A partire dal 15 Ottobre, invece, per poter continuare ad applicare lo Smart Working le aziende dovranno stipulare accordi individuali e inviare la comunicazione al Ministero del Lavoro attraverso l’apposita piattaforma e accedendo con le credenziali SPID. Il 15 ottobre è la data spartiacque per il futuro dello smart working per l’Italia.

Non esistendo una norma di raccordo tra il lavoro agile prima del 15 e dopo il 15 ottobre, sarà interessante valutare come le aziende si comporteranno: si inserirà strutturalmente lo smart working come tipologia di lavoro stabile oppure ci sarà un totale ritorno al lavoro in presenza?

La disciplina normativa del lavoro agile, Legge 81/2017, definisce in modo chiaro e preciso le modalità per introdurre e gestire questa forma di lavoro in azienda, nell’immaginario comune e nel web spesso lo SW viene visto in modo distorto“.

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Fenomeno Pet influencer: ecco chi sono gli animali più seguiti di Instagram

  • Lo avresti mai detto che sui social ci sono animali che hanno più follower degli umani?
  • I pet influencer più seguiti guadagnano grazie a collaborazioni con brand come Google, Mercedes Benz e Purina che sborsano cifre esorbitanti per i loro scatti.
  • Ecco chi sono i più seguiti. No, non c’è solo il cane della Ferragni!

 

Instagram si sa, è il social che mette in mostra l’ego di ognuno, diventato ormai il regno degli influencer. Facile farlo studiando pose e provando il profilo migliore. Meno facile, ma di sicuro più soddisfacente, è mettere in posa il proprio amico peloso. Lo avreste mai detto che sui social ci sono animali che hanno più follower degli umani?

I pet influencer più seguiti addirittura guadagnano grazie ai loro musetti, ai loro teneri difetti e anche grazie al loro temperamento davanti alla macchina fotografica. Infatti non poche sono le collaborazioni con brand come Google, Mercedes Benz e Purina che sborsano cifre esorbitanti per i loro scatti. Sembra un’assurdità eppure c’è una motivazione: quella della stretta relazione tra marketing ed emotività.

Una bella immagine soprattutto se tenera, richiama infatti sentimenti buoni, caldi e di felicità. Una semplice o per quanto banale foto di un cucciolo scatena nella maggior parte delle persone un senso di serenità e questo i brand lo hanno capito molto bene, cogliendo subito l’occasione per tentare e persuadere lo spettatore attraverso nuovi canali emotivi e psicologici.

Ecco chi sono gli animali più seguiti, i più simpatici e i più teneri.

Jiff Pom, il pet influencer più seguito – 10 milioni di follower

Jiff sembra un orsacchiotto ma è un cucciolo di Pomerania ed è tra i primissimi pet influencer più famosi al mondo. Il cagnolino, oltre che comparire in un video della cantante Kate Perry, vanta molte partnership con famosissimi brand, tra cui TikTok, Target e Banana Repubblic. Per ogni suo post sui social Jiff guadagna circa 45 mila dollari. Tutti spesi in ossetti da sgranocchiare.

 

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Nala Cat: – 4,3 milioni di follower

Nala è un gatto meticcio dai curiosi occhioni azzurri. È proprio il suo piccolo difetto di strabismo a renderla famosa. Pluripremiata, è diventata testimonial di una linea di mangime che prende addirittura il suo nome.

Nala, per ogni suo post guadagna circa 19,8 mila dollari.

 

Doug the Pug – 4 milioni di follower

Si definisce il “re della cultura pop”, Doug è il carlino più simpatico al mondo. Tra un’apparizione come testimonial di Mercedes Benz, Feebreze e Claire’s e un’altra come imprenditore del suo merchandising, la pet celebrity riesce anche a posare per il suo profilo Instagram.

I suoi scatti – che valgono ognuno 17,7 mila dollari – sono buffi, le sue espressioni ironiche e goffe. Indossa parrucche, tutine divertenti e gioca con i suoi amici follower. È facile riconoscerlo anche come guest star ai Country Music Awards come testimonial ufficiale di Dentastix.

 

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“Me after getting my third coffee of the day” -Doug

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Juniper the Fox – 2,9 milioni di follower

La dolce volpe rossa nordamericana è stata salvata e introdotta in ambiente umano, un po’ particolare rispetto a quello selvatico. Juniper si mostra sempre sorridente e non teme di passare in secondo piano.

Nel suo profilo, infatti, ospita altri simpatici pet influencer tra cui suo fratello Fig, con cui convive e con cui condivide cibo, morbidi cuscini e forse anche il guadagno di 13,54 mila dollari per ogni loro post.

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Baby Juniper, the forest spirit

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Tecuaniventura – 2,2 milioni di follower

I bulldog inglesi sono buffi e divertenti di natura. Sono famosi per le loro espressioni imbronciate a causa delle pieghe del muso e per essere goffi anche se pieni di energia.

Questo dog blogger si trova in Russia e si presenta indossando buffe tutine, sicuro verso l’obbiettivo come un vero poser. Ha un muso molto espressivo e proprio come un fashion addicted sembra divertirsi con le diverse mise. Per ogni prova vestito, proprio come i veri influencer, guadagna circa  9,94 mila dollari ed ovviamente è testimonial di diversi brand.

 

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Когда живёшь в большой и шумной собачьей семье, постоянно происходят разные неожиданности. Кто-то пил и разлил воду, кто-то, шутя, погрыз бабушкино кресло. А сегодня, один мохнатый зверь с рыжим носом, совершенно случайно перевернул любимую Карамелькину герань. Но делать что-то надо, пока не вернулась с работы мама. Нужно быстро все убрать и привести дом в порядок. В этом Карамельке помогает Mr. Proper для домов с питомцами. Это – новое средство для мытья полов, которое убирает до 100% грязи от домашних животных и обладает технологией удаления запахов (не маскируя их). А ещё он совершенно безвреден для домов с четвероногими??! И к тому же, средство не оставляет разводов и не требует смывания. Запомните, друзья, про Mr. Proper для домов с питомцам. Карамелька плохого не посоветует! #MrProper #ХозяинНичегоНеУзнает #спонсорPG #dog #englishbulldog #собака #russia #москва #россия #vladivostok #владивосток #vdk #бульдог #английскийбульдог #питер #хабаровск #новосибирск #краснодар #моясобака #собакару #собакадругчеловека #собакаулыбака #собакадруг

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Tuna – 2,1 milioni di follower

Tonno, questo è l’insolito nome per il cagnolino dal sorriso più famoso. Il suo muso visto di profilo ricorda quello di un piccolo squalo a causa della sporgenza dei suoi denti.

Il suo simpatico ghigno lo ha reso così celebre tanto da comparire in svariati meme che hanno fatto il giro del mondo. In più, Tuna collabora con associazioni benefiche per il salvataggio di animali e ha anche un merchandising con una linea di oggetti che porta il suo nome. La sua stramba dentatura gli fa guadagnare circa 9,8 mila dollari a post.

Mr Pokee – 1,8 milioni di follower

Il riccio diventato una leggenda. Un influencer un pò spinoso certo, ma teneramente e sempre di buon umore ci ha mostrato bellissimi paesaggi in compagnia dei suoi a-mici.

Purtroppo Mr Pokee non è più tra noi ma le sue avventure continuano grazie al suo compagno Herbee che porta alto il nome e la fama del suo caro amico.

 

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On a scale of 1-10 how excited are you for fall? ? Herbee is a solid 10 ? I’d say Audree is about a 6.5 ??

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Pumpkin the Raccon – 1,3 milioni di follower

Pumpink è un procione paffutello, salvato e addomesticato in casa dove vive con i suoi fratelli cani, oltre che con gli umani, ovviamente. Pestifero e divertente, il procione è molto goloso e gli scatti lo ritraggono spesso con le mani nel sacchetto… di patatine, di popcorn e di mirtilli.

Questo simpatico pet influencer non ha contratti di marketing, se non quello con l’associazione benefica Baark, che si occupa di salvataggio animali. Ha però lavorato molto per il suo personal branding tanto da avere ottenuto un libro in suo onore  “Pumpkin: The Raccoon Who Thought She Was a Dog” ed esser apparso in speciali tv americani, dedicati agli animali.

 

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One day 2020 will be just a memory. Until then #wearadamnmask and wash your hands ❤️

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Diddy Kong e Yeti Kong the Marmosets – 907 mila follower

Diddy e Yeti, che di cognome fanno Kong, sono due minuscole scimmiette di origine sudafricana diventate famose anche grazie al video di LADbible nel 2016.

Sul loro profilo compaiono sempre allegre, le immaginiamo anche un po’ dispettose e che si divertono a compiere azioni vagamente umane. Hanno stretto collaborazioni con Two Hats Beer Company e Klique.

 

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“I turned 5 today! Having a relaxing birthday bath and then a big birthday treat!! ? ?” – Diddy Kong

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Hamlet the Piggy – 368 mila follower

Hamlet è un tenero porcellino ben predisposto a posare come una star. Vanitoso, sfoggia diversi look, parrucche colorate ed eccentrici occhiali da sole. Vive in casa e si comporta come un cagnolino, segno che ogni animaletto ama stare in nostra compagnia e che, anche se non è propriamente opportuno, riesce ad adattarsi in spazi diversi dal proprio habitat naturale.

Hamlet è stato adottato come animale da terapia, aiutando la sua proprietaria nei critici momenti della sua epilessia. Pet influencer insolito, su Instagram vanta sponsorizzazioni per gli snack Tostito, la linea di cuffie NFL di Bose e l’obiettivo iPhone Ollo Clip.

 

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Happy Wednesday! You’re halfway there!

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Buckley the highland cow – 74,2 mila follower

Scendiamo molto nella classifica ma anche questa bufaletta merita una menzione, a dimostrazione che tutti possono diventare influencer. Buckley è rimasta orfana appena nata e accudita nella fattoria della sua famiglia umana vive insieme a sua sorella, la capretta Ralphy. Un esempio di grande amore, non solo quello umano ma anche quello tra specie diverse.

Questa bella storia d’amicizia è raccontata anche nel libro A true story about kindness, friendship and being yourself. La natura mostra amore e non fa distinzioni di razza o identità. Bisognerebbe prenderlo come esempio.

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Matilda – 386 mila follower

Menzione particolare per un pet influencer tutto italiano. Il bulldog francese di Chiara Ferragni, non poteva non seguire le orme della sua famosa proprietaria. Il profilo di Matilda non spicca però per le sue qualità fashion o per pose particolari. Gli scatti sono semplici e raccontano in modo non spettacolare la sua quotidianità. Insieme a Chiara e al resto della famiglia, ovviamente, che gli fa guadagnare popolarità e like.

Insomma, ci vuole fortuna anche a nascere cane.

 

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Si torna a casa ✈️

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I maggiori pet influencer italiani

In Italia, altri animali da compagnia che vantano più follower di alcuni influencer umani, sono i cani dei vip che godono della luce riflessa dei loro proprietari più ammirati. Troviamo Audrey, il cane di Donatella Versace con 30 mila follower. Seriosa e dall’atteggiamento composto, come una modella. Con 20 mila ci sono Lilly e Leone, barboncini che non spiccano di particolare bellezza come invece la loro mamma umana Michelle Hunziker.

Mia, Piero e Megan con l’account I Pieri creato dalla loro proprietaria Elisabetta Canalis, hanno raggiunto più di 15 mila follower. Di sicuro il pet influencer più simpatico, e già lo dice il nome, è Gatto Morto. Anche se non è figlio d’arte vanta 11 mila seguaci. Il suo profilo è composto di  frasi sarcastiche e soprattutto da pose da cui trae il suo nome. A pancia e zampe in su. E immobile.

 

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Non svegliate il Gatto che è Morto.

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