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Super Bowl

Budweiser, Coca-Cola e Pepsi in fuga dal Super Bowl. Che succede?

Desta scalpore la notizia dell’assenza di alcune grandi aziende tra gli inserzionisti del Super Bowl di quest’anno. Affezionati storici come Budweiser e Coca-Cola non prenderanno infatti parte alla manifestazione, privando la kermesse sportiva dei loro attesissimi spot pubblicitari, mentre Pepsi ha deciso di tagliare il budget per gli spot in modo da concentrarsi maggiormente sull’Halftime Show.

Anche se il fenomeno potrebbe non anticipare una macro tendenza nel mondo del marketing, l’occasione apre nuovi spazi alle aziende che sono riuscite a espandersi durante il periodo di pandemia, in particolare alle realtà focalizzate su un business digitale.

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Ci sono alcune grandi realtà che si stanno velocemente affermando a livello globale e Fiverr è una di queste“, ha dichiarato Christa Carone, presidente di CSM Sport and Entertainment in Nord America riferendosi al portale fornitore di servizi freelance che, per la prima volta quest’anno, parteciperà al Super Bowl con il suo spot. “Se c’era un anno giusto per portare in questo evento la narrazione del loro brand, è proprio questo“, ha aggiunto.

La mancanza di ospiti fissi come Budweiser, che ha scelto di non partecipare all’edizione di quest’anno, conferma l’idea che il Super Bowl, pietra miliare per gli appuntamenti imperdibili del panorama televisivo, possa aver perso un po’ di forza, tra le difficoltà legate alla pandemia e i disordini sociali che hanno investito gli USA di recente.

Questo “scossone pubblicitario” sull’assenza di brand con partecipazioni decennali suggerisce che i marketer che guardano all’evento per anticipare previsioni sul 2021 potrebbero non ottenere le risposte che cercano. “Siamo ancora di fronte a così tanta incertezza che nessuno di noi dovrebbe guardare agli spot del Super Bowl come un indicatore di ciò che avverrà quest’anno nel marketing“, ha infatti sottolineato Carone.

super bowl budweiser

I rischi per i nuovi inserzionisti

Nonostante tutto, l’edizione di quest’anno del Super Bowl sta continuando ad attirare moltissimi inserzionisti, disposti a sborsare la bellezza di 5,5 milioni di dollari per uno spot sulla CBS. Secondo gli analisti, umorismo e spensieratezza dovrebbero dominare il palcoscenico durante l’appuntamento del 7 febbraio, riflettendo il diffuso desiderio di evasione delle ansie quotidiane provocato dalla pandemia.

Anche questo approccio, però, rischia di essere un autogol perché gli spettatori rimangono comunque iper-sensibili alle dinamiche sociali dei problemi esterni all’avvenimento sportivo e questo potrebbe diminuire l’impatto degli annunci più ironici, provocando, al contrario, un rischio reputazionale su quelli spot che non riusciranno a colpire il bersaglio.

Alcuni brand sceglieranno la via dell’umorismo, scelta che non è affatto nuova per i contenuti associati al Super Bowl; tuttavia, penso che in questa occasione ci sia un rischio nuovo, visto il particolare momento in cui viviamo“, ha detto Janet Balis, marketing practice leader di EY Americas. “Da un lato offrirebbero una certa leggerezza, una qualche forma di conforto, ma questo approccio umoristico potrebbe essere percepito come non particolarmente appropriato al contesto“, ha aggiunto.

I nuovi inserzionisti potrebbero raggiungere un’eco ancora maggiore di quella prevista: il ritiro di player affermati crea infatti un’apertura per i nuovi arrivati, che avranno così la possibilità di impressionare il pubblico. Il Super Bowl potrebbe rappresentare per questi outsider l’inizio di una nuova costruzione del marchio e, considerato che parliamo di aziende che hanno visto crescere enormemente la loro popolarità durante la pandemia, garantire loro visibilità anche quando l’emergenza COVID-19 sarà cessata.

Tra i nuovi inserzionisti ci sono infatti il già citato Fiverr, DoorDash e la piatta forma di eCommerce Mercari. “Chi si giocherà bene questa occasione, avrà grosse opportunità” ha commentato Balis.

Tra le altre cose, non esiste ancora un chiaro front-runner nella produzione degli spot, anche se è una pratica consolidata negli anni quella di valutare l’impatto degli annunci con grande anticipo grazie alle reazioni pre-partita.

Il cambiamento di ritmo è più che giustificato: la relativa mancanza di discussione sugli spot è comprensibile tenendo conto della turbolenta inaugurazione presidenziale e dei disordini del Campidoglio.

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Super Bowl, i brand tentennano

Una delle motivazioni per le quali non abbiamo ancora visto tante creatività fino ad ora è che siamo coinvolti in un ciclo di notizie piuttosto insolito. I brand tentennano nel rilascio dei prodotti per la paura di arrivare in anticipo sui molti e diversi avvenimenti che stanno accadendo in questo momento” ha aggiunto Balis.

Il chiacchiericcio pubblicitario è stato fino ad ora più forte proprio su quei brand che hanno deciso di non partecipare all’evento di quest’anno, come Budweiser.

Il noto brand di birra, infatti, ha scelto di non partecipare al prestigioso appuntamento dopo ben 37 anni di fedeltà al Super Bowl, dirottando i suoi investimenti previsti per lo scopo su un programma di sensibilizzazione alla vaccinazione per il COVID-19.

Anche se non saranno presenti durante il game, la reazioni alla decisione di Budweiser di non partecipare hanno creato un passaparola altrettanto efficace” ha commentato Ronn Torossian, amministratore delegato di 5W Public Relations. “Inoltre, hanno scelto di legare questa decisione a una causa molto sentita e si tratta di una sicura vittoria per il brand“, ha aggiunto.

La situazione potrebbe quindi trasformarsi in un vero trampolino di lancio per quei marchi meno noti al grande pubblico, che sognano di prendere il posto e la ribalta di mostri sacri come Coca-Cola e Pepsi.

Non c’è niente di più importante del Super Bowl dal punto di vista del branding e del marketing“, ha detto Gali Arnon, chief marketing officer di Fiverr, in un comunicato stampa. “Crediamo che questa sia una grande opportunità per noi di presentare al mondo Fiverr in un modo unico e creativo“.

Anche Chipotle sarà fra i nuovi inserzionisti. Sebbene sia un brand decisamente più affermato, ha potuto contare su un massiccio aumento delle vendite online dallo scorso marzo. Ora, la strategia del marchio è quella di proseguire lo slancio per mezzo del suo primo annuncio al Super Bowl, con uno spot che mette in mostra il lavoro fatto sulla sostenibilità dell’azienda.

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Vita da sviluppatore: tutto ciò che vorreste chiedere ai maghi dell’informatica

Ci sono cose che noi umani non possiamo nemmeno immaginare. Esistono figure quasi leggendarie che hanno la soluzione giusta a tutti i nostri problemi tecnologici. No, non sono divinità ultraterrene, ma quasi. Stiamo parlando degli sviluppatori, coloro che sanno animare un PC con un semplice ticchettio della tastiera, fanno calcoli con numeri e lettere che per noi sono incomprensibili ma che per loro è un gesto così facile come bere un bicchier d’acqua. Più o meno.

Vita da sviluppatore: chi è e cosa fa

Volevamo vedere un esemplare di sviluppatore nel suo habitat naturale, volevamo capire cosa fa, come trascorre le sue giornate e come ha iniziato il suo percorso in questo mondo che corre più veloce del vento, e per fortuna Antonello Alonzi, sviluppatore di Seeweb, ci ha accontentati, rispondendo a tutte le nostre domande.

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1. Cosa fa esattamente uno sviluppatore e quando hai capito che volevi diventarlo?

Uno sviluppatore è solitamente, come nel mio caso, un analista/sviluppatore, ovvero una persona che ascolta le esigenze di un cliente, analizza la richiesta e sviluppa una soluzione software per automatizzare il processo che il cliente gli ha descritto.

Fin da bambino ho avuto la passione per l’elettronica, prima e l’informatica dopo. Come tanti della mia generazione ho avuto un’infanzia divisa tra i giochi in cortile con gli amici e gli esperimenti con i primi PC (nel mio caso un MSX anche se all’epoca il Commodore 64 era più diffuso).

Negli anni ho capito che mi interessava molto più la parte software che non la parte hardware e così i miei mi comprarono in edicola un corso di programmazione in “BASIC” a fascicoli. Iniziai a capire subito le base della programmazione e la cosa che mi affascinò di più è che pensavo si potesse programmare un PC per fargli fare qualsiasi cosa tu volevi. In effetti è un po’ così, anche se crescendo mi sono reso conto che non è così semplice come può immaginare un bambino. Insomma, anche se ho sempre avuto una passione per i PC in genere e per la programmazione, ho iniziato a programmare “seriamente” intorno ai 20 anni, con un primo vero lavoro (software tra l’altro ancora in funzione).

2. Qual è la cosa che più ti piace di questo lavoro e cosa ti scoraggia di più?

Lo sviluppo software è molto stimolante perché per ogni progetto c’è qualcosa di nuovo da fare, quindi c’è tutta la parte di analisi e poi di sviluppo che cerchi di fare con tutte le ottimizzazioni del caso, cercando di migliorare sempre e d’inserire nel progetto soluzioni innovative. La cosa che mi scoraggia è pensare a “lungo termine”, ovvero come si evolverà il mercato nei prossimi anni e se riuscirò a stare al passo con i tempi, si perché il problema fondamentale di oggi (rispetto a 20 anni fa) è che anche i linguaggi e le tecniche di programmazione si aggiornano continuamente e tu devi tenerti in continuo aggiornamento.

3. Cosa credi possa servire oggi per avere successo nel mondo del web che diventa sempre più affollato?

Si, è vero, il mondo del web è sempre più affollato, però ho avuto modo di capire che la maggior parte degli sviluppatori tende ad adattare soluzioni esistenti per i propri progetti, piuttosto che sviluppare come il cliente la richiede. Certo, il cliente va guidato e gli va spiegato quello che conviene o non conviene fare, però alla fine penso che offrire una soluzione completamente custom sulle esigenze del cliente sia un must e per questo ti preferiscono ad altri.

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4. Cosa consiglieresti a chi vuole provarci e quali consigli tecnici daresti?

Quando mi chiedono cosa bisogna fare per diventare programmatori, la risposta è pressoché la stessa: bisogna iniziare con qualche lettura di base, magari qualche video (ormai internet aiuta molto in questo) e sperimentare sul campo con un progetto demo. Se si riesce ad avere una certa autonomia, significa che si è “portati” e quindi conviene approfondire, altrimenti ci si può provare ancora, ma probabilmente non è la propria strada.

Questo non lo dico perché voglio scoraggiarli, ma perché fare quello per cui si è portati darà sicuramente più soddisfazioni, farà affrontare i problemi che si incontreranno in modo più semplice, ti darà la carica, giorno per giorno, per continuare in questo settore, a prescindere dalle difficoltà che si incontreranno. Fare qualcosa solo perché al momento è “cool”, alla lunga diventerà un peso da dover gestire in qualche modo, col rischio di buttare all’aria anni di sforzi senza riuscire a costruire nulla.

5. Svelaci 3 caratteristiche che uno sviluppatore deve assolutamente avere…

Beh, ormai è una parola che va molto di moda: resilienza. Oltre questo ci vuole passione e una mente particolarmente analitica per trovare le soluzioni ottimali alle sfide che giornalmente si affrontano.

Scopriamo l’ambiente italiano di sviluppo ideale

Seewb è un Cloud Computing Provider che offre servizi di alta qualità e unici quanto a tecnologia, scalabilità e rapporto prezzo/prestazioni. Se abbiamo bisogno d’istanze cloud da utilizzarle on demand, con fatturazione esclusivamente a consumo, Seeweb ha la soluzione giusta per noi.

Easy Cloud Server è la piattaforma cloud flessibile nata inizialmente come cloud ideale per gli sviluppatori, ed è l’ambiente perfetto per chi desidera alte prestazioni e un buon livello di autonomia per creare da soli le proprie virtual machine senza limiti.

Sviluppo facile e gestione autonoma

Il servizio consente di:

  • creare rapidamente immagini dalla console;
  • fare backup periodici degli ambienti virtuali;
  • sistemare problemi legati alla sicurezza rimettendo in piedi nuovi server grazie alle immagini di backup.

Inoltre si presta a ogni utilizzo, è ottimale per tutte le applicazioni, può essere la base per servizi complessi e ad architettura elastica e orchestrabile. Amministrabile sia tramite pannello di controllo via web che via API, Easy Cloud è estremamente personalizzabile e può fornire un’infrastruttura di rete a grande capacità, con supporto full Ipv6.

Semplice, intuitivo, veloce e approvato dagli sviluppatori!

Omnichannel Marketing, una guida per principianti

  • I comportamenti d’acquisto delle persone sono profondamente cambiati negli ultimi anni, e continuano ad evolversi
  • La risposta a questa tendenza è sicuramente un approccio omnichannel capace di avvolgere il cliente o potenziale tale a 360°
  • La cosa fondamentale? Mettere l’esperienza cliente e l’analisi dei dati al centro di tutto

 

Applicazioni mobile. Siti Web. Negozi fisici. Tablet. Tiktok. Il mercato moderno è estremamente vario e ciò influisce sul processo d’acquisto dei potenziali clienti.

Proprio per questo motivo, l’omnichannel marketing è più che mai una risorsa preziosa per le aziende che cercano di offrire al proprio pubblico la migliore esperienza possibile.

Ma di cosa si tratta? In questo articolo vedremo cos’è l’omnichannel marketing e capiremo perché questo approccio rappresenta il futuro.

Cos’è l’omnichannel marketing?

L’Omnichannel Marketing è un approccio di marketing pluricanale che mira a fornire un’esperienza personalizzata, costruita sul comportamento degli utenti, attraverso tutti i canali e i dispositivi utilizzati nel suo percorso d’acquisto e oltre.

Questa strategia si basa sull’idea che il marketing dovrebbe essere basato sulle esigenze della clientela piuttosto che sul tipo di piattaforma utilizzata, dato che, il pubblico non è più confinato a un singolo canale.

LEGGI ANCHE: Omnichannel marketing: raggiungi i tuoi clienti ovunque

Multichannel vs. Omnichannel Marketing: Qual è la differenza?

Chiariamo subito una cosa: questi due termini non sono sinonimi. Anche se spesso capita di sentire utilizzare queste parole in maniera interscambiabile, la realtà è ben diversa.

Per comprendere la distanza tra questi concetti, è fondamentale capire che, per quanto il multichannel marketing utilizzi più canali, non tutto il marketing multicanale può essere definito omnichannel.

I punti deboli del multichannel marketing

Il multichannel marketing è un approccio che utilizza numerosi canali offline e online come email marketing, applicazioni mobile, messaggistica SMS, e-commerce, social media, negozi fisici, eccetera, per massimizzare l’interazione tra il marchio e il potenziale cliente, e viceversa.

Fin qui, sembrerebbe in tutto e per tutto simile all’approccio omnichannel ma non lasciamoci ingannare dalle apparenze.

Con il mutichannel marketing, ogni canale è trattato in modo indipendente con una propria struttura di reporting e obiettivi di reddito. Cosa significa? Che qui questi canali sono in competizione tra loro nelle classifiche e nelle statistiche.

Ma non è tutto. Chi utilizza il metodo multicanale, presuppone che il cliente debba completare il suo processo d’acquisto sul canale in cui lo ha iniziato.

Facciamo un esempio: immagina di cercare online un tavolo da ufficio su un e-commerce. Il sito web traccerà i tuoi dati in modo da migliorare la tua esperienza, mostrandoti le categorie rilevanti e dandoti la possibilità di uscire dal sito per poi riprendere successivamente la tua ricerca e il tuo acquisto, usando lo stesso computer.

Cosa succede se riprendi la tua ricerca da un tablet o da uno smartphone? È proprio qui che emerge il limite del multichannel marketing. I tuoi dati, infatti, sono stati tracciati solo su quel particolare sito web visualizzato da desktop e non potrai recuperare la tua ricerca.

I punti di forza dell’omnichannel marketing

Al contrario, chi intraprende la strada dell’omnichannel marketing, offre all’utente molteplici touchpoint che lavorano in totale sinergia tra di loro e che si muovono su canali e dispositivi diversi.

Vale a dire che, una volta che un cliente arriva al tuo negozio online, attraverso un annuncio di Facebook o Instagram sul suo telefono cellulare e poi aggiunge alcuni articoli al carrello e se ne va, quando torna più tardi, usando il suo computer, può terminare comodamente il suo acquisto, senza che questi switch influiscano minimamente sulla sua esperienza.

Perché l’omnichannel marketing è il trend del 2021?

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Cominciamo con il dire che la customer experience è ormai una priorità per ogni business.

Se 20 anni fa l’acquirente online era il nerd o il cliente a caccia di prezzi convenienti, oggi lo scenario è cambiato. Tutti comprano online e questa diffusione ha fatto nascere nel pubblico un’esigenza che prima era legata esclusivamente ai negozi fisici: vivere un’esperienza.

Non si tratta di un vaneggiamento sociologico, infatti, i numeri parlano chiaro. Secondo una ricerca del network PWC, l’86% degli utenti è disposto a pagare di più per una customer experience ottimale. E più il prodotto è costoso, più questo discorso funziona.

Inoltre, ben il 49% dei clienti acquista d’impulso sotto la spinta di un’esperienza più personalizzata in base a gusti, esigenze e preferenze passate.

LEGGI ANCHE: La roadmap e il mindset per reinventare la tua Customer Experience

Ma vediamo nel dettaglio quali sono i principali vantaggi dell’omnichannel marketing.

Maggiore fidelizzazione

Le aziende che hanno implementato una strategia di omnichannel marketing hanno tassi di retention più alti rispetto alle altre, questo perché i clienti hanno la possibilità di compiere il loro “viaggio” comodamente, qualsiasi sia il device o il canale che decidono di utilizzare.

Maggiore qualità dei dati raccolti

Dal momento che ogni brand traccia efficacemente ogni interazione con i clienti attraverso le numerose piattaforme su cui opera, è facile immaginare la mole di dati che viene raccolta.

Questo apre le porte a molteplici utilizzi di queste informazioni che vengono adoperate nella creazione di contenuti e iniziative sempre più a misura di utente e, ovviamente, sempre più performanti.

Maggiore convenienza

A prima vista potrebbe sembrare strano, considerando l’investimento da fare in termini di allineamento aziendale, di tempo per analizzare i dati raccolti, eccetera. Tuttavia, l’omnichannel marketing, se sfruttato correttamente, permette di accedere ad una vera e propria miniera d’oro: i dati dei clienti.

Ragionando a lungo termine, tutte queste informazioni saranno utili per migliorare l’esperienza del cliente, aumentando le vendite e riducendo gli sprechi in sforzi di marketing inappropriati.

5 tips per sviluppare la tua strategia omnichannel

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Ora che sappiamo cos’è l’omnichannel marketing e quali sono i suoi vantaggi, non ci resta che capire quali siano gli step essenziali per procedere verso una strategia di questo tipo. Noi ne abbiamo individuati cinque.

1. Crea le Buyer Personas

Una buyer persona non è altro che un identikit di un determinato segmento chiave del tuo target.

È essenziale investire un po’ di tempo per delineare i tratti comportamentali dei tuoi clienti, vale a dire le abitudini di acquisto, le preferenze, la frequenza di acquisto, il buyer journey, i dati demografici e altro ancora. Questo ti permetterà di creare esperienze omnichannel di valore per ogni fase e ogni persona.

2. Segmenta gli utenti

Una volta individuato il tuo pubblico ideale, il passo successivo è quello di categorizzarlo in base a quelli che sono i modelli comportamentali simili.

Attraverso questa segmentazione, riuscirai a sfruttare al massimo la tua strategia omnichannel, grazie ad un più semplice processo di personalizzazione dei contenuti.

3. Implementa un approccio incentrato sul cliente

Il servizio clienti è vitale se vuoi davvero implementare un’esperienza omnichannel. Perché? Perché è anche attraverso il customer care che si costruisce la credibilità del tuo marchio.

Pertanto, è importante formare un team di supporto capace di rispondere alle reali esigenze del cliente.

4. Sii reattivo a 360°

Ricorda che il tuo pubblico si muove continuamente su più canali e su più piattaforme. Questo significa che dovrai riuscire a catturare la sua attenzione e soddisfare i suoi bisogni in maniera continua, costante e coerente.

Solo con una presenza del genere potrai offrire un’esperienza davvero completa, aumentando le probabilità di successo della tua strategia omnichannel.

5. Prova, misura e ripeti

Le formule magiche non esistono. Non si può mai affermare con certezza cosa potrà funzionare e cosa no, soprattutto non si può pensare che una soluzione di successo valga per realtà differenti.

Ecco perché risultano fondamentali tutte le attività di testing. Il consiglio è quello di fare sempre un A/B test e misurare i risultati per sapere cosa funziona e cosa no.

Conclusioni

Oggi le aziende devono essere presenti su molti canali, offrendo i propri prodotti e servizi in tutte le modalità che, in base alle attività svolte e al target, possono permetterle di espandersi nel mercato.

Avere più rami di vendita è una grossa opportunità, poiché si hanno a disposizione molte più alternative per raggiungere i consumatori, per questo è importante valutare tutte le possibilità per garantire agli utenti una User Experience ottimale e completa. Ovviamente ciò necessita di un buon piano strategico, basato sull’analisi dei dati.

Le possibili strategie e combinazioni sono molte, ma è importante identificare quali siano quelle che fanno al caso tuo.

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Intelligenza Artificiale, i trend 2021 di un mercato in fortissima crescita

  • Il mercato dell’AI  registrerà una delle crescite più importanti da qui al 2023
  • La mente umana sarà destinata a fare il suo lavoro: creatività, problem solving e active learning appoggiandosi sull’intelligenza artificiale per tutti i processi aziendali automatizzabili, customer care compreso
  • Il settore IT e AI sono considerati etici e non solo nell’applicazione coerente e condivisa degli strumenti, ma anche nell’eliminazione del gender gap

L’Intelligenza Artificiale è in continuo sviluppo e diffusione, anche grazie alla situazione attuale legata alla pandemia, ma secondo le previsioni il pericolo di un’invasione robotica sembrerebbe scongiurato.

Se da una parte, infatti, il segmento dell’intelligenza artificiale è in continua crescita e da qualche anno e ha accelerato il suo percorso contaminando anche i più tradizionali settori industriali, dall’altra è considerato uno dei mercati più equi: chi è in grado di governare e inventare nelle discipline di Artificial Intelligence, verrà certamente premiato dal mercato.

E, a un certo punto, la mente umana sarà chiamata a dedicarsi al miglioramento di altre skills come problem solving, active learning o leadership e creatività. Ecco cosa possiamo aspettarci, come aziende e utilizzatori, da questo segmento emergente che registrerà una crescita molto interessante entro il 2023.

Intelligenza artificiale, dove siamo e quali sono i trend di crescita dei prossimi anni

Il 2020 ha segnato per il comparto AI un boom di crescita. Se il segmento, infatti, era già sotto i riflettori dal 2019, l’avvento del COVID-19 ha portato moltissime aziende ad accelerare i propri investimenti in materia di Intelligenza Artificiale per affrontare meglio le nuove dinamiche legate, per esempio, allo smart working o alla continuità di produzione anche in assenza dell’uomo. Largo, quindi, a bot dedicati al customer service e a investimenti per la raccolta e l’analisi dei dati e delle interazioni con il nostro brand.

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Chi aveva già investito nei servizi legati all’intelligenza artificiale, oggi ha visto un incremento del suo EBIT anche del 20% e si è potuto concentrare su temi come la cyber security. Chi ha iniziato oggi a guardare al mercato dell’AI per la propria azienda, si trova indietro di diverse lunghezze in un mercato in cui il divario tecnologico può davvero fare la differenza tra un progetto vincente e un fallimento.

L’AI trova maggior diffusione nei comparti high-tech e telecomunicazioni, seguiti a ruota dal comparto produttivo, con una crescita di profitto per quelle aziende in cui l’intelligenza artificiale è implementata in tutti i livelli aziendali.

L’incremento positivo complessivo riguarda l’intera crescita aziendale: va da una migliore comprensione e accettazione degli investimenti nel segmento e una leadership attenta a condividere tali risultati con i collaboratori a un budget crescente di investimento finalizzato alla creazione di soluzioni AI proprie con l’assunzione di nuovo personale esperto e dedicato.

Tra i timori maggiormente avvertiti c’è quello relativo alla cyber security, con la richiesta sempre maggiore di esperti interni in grado di minimizzarlo il più possibile anche attraverso sistemi di contenimento creati su misura.

Cosa ci dobbiamo aspettare per il 2021?

Secondo gli esperti:

  • IT e AI saranno sempre più vicini con l’applicazione dell’intelligenza artificiale a quasi tutti i comparti aziendali e per la creazione di soluzioni aziendali automatizzate e auto controllate, dalla produzione alla circolazione dei dati. Avere o non avere esperienza nel campo intelligenza artificiale darà o meno all’azienda un vantaggio competitivo sul mercato
  • L’AI diventerà sempre più diffusa e compresa, non solo nelle organizzazioni aziendali, ma dalla popolazione stessa con la possibilità di accesso da parte di tutti a strumenti facili e comprensibili disponibili sul mercato, oltre a dare forte impulso alla cosiddetta “cross-team collaboration”, cioè la pratica per la quale esperti del comparto IT condividono le proprie capacità e conoscenze per il raggiungimento di uno scopo comune
  • AI significherà anche riconoscimento vocale e di immagini. Se il trend dello smart working e della didattica a distanza continuerà ad essere così rilevante, le organizzazioni dovranno avere a disposizione strumenti sempre più evoluti che gli consentano di far interagire il loro staff, e che permettano di proseguire nelle pratiche di valutazione costante delle performance previste dalla loro azienda
  • L’intelligenza artificiale sarà etica, sia nella chiusura del divario in materia di gender gap sia nell’attenzione a problemi come disparità sociali e diversità: l’AI e la raccolta di dati sono imparziali e trasparenti.

Considerato il generale incremento dell’adozione dell’intelligenza artificiale, sia le più grandi software house mondiali sia i produttori di componentistica hardware sono sotto i riflettori: se vogliamo che l’AI sia adottata a tutti i livelli è necessario che la tecnologia che lo rende possibile sia all’avanguardia.

Ci basti pensare a come è cambiata la nostra vita nell’ultimo anno con un’attenzione spasmodica allo shopping online, all’automazione e controllo a distanza di device o assistenti virtuali o all’accessibilità a distanza di servizi pubblici e di pubblica utilità.

Non dimentichiamo che qualsiasi sistema di IoT o di intelligenza artificiale basa il suo comportamento sui dati raccolti; è importante che la qualità delle informazioni raccolte, la modalità e la sicurezza siano sempre al primo posto.

Affrontare il discorso AI dal punto di vista del Marketing ha molta importanza, grazie alla possibilità di conoscere le abitudini di consumo del proprio target cliente o del singolo individuo per  creare esperienze di acquisto uniche e di valore: compromettere la fiducia del consumatore perché i suoi dati personali sono stati ceduti a terzi senza un apparente consenso può essere questione di vita o di morte per un brand.

Intelligenza artificiale ed intelligenza umana come andare d’accordo

Lo abbiamo già detto nell’introduzione, il comparto AI sarà il settore economico più ricco da qui al 2023 e gli AI specialist saranno i lavoratori più pagati del prossimo futuro.

Nello specifico, il trend si svilupperà in diversi ambiti, tra i quali:

  1. Iperautomazione, cioè la possibilità di automatizzare i processi attraverso un’intelligenza artificiale: dalla produzione al customer care, ma anche la gestione del tempo aziendale dei lavoratori o le loro procedure standard
  2. Chabots e assistenti vocali, la possibilità di programmare un’intelligenza artificiale in grado di risolvere i problemi basici di customer care, anche fuori dall’orario di lavoro, oltre che di coordinarsi con il team per intervenire in maniera efficace solo sui problemi più complessi con il vantaggio di non perdere mai l’interazione con il cliente
  3. Etica, cioè l’applicazione, seppur esaltata, dell’intelligenza artificiale dal punto di vista etico. Il consumatore se lo aspetta da ogni brand.
  4. Applicazione di AI anche nello spazio di lavoro, sempre più fluido e smart con tecnologie che permettano ai collaboratori di lavorare da qualsiasi parte del mondo e che rendano il lavoro anche misurabile e le informazioni condivise
  5. Raccolta dati, i dati raccolti saranno la nuova ricchezza del futuro. Banche dati in materia di comportamento d’acquisto e tracciabilità di ogni singolo consumatore potrebbero essere il vero punto di partenza per il successo o il fallimento di nuove startup
  6. Sviluppo di chip e hardware in grado di elaborare efficacemente ed efficientemente la nuova mole di dati raccolti
  7. Cybersecurity, un sistema governato dall’intelligenza artificiale deve essere in grado di individuare, governare, eliminare eventuali minacce per i dati raccolti

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Lo scenario che ci troviamo davanti sembra chiaro: nel mondo del lavoro del futuro non esisterà professione che possa fare a meno dell’AI. Ogni lavoratore si troverà a collaborare con un’intelligenza artificiale in maniera più o meno intensa, quindi anche i leader del futuro dovranno conoscere e utilizzare l’intelligenza artificiale nella propria azienda.

Da qui assisteremo ad un cambio delle gerarchie e del tessuto delle organizzazioni stesse: i processi e le procedure base saranno portate a termine da meccanismi automatizzati e artificialmente intelligenti, mentre le persone e il team saranno il vero valore aggiunto dei brand.

La nuove soft skills, quello che il nostro cervello deve imparare se vuol differenziarsi

Se da una parte lo scenario punta a privilegiare la conoscenza e l’esperienza al solo titolo accademico, dall’altra parte, secondo il World Economic Forum, circa il 50% dei lavoratori attivi dovrà aggiornare le proprie competenze entro il 2025, sviluppando tutte quelle soft skill che li differenzieranno dall’intelligenza artificiale.

Tra le più richieste troviamo: intelligenza laterale, problem solving, resilienza, creatività, risposta positiva allo stress e flessibilità, capacità di lavorare in team e di apprendimento attivo nell’imparare a governare e applicare i diversi sistemi tecnologici e di intelligenza artificiale implementati nella propria azienda.

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Le persone dovranno essere pronte ad aggiornarsi in brevissimo tempo e le aziende dovranno strutturare corsi interni per garantire a tutti una giusta dose di formazione.

Niente scenario apocalittico o invasione robot con il genere umano in ostaggio: l’essere umano rimarrà ancora indispensabile, per lungo tempo.

Cos’è Clubhouse, il social audio su invito amato da VIP e Venture Capitalist

  • Il nuovo social di contenuti audio raggiunge valutazioni stellari e insolite per un startup in questa fase della sua vita
  • Parte del suo successo è sicuramente dovuta all’alto tasso di VIP tra gli iscritti
  • Non si può accedere a Clubhouse senza invito ma si può “prenotare” il nickname

 

Clubhouse è il nuovo il social che contiene esclusivamente contenuti audio. Non è però probabile che tu lo stia già usando, perché una delle caratteristiche più interessanti di questa social app è l’esclusività. Al momento, infatti, puoi accedere alla piattaforma esclusivamente su invito, anche se è possibile iniziare a registrarsi con l’account che si vorrà utilizzare una volta invitati.

Cos’è Clubhouse

Clubhouse è una piattaforma di social media basata sui contenuti audio, una sorta di podcast interattivo in tempo reale. Le conversazioni sono organizzate in chat tematiche tra le quali si può navigare e si può scegliere di partecipare alla conversazione o limitarsi ad ascoltare. Le chat possono anche essere create dagli iscritti al servizio.

cos'è clubhouse

Questo tipo di format diventa particolarmente adatto a sviluppare discussioni di gruppo ma anche opportunità di networking attraverso interazioni che simulano quelle della vita reale confrontandosi, raccontando storie, sviluppando idee e incontrare nuove persone da tutto il mondo. Alcuni moderatori, infatti, assumono sempre più le caratteristiche tipiche degli influencer che siamo ormai abituati a vedere su altre piattaforme.

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Una caratteristica importante è che “quello che viene detto su Clubhouse, rimane su Clubhouse”. Non è infatti possibile scaricare o condividere le conversazioni e i file audio ed è una pratica vietata dalle policy della piattaforma.

Chi ha creato Clubhouse e perché vale così tanto

Clubhouse, è stata sviluppata dall’imprenditore della Silicon Valley Paul Davison e dall’ex dipendente di Google Rohan Seth. A maggio 2020, nonostante potesse contare su soli 1500 iscritti, è stata valutata circa 100 milioni di dollari  (secondo CNBC) e ha ricevuto circa 12 milioni di dollari di finanziamento da Andreessen Horowitz, continuando a crescere.

Sebbene attualmente l’app possa essere utilizzata solo da utenti iPhone, la sua espansione non tarderà ad arrivare. Una stima del genere è però abbastanza insolita per una startup in questa fase della sua “vita” e riflette un ampio aumento delle valutazioni per le aziende tecnologiche private in rapida crescita, anche se la piattaforma non genera entrate e non può contare su un modello di business ben definito.

Andreessen Horowitz dovrebbe guidare un eventuale round di Serie B dopo aver guidato il precedente round di Serie A, quando ha battuto sul tempo alcune delle più grandi aziende di venture della Silicon Valley. I rivali Sequoia Capital, Benchmark, e Lightspeed Venture Partners si stanno muovendo per investire nel potenziale nuovo round, ma è anche possibile che l’accordo non si concluda o che si arrivi a una valutazione inferiore a 1 miliardo di dollari.

Il vivo interesse dei venture capitalist per Clubhouse è scaturito anche dal fatto l’app ha fornito uno sbocco sociale virtuale ad alcune persone durante la pandemia. La scommessa è se la piattaforma continuerà ad attrarre nuovi utenti quando la gente potrà tornare a incontrarsi di persona.

Chi lo usa: lo start con i VIP

Una delle ragioni della sua grande popolarità (e della conseguente crescita degli investimenti) è la forte presenza di celebrità tra gli iscritti.

Saltando da una chat all’altra, potresti imbatterti nelle conversazioni di gente come Oprah Winfrey, Drake, Chris Rock e Ashton Kutcher. Immagina quindi di poter partecipare a conversazioni schiette e dirette con persone famose e personaggi influenti. Inutile negare che questo presupposto attribuisce parecchio fascino alla piattaforma emergente.

Attori e musicisti non sono i soli personaggi di interesse iscritti alla piattaforma: noti venture capitalist sono stati tra i primi grandi nomi ad abbracciare l’app l’anno scorso, ma la sua base di utenti da allora si è ampliata per includere politici e altre personalità influenti. Una recente conversazione in streaming tra il procuratore distrettuale di San Francisco, Chesa Boudin, e alcuni dei suoi detrattori ha attirato migliaia di ascoltatori.

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Oltre alle celebrities, l’app è apparentemente focalizzata su un target considerato di élite. È infatti diventato in breve tempo una sorta di status symbol per le persone della Silicon Valley, anche per l’esclusività legata alla necessità dell’invito per cominciare a utilizzarla. Secondo Taylor Lorenz del New York Times, dai primi 1.500 iscritti di maggio, l’applicazione ha raggiunto i 600.000 utenti a dicembre e starebbe iniziando a corteggiare diversi influencer, anche se fonti vicine all’azienda parlano di un numero di iscritti vicino ormai ai 2 milioni.

clubhouse

Come ottenere un invito a Clubhouse

Come detto in apertura, non è ancora possibile entrare in Clubhouse senza un invito, ma i possessori di iPhone possono intanto scaricarla e “prenotare” un nome utente. Secondo i creatori dell’app, l’apertura al grande pubblico è prevista ma è stata rallentata principalmente per due motivi, cioè costruire la community lentamente e osservare le caratteristiche che saranno utili a gestire un maggior numero di persone.

Stiamo costruendo Clubhouse per tutti e stiamo lavorando per renderla disponibile al mondo il più rapidamente possibile“, si legge sul sito dell’app.

digital tool

SentiOne, PocketTube e Bufferi, i digital tool della settimana

I marketer di oggi vivono di strumenti digitali: alcuni servono per facilitargli la vita gestendo più task contemporaneamente, altri li aiutano a collaborare in modo più efficiente con il team. Altri ancora, a trovare l’ispirazione per non essere mai banali.

Il fatto è questo (e non si può negare): se lavori nel marketing digitale, cerchi costantemente il tool giusto per te. E noi vogliamo aiutarti a trovarlo con questi consigli sui digital tool.

Social linstening

digital tool

Social listening. L’ascolto dei social media è essenziale per costruire strategie efficaci, ma non è sempre così semplice da attuare. SentiOne usa l’intelligenza artificiale per portare questa attività a un livello completamente nuovo, aiutando a cogliere il contesto online e a rispondere più velocemente ai messaggi dei clienti, utilizzando un assistente guidato dall’AI.

Digital tool per la condivisione

Condivisione di documenti interattiva. Qualsiasi azienda oggi lavora in modo collaborativo e anche gli strumenti utilizzati devono stare al passo coi tempi. Bit.ai consente di creare documenti condivisi interattivi nei quali aggiungere qualsiasi tipo di contenuto digitale.

Tool per organizzare i contenuti

Un po’ di ordine su YouTube. Se passi tante ore a guardare contenuti sulla piattaforma, abbonandoti a tanti canali, probabilmente anche tu finisci col non ritrovare più ciò che ti serve. Con PocketTube puoi ordinare i tuoi canali preferiti in cartelle e personalizzare le tue collezioni video.

Digital tool per un copy perfetto

digital tool

Trovare l’ispirazione. Scrivere ogni giorno social post, copy per l’advertising, testi per l’email marketing può essere sfiancante e causare il blocco dello scrittore. Con GetMeCopy scegli la finalità del tuo messaggio e, grazie a un editor intuitivo, inizi subito a comporre i tuoi testi passo passo, sfruttando i suggerimenti della piattaforma. Da provare, per ora solo in versione desktop.

Ottimizzare i tempi

digital tool bufferi

Come saltare l’ennesima call. Annoiati dalle infinite videochiamate di lavoro su Zoom? Bufferi è lo strumento che ti aiuta a fingere una cattiva connessione su Zoom, per evitare domande scomode, o sottrarti alla riunione delle 18 del venerdì. Buon divertimento!

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La tecnologia dell'Intelligenza Artificiale avrà un ruolo sempre più prioritario, e registrerà un incremento del 20%

Microsoft presenta AI Hub, l’iniziativa parte del piano Ambizione Italia #DigitalRestart

Presentata ieri Microsoft AI Hub, un’iniziativa di ecosistema volta a mettere a fattor comune l’expertise di partner nazionali qualificati per aiutare le realtà italiane a cogliere i vantaggi dell’Intelligenza Artificiale e per accelerare lo sviluppo di progetti sperimentali in risposta alle esigenze di diversi settori industriali.

Parte di Ambizione Italia #DigitalRestart, il più ampio piano quinquennale di Microsoft da 1,5 miliardi di dollari di investimento in tecnologie e formazione a supporto della trasformazione digitale del Paese e della creazione della prima Region Datacenter, il nuovo centro virtuale di competenze ha l’obiettivo di fare sistema tra player della filiera ICT e aziende italiane, promuovendo uno stimolante scambio con startup, università, centri di ricerca e istituzioni sul fronte AI.

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Due le vocazioni primarie: da un lato la rapida prototipazione di progetti di AI in grado di supportare la competitività delle aziende per la ripresa e dall’altro la formazione di professionisti per diffondere le competenze digitali necessarie all’innovazione in Italia. L’AI può infatti contribuire concretamente alla crescita del Paese nell’immediato e in un orizzonte di lungo periodo: l’aumento del fatturato delle aziende che adotteranno tecnologie di AI sarà di quasi 3 punti percentuali più alto rispetto alla media delle aziende del settore e l’impatto dell’AI sarà pari a 570 miliardi di euro di fatturato al 2030.

Quello dell’Intelligenza Artificiale è un comparto in crescita, che secondo IDC supererà i 300 miliardi di ricavi a livello globale nel 2024. L’Italia ha buone potenzialità, dal momento che l’indice i-Com sul grado di sviluppo dell’AI la vede in 13° posizione su 27 Stati UE, non lontano dalla Germania. Per cogliere questa opportunità, occorre fare di più aiutando le imprese ad avvicinarsi all’Artificial Intelligence e a sviluppare progetti d’impatto reale facilmente replicabili nei settori chiave dell’Economia Italiana, contribuendo a un circolo virtuoso di rilancio” ha dichiarato Silvia Candiani, AD di Microsoft Italia.

“Per questo anche l’AI è al centro del nostro impegno con il piano Ambizione Italia #DigitalRestart, che a soli otto mesi dal lancio ci ha già visto collaborare con aziende e istituzioni per dare avvio a molte iniziative volte a contribuire alla trasformazione digitale del Paese, dall’Alleanza per lo Smartworking all’Alleanza per la Sostenibilità, dal supporto alle PMI alla formazione digitale agli studenti.”.

Il Microsoft AI Hub si concretizzerà come segue:

  • Focus su 6 settori chiaveMade in Italy (retail, moda e design), manifatturieroservizi finanziarisanitàenergia e infrastrutture.
  • Microsoft agirà da abilitatore mettendo a disposizione la propria expertise e la propria piattaforma Cloud per sviluppare scenari applicativi di Data & AI e per identificare le realtà a più alto potenziale attraverso un Data & AI Maturity Check-Up.
  • In una logica di Open Innovation, le aziende stesse dei comparti strategici dell’economia italiana saranno infatti protagoniste condividendo la propria conoscenza del settore per realizzare use case avanguardistici e progetti pilota, grazie alla stretta collaborazione con gli esperti Microsoft e una task-force di partner in grado offrire consulenza e di mettere le proprie risorse al servizio dello sviluppo, dell’implementazione e dello scale-up di applicazioni di Intelligenza Artificiale.
  • I primi partner Microsoft a bordo dell’iniziativa sono già oltre venti, tra cui: Accenture, Alterna, Altitudo, beanTech, Capgemini, DataSkills, Factory Software, Hevolus Innovation, Iconsulting, Integris, NTT DATA, Porini, Sopra Steria, 4ward.
  • L’iniziativa è aperta ad accogliere altri player per contribuire sempre più alla diffusione dell’AI in Italia e nei prossimi mesi si svilupperà sia in virtuale sia in presenza, andando ad arricchire il Microsoft Technology Center, presso la Microsoft House a Milano, progettato per far vivere scenari d’innovazione ad aziende, startup e professionisti e per promuovere proprio l’Open Innovation.
“Positivo che in Italia si stia diffondendo crescente consapevolezza del valore strategico dell’AI, che non solo è tra le priorità del Governo come emerge dalla definizione di una Strategia per l’Intelligenza Artificiale, ma che è anche sempre più presente nelle scelte di investimento delle imprese: secondo l’indagine Microsoft-KRC Research il 28,2% delle aziende ha già integrato l’Intelligenza Artificiale nella propria strategia aziendale o è in fase di implementazione, mentre il 38,8% sta valutando o sperimentando l’adozione di tecnologie intelligenti. E il 96,5% dei dirigenti delle imprese più mature sull’utilizzo dell’AI dichiara di averne già tratto un valore per il proprio business”, ha commentato Sergio Romoli, Direttore Cloud & Enterprise di Microsoft Italia. 

Spesso però la mancanza di talenti adeguati porta molte aziende ad aver condotto sperimentazioni, ma poche riescono a procedere con un reale scale-up. Ecco perché con Microsoft AI Hub vogliamo fare ecosistema per contribuire allo sviluppo di progetti concreti e facilmente scalabili, grazie alla collaborazione tra i nostri esperti, il nostro network di partner e le aziende stesse, con l’obiettivo di contribuire all’innovazione di interi settori. Al contempo AI Hub offrirà utili risorse i termini di formazione, perché mindset e competenze sono il presupposto per il successo dell’AI e per la trasformazione digitale del Paese”.

Al centro dell’abilitatore, quindi, la rapida prototipazione di progetti in grado di far leva sull’AI per generare un impatto concreto e facilmente replicabili per contribuire alla competitività di industry strategiche, con focus su alcuni scenari chiave per la ripresa, come l’utilizzo di dati e analytics per recuperare agilità, per personalizzare l’esperienza di clienti e dipendenti, per digitalizzare i processi in una logica di maggior resilienza e per agevolare l’innovazione di prodotti e servizi.

A tal fine nei progetti pilota verranno integrate tecnologie avanguardistiche ma già consolidate di Computer Vision, Mixed Reality, Data & Knowledge Mining, Bots & Conversational AI, Predictive Analytics, Machine Learning e Data Visualization, abilitate dal Cloud Computing di Microsoft.

Lo sviluppo di use case verrà promosso anche attraverso iniziative come Business Hackathon, volti a stimolare le aziende a collaborare con Microsoft e i Partner per ottimizzare i processi grazie all’AI, sfidandosi per aggiudicarsi supporto consulenziale da parte di esperti/accademici in modo da poter implementare e scalare i propri progetti.

Il Microsoft AI Hub sarà anche un centro di competenze per promuovere la cultura del digitale e la formazione con l’obiettivo di colmare lo skill gap del Paese e di diffondere conoscenze strategiche per un approccio etico all’Intelligenza Artificiale, che possa contribuire a una crescita sostenibile dell’Italia. A tal fine Microsoft metterà a disposizione un ricco palinsesto di contenuti nella sezione dedicata all’AI Hub della piattaforma digitale Ambizione Italia #Digital Restart e svilupperà iniziative di formazione e corsi rivolti a giovani, partner e aziende.

Le realtà del territorio avranno in particolare l’opportunità di accedere all’AI Business School di Microsoft, un’esperienza formativa consolidata che consente di personalizzare il proprio programma di apprendimento scegliendo i corsi in base alle necessità, al livello di conoscenza dei temi e all’industry, con la possibilità di ottenere anche certificazioni utili sul mercato e soprattutto di acquisire nozioni di business, nonché competenze pratiche su come sviluppare Bot e App intelligenti.

Joe Biden

Cosa cambia per l’industria tecnologica americana con la vittoria di Biden

Secondo alcune voci di corridoio, ancora prima che Joe Biden si assicurasse la vittoria nelle elezioni presidenziali americane, il suo staff si stava mettendo in contatto con i dirigenti dell’industria tecnologica americana cercando un dialogo, in previsione di rimodellare le politiche del Paese su alcuni aspetti legati a internet e alle telecomunicazioni.

La campagna di Biden ha segnato una significativa inversione di tendenza rispetto agli ultimi quattro anni, durante i quali il Presidente uscente Trump ha spesso rincorso diverse occasioni per farsi ritrarre insieme ai big del tech senza però instaurare un vero confronto con loro e senza prendere in considerazione le loro opinioni su temi chiave come l’immigrazione e le politiche commerciali.

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La vittoria di Biden, dopo diversi giorni di incertezza durante il conteggio dei voti negli stati a rischio, ha fatto tirare un sospiro di sollievo ai dipendenti di tutto il comparto tecnologico, che hanno sostenuto in modo schiacciante il candidato democratico, come hanno fatto nella maggior parte delle elezioni passate. Il Presidente sta infatti integrando nel suo staff diversi esperti del mondo tech.

L’opinione diffusa è che la nuova amministrazione prenderà seriamente il suo ruolo di regolatore e gli investitori e le imprese non dovrebbero trascurare la rapidità con cui il presidente Biden si muoverà sulla politica, soprattutto per quanto riguarda il futuro del lavoro e la ripresa dell’economia americana.

I discorsi di Biden durante la sua campagna hanno offerto la speranza di un ritorno a una formulazione più sistematica delle politiche, basata sulla costruzione del consenso degli attori in gioco. Le politiche dell’amministrazione Trump, al contrario, spesso sembravano essere progettate per danneggiare singole aziende che il Presidente non vedeva di buon occhio o, al contrario, favorire quelle che considerava dalla sua parte.

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Uno dei casi più noti si è verificato quando Amazon aveva sostenuto che Trump avesse sollecitato impropriamente il Pentagono a scegliere Microsoft (invece di Amazon Web Services) per un contratto di cloud computing da 10 miliardi di dollari. Va specificato che il fondatore della piattaforma di eCommerce, Jeff Bezos, è anche il proprietario del Washington Post, spesso tacciato di essere ingiustamente critico nei confronti di Trump, proprio dal Presidente.

Ci si aspetta, quindi, che Biden operi una rottura netta con alcune delle politiche di Trump, come l’inversione dei tagli alle tasse per le aziende. Altre politiche, come le rigide regole dell’antitrust nei confronti delle grandi aziende tecnologiche e la riforma della Sezione 230, che le protegge dalle cause sui contenuti pubblicati online dai propri iscritti, potrebbero invece vedere un certo livello di continuità tra le amministrazioni Trump e Biden.

Dopo quattro anni di ostinato negazionismo di Trump, pensiero magico e danni economici, Biden promuoverà il rigore politico, lo spirito pubblico e l’ingegnosità del settore privato per lavorare insieme per soluzioni innovative. Sarà un lavoro duro, ma possiamo aspettarci l’alba di una nuova era di dinamismo trainata dalla tecnologia degli Stati Uniti.

Ecco quindi le cinque politiche chiave che potrebbero essere fortemente influenzate dall’elezione del nuovo presidente.

Antitrust

L’applicazione antitrust alle grandi tecnologie è un campo d’azione su cui c’è un ampio sostegno bipartisan. I funzionari antitrust, sia al Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti sia alla Commissione Federale del Commercio (che sta attualmente valutando una causa contro Facebook) sono infatti professionisti slegati dalle interferenze politiche.

È quindi probabile che l’amministrazione Biden esorterà le agenzie dedicate a mantenere un approccio aggressivo nel perseguire i casi antitrust, proprio come ha fatto l’amministrazione Trump.

Inoltre, i procuratori generali degli stati democratici avranno più influenza in un’amministrazione Biden e la sua vittoria rende più probabile l’ipotesi che si uniranno alla causa del Dipartimento di Giustizia contro Google, forse aggravando le accuse secondo le quali Google avrebbe usato illegalmente la sua forza online per dominare il mercato della pubblicità digitale

Ma i procuratori generali democratici avrebbero potrebbero attivare potenziali azioni antitrust federali anche contro Amazon, Apple e Facebook. L’obiettivo dichiarato era rendere più complicato per le piattaforme dominanti come Facebook o Google l’iter per ottenere l’approvazione per l’acquisizione di aziende più piccole e rendere più facile perseguire le imprese che violano le leggi antitrust.

Sezione 230

Mentre Biden ha già specificato di voler riformare la Sezione 230, la sua amministrazione probabilmente non sarà aggressiva come Trump nei confronti della legge.

L’ex Presidente aveva avviato “una guerra burocratica” sulla Sezione 230 con un ordine esecutivo che indirizzava il Dipartimento di Giustizia, il Dipartimento del Commercio, la Federal Communications Commission e la Federal Trade Commission a prendere provvedimenti per indebolire le protezioni legali delle piattaforme tecnologiche. L’azione era però motivata, in parte, dalla sua opinione che Facebook, Twitter e altri social media fossero impegnati nella censura selettiva delle voci conservatrici.

È probabile che Biden revochi gli ordini di Trump o spinga le varie agenzie a non intervenire sulla questione. Biden è stato membro del Senato per 36 anni e non è probabile che appoggi gli sforzi di Trump nell’usare le agenzie federali per minare l’autorità del Congresso nell’approvazione delle leggi. Tuttavia, se il Congresso approverà le riforme della Sezione 230, cosa che sembra probabile, ci si può aspettare che Biden le firmi convertendole in legge.

bytedance tiktok

Ci sarà probabilmente un accordo bipartisan su riforme che ridimensionano alcune delle protezioni della Sezione 230“, ha detto Bruce Mehlman, un lobbista la cui impresa lavora con aziende tecnologiche come Zoom e ByteDance. Secondo Mehlman, le piattaforme tecnologiche potrebbero essere costrette a rimuovere alcuni tipi di contenuti, ad esempio quelli relativi alla vendita di droghe illegali.

Immigrazione

L’approccio di Trump all’immigrazione ha infiammato l’industria tecnologica più di tutte le sue politiche. La sua amministrazione ha fatto il possibile per fermare il flusso di cittadini stranieri negli Stati Uniti e questo ha avuto un impatto diretto sull’industria.

L’Information Technology Industry Council, un gruppo commerciale tecnologico con sede a Washington, si aspetta che Biden annulli una serie di ordini esecutivi legati all’immigrazione emessi da Trump. Inoltre, il gruppo spera anche che Biden riveda i programmi di visto per non immigrati per soddisfare meglio la domanda del mercato del lavoro.

La “cosa più veloce da fare, e vedrete che Biden lo farà immediatamente, è stralciare le politiche di immigrazione di Trump e rendere il reparto tecnologico molto felice“, ha dichiarato Jim Messina, un ex assistente del Presidente Barack Obama, ora consulente di aziende tech.

Biden probabilmente sosterrà anche una legislazione come il Fairness for High-Skilled Immigrants Act, che renderebbe più facile per la Silicon Valley reclutare lavoratori nel settore dell’informatica. Sembra che il disegno di legge favorisca in particolare il grande numero di lavoratori provenienti dall’India in attesa della green card, il documento  che permetterebbe loro di rimanere permanentemente negli Stati Uniti.

Il disegno di legge rimuoverebbe il limite di green card a disposizione di ogni paese, consentendo ai molti impiegati indiani nell’industria tecnologica statunitense di assicurarsi il permesso per rimanere negli USA.

Tasse

inauguration day - joe biden

Una delle differenze più nette tra Biden e Trump è nel loro approccio alle tasse. Trump ha puntato alla più grande riforma del sistema fiscale dagli anni ’80, tagliando l’aliquota dell’imposta sulle società dal 35% al 21%. La riforma fiscale di Trump ha anche rivisto la tassazione personale, tagliando le aliquote per gli scaglioni più alti, dal 39,6% al 37%.

All’esatto opposto, Biden prevede di aumentare le tasse per chiunque guadagni più di 400.000 dollari e di riportare le imposte patrimoniale ai livelli precedenti. Tuttavia, un Senato repubblicano renderebbe difficile, se non impossibile, far passare modifiche fiscali significative.

Commercio

Il primo compito per il neo Presidente nell’ambito degli scambi internazionali sarà quello di tentare di ricucire il rapporto degli Stati Uniti con la Cina. Ovviamente, continuerà a “fare pressione”, ma abbandonando l’approccio unilaterale alla “guerra commerciale” del suo predecessore e concentrandosi invece sull’arruolamento di alleati come il Giappone e l’Europa per contrastare la crescente influenza economica globale cinese.

Biden adotterà un approccio più sistematico nei confronti della politica cinese degli Stati Uniti, che prima pareva concentrarsi sulle singole aziende, vedi ByteDance e Huawei, invece che su obiettivi commerciali più ampi.

linkedin employee branding

Dall’Employer all’Employee Branding: attrarre i giovani con l’umanità e l’imperfezione

  • Dall’eroismo alla vicinanza sociale dei brand, anche l’employer branding cambia prospettiva
  • Puntare sull’inclusione generazionale è la strategia giusta per non perdere attrattività

Non è un errore di battitura. Nel titolo è scritto proprio Employee Branding (branding dei dipendenti) perché il focus delle strategie di attrazione dei futuri lavoratori in azienda si sposta sempre di più dal brand alle persone.

La trasformazione in Employee Branding

Il cambio culturale che si è prodotto nel nostro immaginario collettivo in questo 2020 di pandemie e infodemie, ha già modificato i messaggi sul piano marketing dei brand più importanti portandoli a narrare degli storytelling che, come ha profetizzato Andrea Fontana in “Ballando con l’Apocalisse” (ROI Edizioni, 2020.p.58), sono passati dai messaggi che prima del Covid-19 recitavano: “Amami, ti insegno a vivere, per cui comprami” a: “So che siamo nei guai, ma credo di capire i tuoi problemi, che sono anche i miei, proverò a starti a fianco per fare con te un pezzo di strada insieme”.

leadership
E l’employer branding non può esimersi dal guardarsi allo specchio e riflettere se i messaggi che parlavano di impatto, carriera, “better workplace to be” e di benefit personalizzati siano ancora validi dopo la rivoluzione culturale e di sensibilità che si sta compiendo in questi mesi nella percezione dei potenziali nuovi dipendenti.

Un altro aspetto con cui fare i conti sarà senza dubbio la percezione della scarsità del lavoro e delle inevitabili difficoltà collegate alla contrazione del mercato per il 2021 che potrebbero modificare in un senso o in un altro i valori che i più giovani reputano distintivi di un brand. Si sceglieranno brand più “sicuri” dal punto di vista della stabilità economica e della sicurezza psicologica o continuerà il trend di infatuazione verso le aziende che riflettono sensibilità ai temi di sostenibilità e digitalità?

Employee Branding

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In altre occasioni ho già espresso personalmente quali contenuti evergreen dovrebbe comprendere una strategia di employer branding per essere efficace soprattutto in relazione al target giovanile: ovvero che il messaggio di Employer Value Proposition deve puntare sul miglioramento degli aspetti ritenuti per loro stessi come “negativi”, e quindi motivare, informare e valorizzare coloro che si ritengono disinformati, sfiduciati, defocalizzati, ma attraverso uno stile che si avvicini agli attributi che Millennials e Zed Gen conferiscono a loro stessi come “positivi”, ovvero partecipativo, dinamico, digitale e “smart”.

Ma esistono sicuramente altri temi fondamentali su cui vale la pena concentrare l’attenzione. Uno di questi è senz’altro la capacità di rappresentare in maniera trasparente ed efficace l’attenzione dell’azienda all’inclusione generazionale. Stando ai dati di Universum Global (2019) del D&I Index, infatti, il Il 53% dei Millennials definisce la diversità come diversità di età, l’83% dei Millennials e il 92% della Gen Z la considera come diversità culturale.

Sono quindi meno prevalenti gli altri temi come il genere, l’etnia, la religione, etc., e questo sta a significare quanto sia efficace poter rendere la propria organizzazione non solo sensibile, ma concretamente dedita all’inclusione generazionale, al fine di renderla naturalmente attrattiva per le nuove generazioni.

Employee Branding
La dicotomia tra “veterani” e “neofiti” rappresenta anche sul piano emotivo del giovane la paura di non essere integrato, accettato o accompagnato nella crescita professionale da parte dell’organismo aziendale. Questo, spesso, detiene o un numero elevato di senior, o una cultura valoriale che risiede necessariamente nelle figure con maggiore “anzianità” di carriera in quell’organizzazione.

Non è un mistero, inoltre, che i brand che investono in Diversity & Inclusion, aumentano significativamente i loro ricavi.
Gli ultimi dati del Diversity Brand Summit 2020 rilevano un +23% di crescita complessiva, con scelte di acquisto da parte dei consumatori che sono dedicate per oltre il 63% ai marchi ritenuti maggiormente inclusivi e la misura del Net Promoter Score che evidenzia una veicolazione del passaparola addirittura del +89,8% per questa tipologia di brand.

Se l’inclusione culturale attrae consumatori, probabilmente può farlo anche per futuri employee. Non a caso molti marchi di questa classifica coincidono anche con quelli più scelti o preferiti nelle indagini dell’Universum Most Attractive Employers Italy 2020.

Employee Branding

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Narrare l’inclusione significa approcciarsi alle tematiche sociali e di sostenibilità e ad un mindset culturale aperto e vicino alla realtà contemporanea delle persone, in particolare quelle alla ricerca di un lavoro, poiché ne vivono la complessità, l’incertezza e la volatilità in maniera molto concreta.

Torniamo quindi al principio per cui non sono forse solo le soluzioni eroiche dell’Employer ad attrarci (“ho un’opportunità di lavoro per te, ti salverò dalle difficoltà economiche”) ma anche i problemi e i conflitti umani che ci spronano e ci motivano nel momento in cui le organizzazioni che accettano le diversità e le fragilità di tutti e sono rappresentate anche da persone che falliscono, esitano e soffrono.

Poiché una delle grandi difficoltà delle strategie di employer branding è quella di rapportarsi con la comunicazione esterna di prodotto (che solitamente non parla di persone) la strada del racconto dell’imperfezione, fatta di esseri umani perfettibili, di risultati non ottenuti e obiettivi non raggiunti, potrebbe diventare una scelta di narrazione coraggiosa e ripida, ma che certamente riuscirebbe ad attrarre molto efficacemente la platea dei potenziali employee, (giovani e meno giovani), in quanto ineluttabilmente autentica.

La frontiera innovativa dello storytelling di un datore di lavoro che si prefigura è quindi una sorta di “Employer Unbranding” o “Employee Branding”, dove si comunica in primis la vita autentica delle persone, senza filtri, essenziale. E ancora di più uno storytelling intergenerazionale può fare la differenza, nel momento in cui la narrazione delle storie professionali riesca a rappresentare anche i conflitti e le criticità della vita delle persone, con l’obiettivo non solo di aumentare la notorietà dell’employer brand, ma anche di offrire una reale utilità alle persone stimolando il loro interesse e il loro coinvolgimento.

Microsoft - Didattica in atto

Microsoft Italia lancia Didattica in Atto, un progetto eLearning per i docenti

Microsoft Italia ha presentato il 20 gennaio Didattica in Atto, progetto per la formazione online on-demand rivolta a tutti quei docenti che vogliono approfondire la conoscenza e l’utilizzo delle soluzioni Microsoft per la didattica digitale.

L’annuncio è avvenuto in occasione di BETT, l’evento internazionale online in programma fino al 22 gennaio dedicato alle tecnologie per il mondo dell’educazione.

Didattica in Atto: l’impegno di Microsoft durante la pandemia

In un momento in cui le restrizioni a causa della pandemia rendono il rientro a scuola ancora incerto, Microsoft Italia, dopo aver formato 140.000 docenti dall’inizio dell’emergenza sanitaria, conferma il proprio impegno nel sostenere i docenti italiani attraverso tecnologie e formazione completamente gratuiti e aiutarli così a garantire continuità didattica ai nostri studenti.

didattica in atto Microsoft

L’iniziativa si traduce in un programma di apprendimento online che consente agli insegnati di accedere con facilità a tutorial on-demand, a guide di studio pratiche e scaricabili e a un calendario di webinar disponibili online sul Microsoft Educator Centre con consigli e buone pratiche per una didattica digitale efficace e coinvolgente, testimonianze di esperti del mondo della scuola, e video pillole sull’utilizzo di Office365 Education A1, ovvero il pacchetto di programmi e applicazioni, disponibili sempre gratuitamente, in grado di trasformare la propria classe in un’aula digitale collaborativa.

Tra i contenuti formativi realizzati direttamente dai MIE Expert, ovvero i docenti innovatori italiani che già padroneggiano le soluzioni Microsoft, attività dedicate per esempio all’uso di Microsoft Teams, l’hub digitale che consente di creare aule virtuali di collaborazione, dove è possibile vedere il proprio insegnante e seguire la lezione, interagire con lui e con i compagni, e suggerimenti sull’utilizzo dei Learning Tools ovvero tutti quegli strumenti per migliorare le competenze di lettura e scrittura per gli studenti con disturbi dell’apprendimento, in chiave accessibilità, affinché la tecnologia possa essere il motore per una società più inclusiva.

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Oltre 1 milione di insegnanti in tutto il mondo

Didattica in Atto si aggiunge ai già numerosi contenuti digitali che Microsoft ha messo a disposizione gratuitamente per tutti gli insegnanti per aiutarli a ripensare alla didattica in chiave digitale, e che nell’ultimo mese sono stati fruiti da oltre 1 milione di insegnanti in tutto il mondo.

Questo percorso di formazione online offre inoltre la possibilità ai partecipanti di ottenere un attestato finale di partecipazione che consente ai docenti che si avvicinano per la prima volta alle tecnologie Microsoft di diventare MIE Certified e unirsi alla rete di apprendimento professionale globale di educatori digitali.

“In attesa che si possa tornare in aula in piena sicurezza, che auspichiamo possa avvenire il più presto possibile, con Didattica in Atto ci proponiamo di gettare le basi per una didattica che potrà risultare efficace anche in futuro. Mi auguro infatti che presto si possa parlare non di didattica a distanza come alternativa alla scuola in presenza, ma di una vera e propria didattica ibrida, dove il digitale si integra e non si sostituisce alle lezioni in presenza e contribuisce in modo complementare all’apprendimento dei nostri ragazzi. Sono convinta che fisico e digitale possano coesistere in modo sinergico ed efficace” ha commentato Elvira Carzaniga, Direttore Education Microsoft Italia.