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  • Social media e giornalismo: si può prevenire la polarizzazione? Le risposte di uno studio

    La ricerca ha misurato le reazioni social dei lettori, per capire se il giornalismo può limitare i dibattiti divisivi attraverso scelte consapevoli

    22 Settembre 2020

    • Gli utenti online tendono a leggere solo le informazioni che aderiscono al loro sistema di credenze. Di questo beneficia il populismo, che punta alla polarizzazione.
    • Uno studio pubblicato su Nature si chiede se il giornalismo può limitare la polarizzazione attraverso la scelta consapevole delle tecniche e delle tipologie dei contenuti.
    • Lo studio ha dimostrato che il fenomeno della polarizzazione è difficile da contenere, ma fornisce comunque alcuni spunti di riflessione per il mondo del giornalismo.
      È ormai risaputo che gli utenti online tendono a selezionare e quindi leggere solo le informazioni che aderiscono al loro sistema di credenze, unendosi quindi a gruppi che condividono una narrazione comune (echo chambers). Una dinamica che alimenta il tribalismo e non favorisce un dibattito informato, specialmente quando le questioni sono complesse e controverse. Una spirale di cui beneficia soprattutto la politica di stampo populista, accomunata dall’utilizzo intenzionale di un linguaggio infiammatorio e dalla diffusione di idee controverse per attirare l’attenzione e dividere l’elettorato in rozze guerre di “noi” contro “loro”. Certo, l’attuale mercato pubblicitario online non aiuta. Anzi, favorisce le storie “acchiappa clic” (clickbaiting) e non distingue fra pubblicazioni autorevoli e contenuti deliberatamente faziosi e ingannevoli. E la stessa architettura algoritmica di Internet e dei social media tende a premiare materiale ultra-fazioso, che assume posizioni estreme e polarizzanti. Modifiche agli algoritmi, iniziative di fact-checking e altri interventi non si sono dimostrati finora efficaci nell’affrontare il problema. Per questo, la polarizzazione gioca ancora un ruolo fondamentale nelle dinamiche sociali online. Ma se si potesse mitigare il problema a partire dalle scelte giornalistiche? Esistono tipologie di contenuti in grado di limitare la retorica divisiva?

    Può il giornalismo prevenire la polarizzazione?

    Hanno provato a rispondere a questa domanda i ricercatori dell’Università Ca’ Foscari di Venezia e del programma Arena della London School of Economics (tra cui il Premio Pulitzer Anne Applebaum), in collaborazione con il giornalista Beppe Severgnini e la social media manager del Corriere della Sera Andrea Federica de Cesco. 113 gli articoli che i ricercatori hanno analizzato sia all’interno del sito web della testata che sulla sua pagina Facebook. Contenuti pubblicati tra marzo e dicembre 2018 e tutti inerenti al tema dell’immigrazione, argomento scelto poiché “fortemente polarizzato e diventato identitario nella dialettica politica”, come spiega Walter Quattrociocchi dell’Università Ca’ Foscari. Obiettivo dello studio, pubblicato su Nature lo scorso mese di luglio, scoprire quali tecniche giornalistiche favorissero un dibattito più civile, attenuassero la polarizzazione e accrescessero la fiducia verso l’attendibilità dei contenuti stessi. Per permettere alla redazioni di pensare un assetto editoriale immune dai giochi polarizzanti del populismo, creando contenuti al tempo stesso popolari e attendibili, in grado di coinvolgere i lettori in modo costruttivo e non divisivo. reazioni social articoli LEGGI ANCHE: Le sfide del giornalismo di oggi tra post-verità e fake news

    Analizzare mezzi, tecniche e temi per misurare la reazione

    A partire dalla pagina Facebook del Corriere della Sera, i ricercatori hanno confrontato la quantità di contenuti sull’immigrazione con il numero di migranti effettivi entrati nel Paese, esaminato il sentimento prevalente negli articoli e nei commenti, analizzato metriche quantitative relative al coinvolgimento del pubblico e infine incluso un’analisi delle annotazioni degli oltre 20mila commenti. Lo studio, in particolare, ha analizzato i contenuti in base a mezzo (puramente visivo, testuale, multimediale, infografica), tecnica (data-driven/fact-checking, editoriale, interesse umano, notizie costruttive, cultura popolare, notizie con contesto e notizie semplici) e tema (criminalità, crisi dei rifugiati, tensioni etniche, cultura e società). Obiettivo, misurare il loro impatto sui commenti degli utenti in termini di tossicità (linguaggio tossico come misura del discorso civile), critica al giornale (critiche esplicite alla credibilità del direttore, del giornalista o del quotidiano stesso in quanto fonti di informazione) e posizione in merito all’immigrazione (pro o contro).

    Linguaggio più negativo per i contenuti sull’immigrazione

    Per quanto riguarda i risultati direttamente collegati al contesto politico e mediatico, la ricerca evidenzia prima di tutto che, nonostante il numero di migranti arrivati in Italia sia calato drasticamente durante il 2018, il volume di contenuti relativi al tema è invece aumentato. Un fatto che coincide con la formazione di un nuovo governo, nel giugno 2018, e con gli sforzi del ministro dell’interno Matteo Salvini per dare la massima priorità proprio alla questione dell’immigrazione. Dallo studio emerge che gli articoli sul tema dell’immigrazione coinvolgono molto più di altri, mentre i loro commenti fanno uso di un linguaggio più negativo rispetto a quelli inerenti ad altri temi. In particolare, ottengono il coinvolgimento più alto i contenuti che riguardano Salvini. giornalismo polarizzazione LEGGI ANCHE: Tool di Google per i giornalisti, nasce una nuova suite

    Fact-cheking e contenuti data-driven

    Ma cos’ha scoperto la ricerca riguardo alle diverse tipologie di contenuto? Ecco i punti chiave, alcuni dei quali forse inaspettati.
    • Il resoconto di notizie lineare, imparziale e non emotivo, che fornisce un contesto, è la tecnica che suscita il minor numero di commenti critici nei confronti della fonte della notizia.
    • Le storie di interesse umano provocano forti reazioni negative: suscitano un alto numero di commenti anti-immigrazione che spesso contengono un linguaggio tossico e molte critiche alla fonte d’informazione. Forse perché le persone si sentono in questo modo manipolate emotivamente e spinte ad assumere una posizione politica? Da rilevare comunque che la critica è più morbida quando l’articolo riguarda la storia di un singolo immigrato piuttosto che di gruppi.
    • Le notizie costruttive – contenuti che offrono soluzioni pratiche – ispirano un linguaggio meno tossico sull’immigrazione rispetto ai pezzi d’opinione e agli editoriali.
    • I contenuti basati sui dati suscitano un livello estremamente basso di fiducia nella fonte della notizia e provocano una grande quantità di commenti anti-immigrazione, ma non necessariamente un linguaggio tossico. Probabilmente, come spiega Quattrociocchi, “alla presentazione dei dati si innesca il meccanismo di rifiuto che porta a dire che essi sono presentati in maniera pretestuosa. Ma il punto più interessante è che in genere ricevono poca attenzione: i dati annoiano”.
    • Gli editoriali ottengono il maggiore coinvolgimento, mentre gli articoli con riferimenti alla cultura popolare il maggior numero di mi piace.
    • I contenuti di fact-cheking suscitano più commenti critici nei confronti della fonte di informazione e più commenti anti-immigrazione rispetto agli articoli di attualità.

    Bene video e contenuti multimediali, male le infografiche

    E per quanto riguarda le reazioni degli utenti rispetto ai formati?
    • Le infografiche possono stimolare il dibattito e la discussione, ma ricevono notevoli reazioni negative da parte delle voci anti-immigrazione e suscitano alti livelli di critica alla credibilità della fonte di informazione.
    • I video suscitano il livello più basso di critica alla credibilità della fonte di informazione. Forse perché “vedere è credere” o perché le voci anti-immigrazione diventano silenziose di fronte a prove video? O ancora magari perché quella del video è la forma di coinvolgimento più passiva (i video generalmente ricevono un basso numero di commenti)?
    • I contenuti multimediali – combinazioni di video, testo e foto – sono accolti con un grado di coinvolgimento forte e solidale e ottengono buoni risultati anche in termini di critica alla credibilità della fonte.
    reazioni social articoli LEGGI ANCHE: Guida pratica per combattere la disinformazione: ecco come riconoscerla

    I risultati della ricerca

    Quindi? Secondo Quattrociocchi, i risultati dello studio portano prima di tutto a una dura presa di coscienza: “La polarizzazione è una cosa forte, difficile da smussare e da contenere. Le dinamiche di conferma delle proprie idee sono potenti e difficilmente aggirabili, almeno con gli strumenti attuali. Il tribalismo domina il dibattito online creando frizioni e insistendo su fratture che hanno radici profonde: la sfiducia, principalmente”.  In sostanza, la bacchetta magica purtroppo non esiste. Ma i risultati della ricerca possono comunque aiutare le redazioni a essere più consapevoli del potenziale impatto dei loro contenuti sulla qualità del coinvolgimento del loro pubblico. Lo studio invita in particolare a prediligere articoli e servizi “imparziali”, accurati e contestualizzati, meglio se in formato multimediale e in ottica costruttiva, rispetto alle storie ad alto tasso emotivo; dimostra che le infografiche e i contenuti data-driven non sono necessariamente efficaci per convincere i lettori dell’attendibilità delle informazioni fornite; consiglia di evitare opinioni troppo “forti” e poco motivate per prevenire reazioni con un linguaggio tossico. I ricercatori invitano inoltre le redazioni a guardare oltre i mi piace e le condivisioni, per esaminare la qualità del coinvolgimento del proprio pubblico attraverso metriche che non siano più solamente quantitative.

    Giornalismo e polarizzazione: provocazioni per il futuro

    Insomma, “la lezione è che il giornalismo come lo conosciamo va ripensato e innovato, ma quale sia la via d’uscita ancora non è chiaro”.  Secondo Peter Pomerantsev, direttore del programma Arena della LSE, la battaglia può e deve essere combattuta anche su altri fronti. Per esempio, esercitando un controllo pubblico più stringente sugli algoritmi e sui modelli di social media che attualmente incoraggiano le posizioni più estremeriformando il sistema ad-tech, per incentivare la creazione di contenuti che non siano semplicemente ‘acchiappa clic’, ma favoriscano una partecipazione più consapevole”. Certo, nel frattempo, sarebbe auspicabile che la ricerca venisse ampliata da approfondimenti che cercano di capire come il linguaggio e il quadro di riferimento influenzano il coinvolgimento del pubblico. Come mostra un rapporto della LSE, ad esempio, i media europei tendono a descrivere i migranti in termini di nazionalità e di età. Ma cosa cambierebbe se dovessero descriverli in base alla loro professione? O se si focalizzassero sulle cause dei fenomeni migratori, invece di limitarsi a informare su quanti arrivano o tentano di arrivare in Europa?