Il nuovo social di contenuti audio raggiunge valutazioni stellari e insolite per un startup in questa fase della sua vita
Parte del suo successo è sicuramente dovuta all’alto tasso di VIP tra gli iscritti
Non si può accedere a Clubhouse senza invito ma si può “prenotare” il nickname
Clubhouse è il nuovo il social che contiene esclusivamente contenuti audio. Non è però probabile che tu lo stia già usando, perché una delle caratteristiche più interessanti di questa social app è l’esclusività. Al momento, infatti, puoi accedere alla piattaforma esclusivamente su invito, anche se è possibile iniziare a registrarsi con l’account che si vorrà utilizzare una volta invitati.
Cos’è Clubhouse
Clubhouse è una piattaforma di social media basata sui contenuti audio, una sorta di podcast interattivo in tempo reale. Le conversazioni sono organizzate in chat tematiche tra le quali si può navigare e si può scegliere di partecipare alla conversazione o limitarsi ad ascoltare. Le chat possono anche essere create dagli iscritti al servizio.
Questo tipo di format diventa particolarmente adatto a sviluppare discussioni di gruppo ma anche opportunità di networking attraverso interazioni che simulano quelle della vita reale confrontandosi, raccontando storie, sviluppando idee e incontrare nuove persone da tutto il mondo. Alcuni moderatori, infatti, assumono sempre più le caratteristiche tipiche degli influencer che siamo ormai abituati a vedere su altre piattaforme.
Una caratteristica importante è che “quello che viene detto su Clubhouse, rimane su Clubhouse”. Non è infatti possibile scaricare o condividere le conversazioni e i file audio ed è una pratica vietata dalle policy della piattaforma.
Chi ha creato Clubhouse e perché vale così tanto
Clubhouse, è stata sviluppata dall’imprenditore della Silicon Valley Paul Davison e dall’ex dipendente di Google Rohan Seth. A maggio 2020, nonostante potesse contare su soli 1500 iscritti, è stata valutata circa 100 milioni di dollari (secondo CNBC) e ha ricevuto circa 12 milioni di dollari di finanziamento da Andreessen Horowitz, continuando a crescere.
Sebbene attualmente l’app possa essere utilizzata solo da utenti iPhone, la sua espansione non tarderà ad arrivare. Una stima del genere è però abbastanza insolita per una startup in questa fase della sua “vita” e riflette un ampio aumento delle valutazioni per le aziende tecnologiche private in rapida crescita, anche se la piattaforma non genera entrate e non può contare su un modello di business ben definito.
Andreessen Horowitz dovrebbe guidare un eventuale round di Serie B dopo aver guidato il precedente round di Serie A, quando ha battuto sul tempo alcune delle più grandi aziende di venture della Silicon Valley. I rivali Sequoia Capital, Benchmark, e Lightspeed Venture Partners si stanno muovendo per investire nel potenziale nuovo round, ma è anche possibile che l’accordo non si concluda o che si arrivi a una valutazione inferiore a 1 miliardo di dollari.
Il vivo interesse dei venture capitalist per Clubhouse è scaturito anche dal fatto l’app ha fornito uno sbocco sociale virtuale ad alcune persone durante la pandemia. La scommessa è se la piattaforma continuerà ad attrarre nuovi utenti quando la gente potrà tornare a incontrarsi di persona.
Chi lo usa: lo start con i VIP
Una delle ragioni della sua grande popolarità (e della conseguente crescita degli investimenti) è la forte presenza di celebrità tra gli iscritti.
#Clubhouse brings the human skill of listening + sequencing conversations. Great to listen + speak (in German) and it leads to direct conversion to connections. Thank you @thorbeng + Anton for making this happen. pic.twitter.com/xtdYR08S8g
Saltando da una chat all’altra, potresti imbatterti nelle conversazioni di gente come Oprah Winfrey, Drake, Chris Rock e Ashton Kutcher. Immagina quindi di poter partecipare a conversazioni schiette e dirette con persone famose e personaggi influenti. Inutile negare che questo presupposto attribuisce parecchio fascino alla piattaforma emergente.
Attori e musicisti non sono i soli personaggi di interesse iscritti alla piattaforma: noti venture capitalist sono stati tra i primi grandi nomi ad abbracciare l’app l’anno scorso, ma la sua base di utenti da allora si è ampliata per includere politici e altre personalità influenti. Una recente conversazione in streaming tra il procuratore distrettuale di San Francisco, Chesa Boudin, e alcuni dei suoi detrattori ha attirato migliaia di ascoltatori.
Oltre alle celebrities, l’app è apparentemente focalizzata su un target considerato di élite. È infatti diventato in breve tempo una sorta di status symbol per le persone della Silicon Valley, anche per l’esclusività legata alla necessità dell’invito per cominciare a utilizzarla. Secondo Taylor Lorenz del New York Times, dai primi 1.500 iscritti di maggio, l’applicazione ha raggiunto i 600.000 utenti a dicembre e starebbe iniziando a corteggiare diversi influencer, anche se fonti vicine all’azienda parlano di un numero di iscritti vicino ormai ai 2 milioni.
Come ottenere un invito a Clubhouse
Come detto in apertura, non è ancora possibile entrare in Clubhouse senza un invito, ma i possessori di iPhone possono intanto scaricarla e “prenotare” un nome utente. Secondo i creatori dell’app, l’apertura al grande pubblico è prevista ma è stata rallentata principalmente per due motivi, cioè costruire la community lentamente e osservare le caratteristiche che saranno utili a gestire un maggior numero di persone.
“Stiamo costruendo Clubhouse per tutti e stiamo lavorando per renderla disponibile al mondo il più rapidamente possibile“, si legge sul sito dell’app.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2021/01/cosa-è-clubhouse.jpg5611038Fabio Casciabancahttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngFabio Casciabanca2021-01-25 09:00:202021-02-26 14:06:20Cos'è Clubhouse, il social audio su invito amato da VIP e Venture Capitalist
Presentata ieri Microsoft AI Hub, un’iniziativa di ecosistema volta a mettere a fattor comune l’expertise di partner nazionali qualificati per aiutare le realtà italiane a cogliere i vantaggi dell’Intelligenza Artificiale e per accelerare lo sviluppo di progetti sperimentali in risposta alle esigenze di diversi settori industriali.
Parte di Ambizione Italia #DigitalRestart, il più ampio piano quinquennale di Microsoftda 1,5 miliardi di dollari di investimento in tecnologie e formazione a supporto della trasformazione digitale del Paese e della creazione della prima Region Datacenter, il nuovo centro virtuale di competenze ha l’obiettivo di fare sistema tra player della filiera ICT e aziende italiane, promuovendo uno stimolante scambio con startup, università, centri di ricerca e istituzioni sul fronte AI.
Due le vocazioni primarie: da un lato la rapida prototipazione di progetti di AI in grado di supportare la competitività delle aziende per la ripresa e dall’altro la formazione di professionisti per diffondere le competenze digitali necessarie all’innovazione in Italia. L’AI può infatti contribuire concretamente alla crescita del Paese nell’immediato e in un orizzonte di lungo periodo: l’aumento del fatturato delle aziende che adotteranno tecnologie di AI sarà di quasi 3 punti percentuali più alto rispetto alla media delle aziende del settore e l’impatto dell’AI sarà pari a 570 miliardi di euro di fatturato al 2030.
“Quello dell’Intelligenza Artificiale è un comparto in crescita, che secondo IDC supererà i 300 miliardi di ricavi a livello globale nel 2024. L’Italia ha buone potenzialità, dal momento che l’indice i-Com sul grado di sviluppo dell’AI la vede in 13° posizione su 27 Stati UE, non lontano dalla Germania. Per cogliere questa opportunità, occorre fare di più aiutando le imprese ad avvicinarsi all’Artificial Intelligence e a sviluppare progetti d’impatto reale facilmente replicabili nei settori chiave dell’Economia Italiana, contribuendo a un circolo virtuoso di rilancio” ha dichiarato Silvia Candiani, AD di Microsoft Italia.
“Per questo anche l’AI è al centro del nostro impegno con il piano Ambizione Italia #DigitalRestart, che a soli otto mesi dal lancio ci ha già visto collaborare con aziende e istituzioni per dare avvio a molte iniziative volte a contribuire alla trasformazione digitale del Paese, dall’Alleanza per lo Smartworking all’Alleanza per la Sostenibilità, dal supporto alle PMI alla formazione digitale agli studenti.”.
Il Microsoft AI Hub si concretizzerà come segue:
Focus su 6 settori chiave: Made in Italy (retail, moda e design), manifatturiero, servizi finanziari, sanità, energia e infrastrutture.
Microsoft agirà da abilitatore mettendo a disposizione la propria expertise e la propria piattaforma Cloud per sviluppare scenari applicativi di Data & AI e per identificare le realtà a più alto potenziale attraverso un Data & AI Maturity Check-Up.
In una logica di Open Innovation, le aziende stesse dei comparti strategici dell’economia italiana saranno infatti protagoniste condividendo la propria conoscenza del settore per realizzare use case avanguardistici e progetti pilota, grazie alla stretta collaborazione con gli esperti Microsoft e una task-force di partner in grado offrire consulenza e di mettere le proprie risorse al servizio dello sviluppo, dell’implementazione e dello scale-up di applicazioni di Intelligenza Artificiale.
I primi partner Microsoft a bordo dell’iniziativa sono già oltre venti, tra cui: Accenture, Alterna, Altitudo, beanTech, Capgemini, DataSkills, Factory Software, Hevolus Innovation, Iconsulting, Integris, NTT DATA, Porini, Sopra Steria, 4ward.
L’iniziativa è aperta ad accogliere altri player per contribuire sempre più alla diffusione dell’AI in Italia e nei prossimi mesi si svilupperà sia in virtuale sia in presenza, andando ad arricchire il Microsoft Technology Center, presso la Microsoft House a Milano, progettato per far vivere scenari d’innovazione ad aziende, startup e professionisti e per promuovere proprio l’Open Innovation.
“Positivo che in Italia si stia diffondendo crescente consapevolezza del valore strategico dell’AI, che non solo è tra le priorità del Governo come emerge dalla definizione di una Strategia per l’Intelligenza Artificiale, ma che è anche sempre più presente nelle scelte di investimento delle imprese: secondo l’indagine Microsoft-KRC Research il 28,2% delle aziende ha già integrato l’Intelligenza Artificiale nella propria strategia aziendale o è in fase di implementazione, mentre il 38,8% sta valutando o sperimentando l’adozione di tecnologie intelligenti. E il 96,5% dei dirigenti delle imprese più mature sull’utilizzo dell’AI dichiara di averne già tratto un valore per il proprio business”, ha commentato Sergio Romoli, Direttore Cloud & Enterprise di Microsoft Italia.
“Spesso però la mancanza di talenti adeguati porta molte aziende ad aver condotto sperimentazioni, ma poche riescono a procedere con un reale scale-up. Ecco perché con Microsoft AI Hub vogliamo fare ecosistema per contribuire allo sviluppo di progetti concreti e facilmente scalabili, grazie alla collaborazione tra i nostri esperti, il nostro network di partner e le aziende stesse, con l’obiettivo di contribuire all’innovazione di interi settori. Al contempo AI Hub offrirà utili risorse i termini di formazione, perché mindset e competenze sono il presupposto per il successo dell’AI e per la trasformazione digitale del Paese”.
Al centro dell’abilitatore, quindi, la rapida prototipazione di progetti in grado di far leva sull’AI per generare un impatto concreto e facilmente replicabili per contribuire alla competitività di industry strategiche, con focus su alcuni scenari chiave per la ripresa, come l’utilizzo di dati e analytics per recuperare agilità, per personalizzare l’esperienza di clienti e dipendenti, per digitalizzare i processi in una logica di maggior resilienza e per agevolare l’innovazione di prodotti e servizi.
A tal fine nei progetti pilota verranno integrate tecnologie avanguardistiche ma già consolidate di Computer Vision, Mixed Reality, Data & Knowledge Mining, Bots & Conversational AI, Predictive Analytics, Machine Learning e Data Visualization, abilitate dal Cloud Computing di Microsoft.
Lo sviluppo di use case verrà promosso anche attraverso iniziative come Business Hackathon, volti a stimolare le aziende a collaborare con Microsoft e i Partner per ottimizzare i processi grazie all’AI, sfidandosi per aggiudicarsi supporto consulenziale da parte di esperti/accademici in modo da poter implementare e scalare i propri progetti.
Il Microsoft AI Hub sarà anche un centro di competenze per promuovere la cultura del digitale e la formazione con l’obiettivo di colmare lo skill gap del Paese e di diffondere conoscenze strategiche per un approccio etico all’Intelligenza Artificiale, che possa contribuire a una crescita sostenibile dell’Italia. A tal fine Microsoft metterà a disposizione un ricco palinsesto di contenuti nella sezione dedicata all’AI Hub della piattaforma digitale Ambizione Italia #Digital Restart e svilupperà iniziative di formazione e corsi rivolti a giovani, partner e aziende.
Le realtà del territorio avranno in particolare l’opportunità di accedere all’AI Business School di Microsoft, un’esperienza formativa consolidata che consente di personalizzare il proprio programma di apprendimento scegliendo i corsi in base alle necessità, al livello di conoscenza dei temi e all’industry, con la possibilità di ottenere anche certificazioni utili sul mercato e soprattutto di acquisire nozioni di business, nonché competenze pratiche su come sviluppare Bot e App intelligenti.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2020/11/Intelligenza-artificiale-automazione-e-altre-tecnologie-esponenziali-per-migliorare-i-flussi-di-lavoro.jpg468700Company Newshttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngCompany News2021-01-22 18:30:302021-02-15 16:32:48Microsoft presenta AI Hub, l’iniziativa parte del piano Ambizione Italia #DigitalRestart
Nel primo semestre del 2018, le vendite di veicoli elettrici avevano già raggiunto le 783.000 unità in tutto il mondo superando la quota del 2% del mercato globale
Per quanto le startup cinesi abbiano guadagnato terreno, i loro numeri sono ancora molto inferiori a quelli di Tesla
Ma il cambiamento è globale e l’Europa guida i trend di crescita, grazie agli obiettivi sulle emissioni di CO2. La sfida più grande oggi è nella catena di fornitura delle batterie
L’era dei motori a combustione sta finendo: a lungo termine, questo settore non esisterà più.
Nel prossimo decennio la mobilità si trasformerà completamente grazie alla diffusione dei veicoli elettrici e alla condivisione dei mezzi di trasporto, con enormi implicazioni per il mercato dell’automobile e per la società in generale.
Una forte prova a sostegno di questa affermazione è la domanda di petrolio per il carburante dei veicoli che, secondo Bloomberg New Energy Finance, ha già raggiunto il suo picco, mentre la domanda di risorse energetiche per l’intero trasporto su strada raggiungerà il suo picco nel 2035, quando scenderà dello 0,6% su base annua per tornare ai livelli del 2018 nel 2050. Il trend si rifletterà sull’ambiente, con un deciso calo anche delle emissioni inquinanti, che seguiranno lo stesso percorso.
Già ora, i veicoli elettrici sostituiscono il fabbisogno di un milione di barili al giorno: in soli venti anni si consumeranno 17 milioni di barili di petrolio in meno. Ogni giorno. Seguendo questo trend, continuare a utilizzare automobili a combustione diventerà insostenibile dal punto di vista finanziario e inaccettabile per quanto riguarda l’ambiente.
Secondo Deloitte, nel primo semestre del 2018, le vendite di veicoli elettrici avevano già raggiunto le 783.000 unità in tutto il mondo superando la quota del 2% del mercato globale, e più che raddoppiando dal 2015.
Lo scontro fra Tesla e Nio (e le altre startup cinesi) in numeri
Il mercato cinese dei veicoli elettrici poggia prevalentemente su tre grandi operatori: Nio, Li Auto e Xpeng.
Le vendite di veicoli elettrici “puri” da gennaio a novembre sono aumentate del 4,4% rispetto a un anno fa, contro un calo del 7,6% delle vendite complessive di autovetture nello stesso periodo, secondo il Ministero dell’Industria e dell’Information Technology cinese. Le azioni delle tre startup cinesi, tutte quotate a New York, sono salite alle stelle: Nio è stata una delle società cinesi quotate negli Stati Uniti più performanti del 2020, con un guadagno di oltre l’1,100%.
Per quanto le startup cinesi abbiano guadagnato terreno, i loro numeri sono ancora molto inferiori a quelli di Tesla di Elon Musk, che ha consegnato un numero di auto circa cinque volte maggiore in tutto il mondo nello scorso anno rispetto alle tre startup messe insieme.
Ecco lo scontro del 2020 in numeri:
Nio
L’azienda ha reso noto che nel 2020 le consegne sono più che raddoppiate rispetto all’anno precedente, arrivando alla cifra di 43.728 veicoli.
Diventata pubblica nel settembre 2018, ha subito incontrato difficoltà finanziarie. Mentre la Cina affrontava la pandemia all’inizio del 2020, Nio si è assicurata circa 1 miliardo di dollari di finanziamenti da parte di investitori statali. In agosto, il fondatore William Li ha dichiarato che la società prevede di riprendere i piani di espansione internazionale nella seconda metà del 2021, a partire dall’Europa.
Le consegne sono salite costantemente per cinque mesi consecutivi, raggiungendo le 7.000 unità nel solo mese di dicembre, e la startup ha da poco presentato la sua prima berlina.
Li Auto
Li Auto dichiara di aver consegnato 32.624 vetture nel 2020, appena 12 mesi dopo essere entrata sul mercato.
Le consegne per il primo modello, il SUV Li One, hanno raggiunto il record mensile di 6.126 unità nel mese di dicembre e le azioni sono aumentate del 150% rispetto all’offerta pubblica iniziale di luglio sul Nasdaq.
Xpeng
I dati rilasciati da Xpeng raccontano di 27.041 veicoli consegnati nel 2020, numero più che raddoppiato rispetto a un anno fa. Nel solo mese di dicembre, l’azienda ha infatti consegnato 5.700 auto elettriche.
Le sue azioni sono aumentate di oltre il 185% dall’offerta pubblica di acquisto iniziale alla Borsa di New York ad agosto.
Tesla
Numeri di tutt’altro tenore per Tesla, che nel 2020 ha consegnato 499.550 veicoli, mancando leggermente un obiettivo implicito di 500.000 unità. Tuttavia, la casa automobilistica di Elon Musk ha stabilito un nuovo record trimestrale con la consegna di 180.570 veicoli negli ultimi tre mesi dell’anno.
Il senior tech analyst di Wedbush Securities, Dan Ives ha attribuito la forte performance del quarto trimestre di Tesla proprio alla presenza in Cina, dove ha sede una fabbrica con una capacità produttiva annuale di 250.000 veicoli.
Nonostante la concorrenza agguerrita, “la Cina rimane un’opportunità per il mercato dei veicoli elettrici ‘greenfield’, poiché riteniamo che le vendite complessive di veicoli elettrici possano potenzialmente raddoppiare nella regione nei prossimi anni, data la domanda repressa di veicoli elettrici in tutte le fasce di mercato“, second Ives. Con un’ulteriore crescita in Cina, Ives prevede che Tesla potrebbe consegnare un milione di unità in tutto il mondo entro il 2022.
Intanto, Tesla ha comunicato che i veicoli del Model Y di fabbricazione cinese arriveranno sul mercato con un prezzo di 339.900 yuan: è il 30% in meno rispetto al costo inizialmente annunciato di 488.000 yuan.
Inoltre, durante il Battery Day 2020, il CEO di Tesla, Elon Musk, ha lanciato una bomba rivelando il suo piano per abbattere i costi degli EV e rivoluzionando così l’industria delle batterie: le nuove tecnologie per la produzione degli accumulatori (le batterie tabless) permetteranno di immagazzinare cinque volte più energia con un conseguente aumento di potenza del 6% e un aumento dell’autonomia del 15%
Il significativo calo dei costi di produzione renderà l’acquisto di un veicolo elettrico alla portata di un numero molto più alto di persone.
Il trasporto delle merci e la mobilità condivisa
Gli spostamenti delle persone non saranno gli unici ad essere rivoluzionati da queste innovazioni: UPS, big player delle spedizioni, ha iniziato a investire nel settore e ha già acquistato diecimila veicoli elettrici, con una previsione di acquisto di altri duemila veicoli ogni anno.
Nel frattempo, diverse società di car sharing hanno iniziato a utilizzare EV nel loro business e la maggior parte dei produttori di automobili sta sviluppando e testando nuove soluzioni a propulsione elettrica.
Il cambiamento è globale
Lo scorso anno Apple ha assunto Michael Schwekutsch, ex VP Engineering di Tesla, ora a capo dello sviluppo del propulsore elettrico dell’azienda. Una mossa audace, che rivela il chiaro intento di Apple di integrare i veicoli elettrici nella sua flotta di veicoli.
General Motor’s Cruise ha percorso 831 mila miglia con la sua EV Chevrolet Bolt di terza generazione e ha dato vita a Cruise Anywhere, un servizio di ride-hailing per dipendenti a San Francisco, e ha collaborato con DoorDash che utilizza i suoi veicoli per il food delivery.
Waymo (di proprietà di Google Alphabet) batte la concorrenza in termini di chilometri: i suoi 600 veicoli hanno percorso oltre 35 milioni di km in 25 città e richiedono un intervento manuale solo ogni 20.000 km. Un fattore decisamente importante per superare la concorrenza.
Le prestazioni dei veicoli elettrici migliorano e i costi diminuiscono in misura esponenziale. Questo consente agli imprenditori e investitori più lungimiranti di spostarsi interamente sul trasporto elettrico.
Se Tesla raggiungerà da sola l’obiettivo di produzione di 3 terawattora all’anno, le industrie dell’energia e dei trasporti dovranno adeguarsi di conseguenza (e rapidamente), giustificando la folle quotazione attuale delle azioni.
Il crollo dei prezzi dei veicoli EV renderà presto le auto con motore a combustione interna un ricordo del passato.
Cina e USA frenano, l’Europa guida il trend di crescita
I mercati chiave dell’EV suggeriscono dinamiche regionali in evoluzione, con la Cina e gli Stati Uniti che perdono terreno rispetto all’Europa.
Secondo l’indice EVI di McKinsey, la crescita del mercato dei veicoli elettrici ha rallentato nel 2019 e nel primo trimestre del 2020, dopo essere invece aumentata del 65% dal 2017 al 2018. Nel 2019, il numero di unità vendute è aumentato solo a 2,3 milioni, da 2,1 milioni, per una crescita di appena il 9% rispetto all’anno precedente.
Nel primo trimestre del 2020, le vendite di veicoli elettrici sono diminuite del 25% I giorni di rapida espansione sono cessati, o almeno si sono temporaneamente interrotti.
Il discorso però cambia se consideriamo con attenzione il mercato europeo: in contrasto con un rallentamento a livello globale nel 2019 e nel primo trimestre del 2020, l’Europa ha ampliato la sua quota di mercato al 26%, crescendo del 44%, mentre nel Regno Unito le vendite di veicoli elettrici sono diminuite del 12% nel 2019, con solo 320.000 unità vendute.
CINA
Le vendite di EV sono rimaste più o meno costanti in Cina nel 2019: circa 1,2 milioni di unità vendute, con un aumento del solo 3% rispetto all’anno precedente e nel primo trimestre 2020 la vendita di veicoli elettrici è diminuita del 57% rispetto al trimestre precedente.
Nel primo trimestre del 2020, la Cina è stata pesantemente colpita dalla pandemia COVID-19 e diversi produttori di veicoli elettrici sono stati costretti a fermare la produzione.
Il calo della crescita dei veicoli elettrici in Cina, con conseguenti tagli alle sovvenzioni del governo, ha sollevato preoccupazioni sulla sostenibilità della domanda dei potenziali clienti, anche se Pechino ha fissato un obiettivo di vendita del 25% del mercato per i veicoli elettrici entro il 2025. Riuscirà a rispettarlo?
Il governo ha recentemente deciso di estendere le sovvenzioni ai NEV (Neighborhood Electric Vehicle) di due anni, fino alla fine del 2022.
Inoltre, 10 miliardi di RMB (1,4 miliardi di dollari) saranno investiti per ampliare la rete di ricarica per i veicoli elettrici come parte di uno stimolo economico che potrebbe aiutare la ripresa delle vendite di veicoli elettrici.
Tuttavia, raggiungere l’obiettivo del 25% entro il 2025 probabilmente richiederà strumenti politici aggiuntivi e nuovi modelli di business per stimolare una domanda sufficiente da parte dei consumatori.
EUROPA
In Europa la situazione è diversa perché i costruttori di automobili si affidano ai veicoli elettrici per rispettare i parametri di riduzione del biossido di carbonio per i prossimi anni.
Anche se l’investimento in EV è stato di oltre 30 miliardi di euro negli ultimi due anni, la crisi legata al COVID-19 rischia di vanificare gli sforzi per soddisfare le stringenti normative europee ed evitare sanzioni pecuniarie: il superamento dei limiti renderebbe ancora più severi gli obiettivi previsti per il 2030.
Nonostante la pandemia, l’Europa ha registrato un maggiore slancio, lato consumatore, per l’acquisto di veicoli elettrici nel primo trimestre 2020 e altri segnali suggeriscono che questo trend continuerà, ad esempio un piano importante per la realizzazione di infrastrutture di ricarica e la creazione di ulteriori incentivi all’acquisto.
Il nuovo standard di emissioni dell’Unione Europea, 95 grammi di anidride carbonica per chilometro, potrebbe incentivare ulteriormente le vendite di veicoli elettrici, perché stabilisce che il 100% del parco veicoli debba soddisfare questo standard nel 2021.
Le vendite di BEV (battery electric vehicle) hanno registrato una sostanziale accelerazione spinta da tre modelli: la Tesla Model 3, la Hyundai Kona e l’Audi e-tron.
Le vendite di EV sono aumentate di percentuali a due cifre nel 2019 in quasi tutti i paesi europei. Le vendite in alcuni mercati più piccoli, come Estonia, Islanda e Slovacchia, sono invece diminuite in termini assoluti.
A trainare le vendite di veicoli elettrici ci sono Germania e Paesi Bassi, che hanno contribuito per quasi la metà della crescita complessiva del mercato in Europa; in entrambi i paesi, le unità vendute sono aumentate di circa 40.000 pezzi, grazie all’aumento della domanda di nuovi modelli, della disponibilità di modelli esistenti con batterie più performanti, e all’introduzione di nuovi incentivi governativi.
USA
Nel 2018, negli Stati Uniti le vendite di veicoli elettrici sono aumentate dell’80%, in grande misura grazie al lancio sul mercato della versione standard di Tesla Model 3.
Con l’aumento delle consegne di Tesla all’estero e la graduale eliminazione del credito d’imposta federale a gennaio e luglio 2019, le vendite del marchio negli Stati Uniti sono diminuite del 7%, ovvero di 12.400 unità.
Nel frattempo, la Chevrolet Volt è stata gradualmente eliminata e le sue vendite sono diminuite di 14.000 unità, mentre quelle della Honda Clarity sono diminuite di 8.000 unità.
Alcuni OEM internazionali (Original equipment manufacturer) hanno lanciato con successo nuovi modelli negli Stati Uniti nel 2019, tra cui Audi (e-tron) e Hyundai (la Kona). Anche le vendite dell’e-Golf di VW sono aumentate. Questi tre marchi hanno rappresentato più di 24.500 unità di vendite, ma la loro forte performance non ha potuto compensare il declino di altri modelli.
Anche i bassi prezzi del petrolio di oggi stanno contribuendo al rallentamento del mercato dei veicoli elettrici, perché riducono notevolmente il costo totale di proprietà dei veicoli con motore a combustione interna (rispetto ai veicoli elettrici).
Questi cambiamenti stanno creando grande incertezza, e lo sviluppo del mercato americano dei veicoli elettrici potrebbe dipendere in gran parte sia dal numero di stati che adottano il programma “Zero-Emission Vehicle Program” della California sia dalle oscillazioni dei prezzi del petrolio.
Secondo il rapporto di McKinsey, le strategie di elettrificazione in USA rimangono costanti nonostante l’incertezza sulle normative vigenti, ma rispetto all’ultimo trimestre del 2019, le vendite sono diminuite del 33%.
Anche se alcune case automobilistiche hanno tagliato o posticipato i programmi per gli EV, gli OEM nazionali continuano a impegnarsi per migliorare il risparmio medio di energia sulle nuove flotte, comprendenti SUV e veicoli utilitari compatti.
Molte case automobilistiche stanno utilizzando l’ibrido plug-in veicoli elettrici (PHEV) come ponte per un futuro completamente elettrico.
Negli ultimi anni, le vendite di ibride plug-in sono cresciute più lentamente rispetto alle vendite di veicoli a sola batteria elettrica (BEV). I PHEV (Plug-in Hybrid Electric Vehicle) rappresentano meno di un terzo del mercato globale dei veicoli elettrici in 2019.
Precipita il mercato dei PHEV
Sebbene la maggior parte delle case automobilistiche li abbia in catalogo, il numero di modelli disponibili si ridurrà a meno della metà del numero di modelli BEV, nei prossimi anni.
L’autonomia di guida è uno dei principali vantaggi dei PHEV, ma questa tipologia di veicoli ha recentemente iniziato ad affrontare i venti contrari della regolamentazione, perché il loro impatto ambientale ha suscitato preoccupazioni. In reazione, alcuni paesi hanno ridotto o interamente abolito le agevolazioni economiche per i PHEV, aumentando ulteriormente il loro già elevato prezzo per i consumatori.
Nel 2019, tra i mercati chiave dei veicoli elettrici, i PHEV dominavano la categoria dei veicoli elettrici in soli tre paesi: Finlandia, Islanda e Svezia. Pertanto, possiamo prevedere che i PHEV rappresenteranno una quota compresa solo tra il 5 e il 10 per cento del mercato globale da 2030.
L’alternativa a idrogeno
Si sente parlare molto poco dell’idrogeno ma in realtà c’è un bel po’ di movimento, soprattutto sul fronte dei veicoli commerciali.
La maggior parte dei grandi OEM stanno lavorando su questa tecnologia: per esempio, Daimler e Volvo, Toyota e Traton, e Honda e Isuzu, mentre nuovi player, come Nikola e Hyzon, stanno entrando nel mercato. Anche le aziende cinesi si stanno muovendo velocemente.
Nel complesso, vediamo sempre meno OEM che non pensano all’idrogeno come a una necessaria parte del loro portafoglio di propulsione. Alla luce della regolazione del biossido di carbonio per i camion, ogni tonnellata di peso in meno e ogni chilometro percorso in più abbatterà i costi per le celle a combustibile rispetto alle batterie.
Per i camion a lungo raggio, i veicoli elettrici con celle a combustibile andranno in pareggio con i veicoli elettrici a batteria entro i prossimi cinque anni. Raggiungeranno anche un costo inferiore rispetto al diesel prima del 2030.
Come gli EV possono scalare il mercato
All’inizio gli acquirenti di veicoli elettrici sembravano costituire un segmento specifico di consumatori: abitanti di città tecnologicamente all’avanguardia con redditi superiori alla media e abituati allo shopping online. Adesso, la diffusione dei veicoli elettrici è significativamente aumentata tra i consumatori e molti hanno imparato a riconoscere i numerosi vantaggi dei veicoli elettrici.
Per aumentare la quota di mercato, i produttori di questi veicoli dovrebbero sistematicamente insistere sui vantaggi legati all’adozione di queste tecnologie: dal rispetto per l’ambiente, fino alle sovvenzioni, passando attraverso una nuova esperienza di guida.
La crescita nei settori dei trasporti rimane una delle leve più critiche negli sforzi globali per ridurre il biossido di carbonio e migliorare la qualità dell’aria urbana, ma sarà necessario che oltre a sovvenzioni e sanzioni, i governi attuino programmi di rottamazione che incoraggino i consumatori a sostituire le vecchie auto con quelle di nuova generazione.
Il boom del mercato delle batterie
Pompati dalle ambiziose strategie EV delle case automobilistiche, i fornitori di batterie stanno aumentando le loro capacità produttive.
Quali sono le tendenze e le sfide principali per la catena di fornitura delle batterie?
Secondo Markus Wilthaner, partner associato di McKinsey a Vienna, l’adozione dei veicoli elettrici ha sovraccaricato l’industrializzazione e l’espansione nel settore. I produttori di celle a batteria si trovano ora davanti a un’opportunità di crescita fuori misura e potrebbero diventare alcuni dei maggiori fornitori del settore automobilistico a livello globale.
Questa grande opportunità si accompagna però a enormi sfide e compromessi. Le aziende hanno bisogno di aumentare rapidamente le capacità di produzione e devono stabilizzare i processi raggiungendo rendimenti molto elevati e puntando costantemente all’innovazione dei prodotti.
Ogni anno, devono ridurre i costi per aggiudicarsi contratti a lungo termine e rimanere competitivi, cercando allo stesso tempo nuovi modelli di business.
Infine questi fornitori dovranno risolvere le sfide legate alla sostenibilità trasformando l’intera catena del valore della batteria, dall’estrazione mineraria al riciclo delle unità esauste, rispettando l’ambiente e creando un’industria responsabile.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2021/01/speciale-veicoli-elettrici.jpg9641708Fabio Casciabancahttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngFabio Casciabanca2021-01-22 15:56:252021-03-12 08:17:48I veicoli elettrici sono sempre più vicini all'adozione di massa e l'Europa guida la crescita
Secondo alcune voci di corridoio, ancora prima che Joe Biden si assicurasse la vittoria nelle elezioni presidenziali americane, il suo staff si stava mettendo in contatto con i dirigenti dell’industria tecnologica americana cercando un dialogo, in previsione di rimodellare le politiche del Paese su alcuni aspetti legati a internet e alle telecomunicazioni.
La campagna di Biden ha segnato una significativa inversione di tendenza rispetto agli ultimi quattro anni, durante i quali il Presidente uscente Trump ha spesso rincorso diverse occasioni per farsi ritrarre insieme ai big del tech senza però instaurare un vero confronto con loro e senza prendere in considerazione le loro opinioni su temi chiave come l’immigrazione e le politiche commerciali.
La vittoria di Biden, dopo diversi giorni di incertezza durante il conteggio dei voti negli stati a rischio, ha fatto tirare un sospiro di sollievo ai dipendenti di tutto il comparto tecnologico, che hanno sostenuto in modo schiacciante il candidato democratico, come hanno fatto nella maggior parte delle elezioni passate. Il Presidente sta infatti integrando nel suo staff diversi esperti del mondo tech.
L’opinione diffusa è che la nuova amministrazione prenderà seriamente il suo ruolo di regolatore e gli investitori e le imprese non dovrebbero trascurare la rapidità con cui il presidente Biden si muoverà sulla politica, soprattutto per quanto riguarda il futuro del lavoro e la ripresa dell’economia americana.
I discorsi di Biden durante la sua campagna hanno offerto la speranza di un ritorno a una formulazione più sistematica delle politiche, basata sulla costruzione del consenso degli attori in gioco. Le politiche dell’amministrazione Trump, al contrario, spesso sembravano essere progettate per danneggiare singole aziende che il Presidente non vedeva di buon occhio o, al contrario, favorire quelle che considerava dalla sua parte.
Uno dei casi più noti si è verificato quando Amazon aveva sostenuto che Trump avesse sollecitato impropriamente il Pentagono a scegliere Microsoft (invece di Amazon Web Services) per un contratto di cloud computing da 10 miliardi di dollari. Va specificato che il fondatore della piattaforma di eCommerce, Jeff Bezos, è anche il proprietario del Washington Post, spesso tacciato di essere ingiustamente critico nei confronti di Trump, proprio dal Presidente.
Ci si aspetta, quindi, che Biden operi una rottura netta con alcune delle politiche di Trump, come l’inversione dei tagli alle tasse per le aziende. Altre politiche, come le rigide regole dell’antitrust nei confronti delle grandi aziende tecnologiche e la riforma della Sezione 230, che le protegge dalle cause sui contenuti pubblicati online dai propri iscritti, potrebbero invece vedere un certo livello di continuità tra le amministrazioni Trump e Biden.
Dopo quattro anni di ostinato negazionismo di Trump, pensiero magico e danni economici, Biden promuoverà il rigore politico, lo spirito pubblico e l’ingegnosità del settore privato per lavorare insieme per soluzioni innovative. Sarà un lavoro duro, ma possiamo aspettarci l’alba di una nuova era di dinamismo trainata dalla tecnologia degli Stati Uniti.
Ecco quindi le cinque politiche chiave che potrebbero essere fortemente influenzate dall’elezione del nuovo presidente.
Antitrust
L’applicazione antitrust alle grandi tecnologie è un campo d’azione su cui c’è un ampio sostegno bipartisan. I funzionari antitrust, sia al Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti sia alla Commissione Federale del Commercio (che sta attualmente valutando una causa contro Facebook) sono infatti professionisti slegati dalle interferenze politiche.
È quindi probabile che l’amministrazione Biden esorterà le agenzie dedicate a mantenere un approccio aggressivo nel perseguire i casi antitrust, proprio come ha fatto l’amministrazione Trump.
Inoltre, i procuratori generali degli stati democratici avranno più influenza in un’amministrazione Biden e la sua vittoria rende più probabile l’ipotesi che si uniranno alla causa del Dipartimento di Giustizia contro Google, forse aggravando le accuse secondo le quali Google avrebbe usato illegalmente la sua forza online per dominare il mercato della pubblicità digitale
Ma i procuratori generali democratici avrebbero potrebbero attivare potenziali azioni antitrust federali anche contro Amazon, Apple e Facebook. L’obiettivo dichiarato era rendere più complicato per le piattaforme dominanti come Facebook o Google l’iter per ottenere l’approvazione per l’acquisizione di aziende più piccole e rendere più facile perseguire le imprese che violano le leggi antitrust.
Sezione 230
Mentre Biden ha già specificato di voler riformare la Sezione 230, la sua amministrazione probabilmente non sarà aggressiva come Trump nei confronti della legge.
L’ex Presidente aveva avviato “una guerra burocratica” sulla Sezione 230 con un ordine esecutivo che indirizzava il Dipartimento di Giustizia, il Dipartimento del Commercio, la Federal Communications Commission e la Federal Trade Commission a prendere provvedimenti per indebolire le protezioni legali delle piattaforme tecnologiche. L’azione era però motivata, in parte, dalla sua opinione che Facebook, Twitter e altri social media fossero impegnati nella censura selettiva delle voci conservatrici.
È probabile che Biden revochi gli ordini di Trump o spinga le varie agenzie a non intervenire sulla questione. Biden è stato membro del Senato per 36 anni e non è probabile che appoggi gli sforzi di Trump nell’usare le agenzie federali per minare l’autorità del Congresso nell’approvazione delle leggi. Tuttavia, se il Congresso approverà le riforme della Sezione 230, cosa che sembra probabile, ci si può aspettare che Biden le firmi convertendole in legge.
“Ci sarà probabilmente un accordo bipartisan su riforme che ridimensionano alcune delle protezioni della Sezione 230“, ha detto Bruce Mehlman, un lobbista la cui impresa lavora con aziende tecnologiche come Zoom e ByteDance. Secondo Mehlman, le piattaforme tecnologiche potrebbero essere costrette a rimuovere alcuni tipi di contenuti, ad esempio quelli relativi alla vendita di droghe illegali.
Immigrazione
L’approccio di Trump all’immigrazione ha infiammato l’industria tecnologica più di tutte le sue politiche. La sua amministrazione ha fatto il possibile per fermare il flusso di cittadini stranieri negli Stati Uniti e questo ha avuto un impatto diretto sull’industria.
L’Information Technology Industry Council, un gruppo commerciale tecnologico con sede a Washington, si aspetta che Biden annulli una serie di ordini esecutivi legati all’immigrazione emessi da Trump. Inoltre, il gruppo spera anche che Biden riveda i programmi di visto per non immigrati per soddisfare meglio la domanda del mercato del lavoro.
La “cosa più veloce da fare, e vedrete che Biden lo farà immediatamente, è stralciare le politiche di immigrazione di Trump e rendere il reparto tecnologico molto felice“, ha dichiarato Jim Messina, un ex assistente del Presidente Barack Obama, ora consulente di aziende tech.
Biden probabilmente sosterrà anche una legislazione come il Fairness for High-Skilled Immigrants Act, che renderebbe più facile per la Silicon Valley reclutare lavoratori nel settore dell’informatica. Sembra che il disegno di legge favorisca in particolare il grande numero di lavoratori provenienti dall’India in attesa della green card, il documento che permetterebbe loro di rimanere permanentemente negli Stati Uniti.
Il disegno di legge rimuoverebbe il limite di green card a disposizione di ogni paese, consentendo ai molti impiegati indiani nell’industria tecnologica statunitense di assicurarsi il permesso per rimanere negli USA.
Tasse
Una delle differenze più nette tra Biden e Trump è nel loro approccio alle tasse. Trump ha puntato alla più grande riforma del sistema fiscale dagli anni ’80, tagliando l’aliquota dell’imposta sulle società dal 35% al 21%. La riforma fiscale di Trump ha anche rivisto la tassazione personale, tagliando le aliquote per gli scaglioni più alti, dal 39,6% al 37%.
All’esatto opposto, Biden prevede di aumentare le tasse per chiunque guadagni più di 400.000 dollari e di riportare le imposte patrimoniale ai livelli precedenti. Tuttavia, un Senato repubblicano renderebbe difficile, se non impossibile, far passare modifiche fiscali significative.
Commercio
Il primo compito per il neo Presidente nell’ambito degli scambi internazionali sarà quello di tentare di ricucire il rapporto degli Stati Uniti con la Cina. Ovviamente, continuerà a “fare pressione”, ma abbandonando l’approccio unilaterale alla “guerra commerciale” del suo predecessore e concentrandosi invece sull’arruolamento di alleati come il Giappone e l’Europa per contrastare la crescente influenza economica globale cinese.
Biden adotterà un approccio più sistematico nei confronti della politica cinese degli Stati Uniti, che prima pareva concentrarsi sulle singole aziende, vedi ByteDance e Huawei, invece che su obiettivi commerciali più ampi.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2021/01/biden_01.jpg5611058Fabio Casciabancahttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngFabio Casciabanca2021-01-22 11:30:202021-01-25 09:11:16Cosa cambia per l'industria tecnologica americana con la vittoria di Biden
Dall’eroismo alla vicinanza sociale dei brand, anche l’employer branding cambia prospettiva
Puntare sull’inclusione generazionale è la strategia giusta per non perdere attrattività
Non è un errore di battitura. Nel titolo è scritto proprio Employee Branding (branding dei dipendenti) perché il focus delle strategie di attrazione dei futuri lavoratori in azienda si sposta sempre di più dal brand alle persone.
La trasformazione in Employee Branding
Il cambio culturale che si è prodotto nel nostro immaginario collettivo in questo 2020 di pandemie e infodemie, ha già modificato i messaggi sul piano marketing dei brand più importanti portandoli a narrare degli storytelling che, come ha profetizzato Andrea Fontana in “Ballando con l’Apocalisse” (ROI Edizioni, 2020.p.58), sono passati dai messaggi che prima del Covid-19 recitavano: “Amami, ti insegno a vivere, per cui comprami” a: “So che siamo nei guai, ma credo di capire i tuoi problemi, che sono anche i miei, proverò a starti a fianco per fare con te un pezzo di strada insieme”.
E l’employer branding non può esimersi dal guardarsi allo specchio e riflettere se i messaggi che parlavano di impatto, carriera, “better workplace to be” e di benefit personalizzati siano ancora validi dopo la rivoluzione culturale e di sensibilità che si sta compiendo in questi mesi nella percezione dei potenziali nuovi dipendenti.
Un altro aspetto con cui fare i conti sarà senza dubbio la percezione della scarsità del lavoro e delle inevitabili difficoltà collegate alla contrazione del mercato per il 2021 che potrebbero modificare in un senso o in un altro i valori che i più giovani reputano distintivi di un brand. Si sceglieranno brand più “sicuri” dal punto di vista della stabilità economica e della sicurezza psicologica o continuerà il trend di infatuazione verso le aziende che riflettono sensibilità ai temi di sostenibilità e digitalità?
In altre occasioni ho già espresso personalmente quali contenuti evergreen dovrebbe comprendere una strategia di employer branding per essere efficace soprattutto in relazione al target giovanile: ovvero che il messaggio di Employer Value Proposition deve puntare sul miglioramento degli aspetti ritenuti per loro stessi come “negativi”, e quindi motivare, informare e valorizzare coloro che si ritengono disinformati, sfiduciati, defocalizzati, ma attraverso uno stile che si avvicini agli attributi che Millennials e Zed Gen conferiscono a loro stessi come “positivi”, ovvero partecipativo, dinamico, digitale e “smart”.
Ma esistono sicuramente altri temi fondamentali su cui vale la pena concentrare l’attenzione. Uno di questi è senz’altro la capacità di rappresentare in maniera trasparente ed efficace l’attenzione dell’azienda all’inclusione generazionale. Stando ai dati di Universum Global (2019) del D&I Index, infatti, il Il 53% dei Millennials definisce la diversità come diversità di età, l’83% dei Millennials e il 92% della Gen Z la considera come diversità culturale.
Sono quindi meno prevalenti gli altri temi come il genere, l’etnia, la religione, etc., e questo sta a significare quanto sia efficace poter rendere la propria organizzazione non solo sensibile, ma concretamente dedita all’inclusione generazionale, al fine di renderla naturalmente attrattiva per le nuove generazioni.
La dicotomia tra “veterani” e “neofiti” rappresenta anche sul piano emotivo del giovane la paura di non essere integrato, accettato o accompagnato nella crescita professionale da parte dell’organismo aziendale. Questo, spesso, detiene o un numero elevato di senior, o una cultura valoriale che risiede necessariamente nelle figure con maggiore “anzianità” di carriera in quell’organizzazione.
Non è un mistero, inoltre, che i brand che investono in Diversity & Inclusion, aumentano significativamente i loro ricavi.
Gli ultimi dati del Diversity Brand Summit 2020 rilevano un +23% di crescita complessiva, con scelte di acquisto da parte dei consumatori che sono dedicate per oltre il 63% ai marchi ritenuti maggiormente inclusivi e la misura del Net Promoter Score che evidenzia una veicolazione del passaparola addirittura del +89,8% per questa tipologia di brand.
Se l’inclusione culturale attrae consumatori, probabilmente può farlo anche per futuri employee. Non a caso molti marchi di questa classifica coincidono anche con quelli più scelti o preferiti nelle indagini dell’Universum Most Attractive Employers Italy 2020.
Narrare l’inclusione significa approcciarsi alle tematiche sociali e di sostenibilità e ad un mindset culturale aperto e vicino alla realtà contemporanea delle persone, in particolare quelle alla ricerca di un lavoro, poiché ne vivono la complessità, l’incertezza e la volatilità in maniera molto concreta.
Torniamo quindi al principio per cui non sono forse solo le soluzioni eroiche dell’Employer ad attrarci (“ho un’opportunità di lavoro per te, ti salverò dalle difficoltà economiche”) ma anche i problemi e i conflitti umani che ci spronano e ci motivano nel momento in cui le organizzazioni che accettano le diversità e le fragilità di tutti e sono rappresentate anche da persone che falliscono, esitano e soffrono.
Poiché una delle grandi difficoltà delle strategie di employer branding è quella di rapportarsi con la comunicazione esterna di prodotto (che solitamente non parla di persone) la strada del racconto dell’imperfezione, fatta di esseri umani perfettibili, di risultati non ottenuti e obiettivi non raggiunti, potrebbe diventare una scelta di narrazione coraggiosa e ripida, ma che certamente riuscirebbe ad attrarre molto efficacemente la platea dei potenziali employee, (giovani e meno giovani), in quanto ineluttabilmente autentica.
La frontiera innovativa dello storytelling di un datore di lavoro che si prefigura è quindi una sorta di “Employer Unbranding” o “Employee Branding”, dove si comunica in primis la vita autentica delle persone, senza filtri, essenziale. E ancora di più uno storytelling intergenerazionale può fare la differenza, nel momento in cui la narrazione delle storie professionali riesca a rappresentare anche i conflitti e le criticità della vita delle persone, con l’obiettivo non solo di aumentare la notorietà dell’employer brand, ma anche di offrire una reale utilità alle persone stimolando il loro interesse e il loro coinvolgimento.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2020/05/linkedin-employee-branding.jpg594935Giulio Beroniahttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngGiulio Beronia2021-01-21 18:01:592021-01-25 23:17:19Dall’Employer all’Employee Branding: attrarre i giovani con l’umanità e l’imperfezione
Negli Stati Uniti l’Agenzia Federale per l’Aviazione FAA approva i voli di droni a guida autonoma, senza il controllo dell’uomo. Un’evoluzione che apre nuovi margini di sviluppo produttivo del settore dei droni commerciali, con un mercato del valore di 100 miliardi di dollari, ma allo stesso tempo rende necessaria una normativa innovativa per la gestione dello spazio aereo.
La prima azienda ad ottenere l’autorizzazione è l’American Robotics, con la concessione di far volare il quadricottero Scout System, dotato di intelligenza artificiale, “oltre la diretta osservazione umana” (Beyond-Visual-Line-of-Sight, BVLOS), senza essere pilotato manualmente, in maniera autonoma.
Droni a guida autonoma: ricerca e sviluppo e indagini di mercato
Un’autorizzazione consentita “nell’interesse pubblico”, come sottolinea la FAA nel documento ufficiale prodotto dal Dipartimento dei Trasporti e della Sicurezza dell’aviazione USA. I droni, infatti, saranno utilizzati soprattutto per finalità di ricerca e sviluppo, addestramento e indagini di mercato, in aree rurali, alla luce del giorno, nelle zone a basso traffico e ad un’altitudine inferiore a 120 metri.
“Un’autorizzazione del genere avviene nell’ambito circoscritto della sperimentazione, paragonabile a quanto sta accadendo nel settore dell’automotive a guida autonoma – esordisce Luca Mastroianni, co-founder di Getadroner ed esperto del settore – Si tratta di una doppia innovazione, soprattutto.
È la prima fase di utilizzo dei droni per scopi commerciali, oltre la diretta visione dell’uomo, ovvero senza un pilot in command (PIC). La concessione della FAA apre notevoli opportunità dal punto di vista commerciale, in termini di produttività, perché riesce ad immaginare un collegamento aereo per ispezioni, ricerca, delivery, senza la presenza dell’uomo. È un’occasione enorme di efficientamento, inoltre, perché permette di realizzare missioni continue”.
Luca Mastroianni, Co-Founder Getadroner
Le opportunità del nuovo scenario
Nuovi scenari di utilizzo, ma anche tre diverse sfide, secondo Mastroianni: tecnologiche, regolamentari e di responsabilità. “Una competizione hi-tech, in primis. Approvare questo test significa che la tecnologia ha sviluppato sensori avanzati di “situational awareness” per verificare la presenza di ostacoli sul percorso e offrire informazioni su come aggirarli, simili a quelli delle auto a guida autonoma, inseriti di recente anche in alcuni smartphone – continua Luca Mastroianni – Sarà una verifica attuata su corridoi individuati, definiti, da uno specifico punto A di partenza ad una destinazione B, dove tutto è controllato per rendere operativi i droni. In questo caso specifico, sarà indispensabile l’implementazione del nuovo sistema di monitoraggio del traffico aereo UTM (Unmanned Traffic Management)a pilotaggio da remoto. Attualmente lo spazio aereo è regolato da controllori e torri che autorizzano. Il volo autonomo potrebbe far crescere la circolazione di droni, la cui gestione non può essere più manuale. Indispensabile, quindi, un sistema scalabile, che superi il processo di controllo dell’essere umano. Ci sono diversi progetti negli States e in Europa impegnati su questo fronte, tra cui U-Space per la sicurezza e l’automazione, la cui finalità è regolare l’accesso sicuro ed efficiente dei droni nello spazio aereo”.
La terza sfida prioritaria consisterebbe anche nella responsabilità legale e nella predisposizione di un quadro normativo. “Cosa accade quando non c’è più un uomo al comando, ma il volo è pilotato da un algoritmo? Chi è il responsabile? Pone un interrogativo enorme sotto il profilo assicurativo – insiste Mastroianni –Chi restituisce il danno? Quindi l’azione della FAA negli Stati Uniti va inquadrata come una sperimentazione a cui anche l’Italia partecipa. L’effetto sarà una crescita commerciale, ma è inverosimile immaginare il volo nei cieli senza norme e limiti, perché si rischierebbero collisioni con altri oggetti volanti, ultraleggeri o paracadute. I rischi sono enormi, il presupposto della diffusione dei droni è subordinato ad una nuova regolamentazione dello spazio aereo”.
Le linee guida della FAA in USA
La Federal Aviation Administration FAA, nel definire le linee guida, i limiti e le condizioni per l’autorizzazione all’American Robotics, prevede anche la presenza di un pilota da remoto in comando (PIC) per ogni volo di un aereo senza pilota (UAS), chiamato a garantire la sicurezza durante l’intera fase di volo e ad intervenire in caso di emergenza, oltre a conservare tutte le informazioni.
La possibilità di disporre di dati critici durante le ispezioni, potrebbe provocare un effetto economico positivo, secondo la FFA, in particolare su agricoltura, trasporti, estrazione mineraria, tecnologia, con una riduzione dell’impatto ambientale.
Il PIC remoto dovrà controllare il piccolo drone autonomo, per determinare che si trovi in condizione di funzionamento sicuro, attraverso un’ispezione preliminare, e in un ambiente operativo considerando i rischi per persone e cose nelle immediate vicinanze sia in superficie che in aria, incluse le condizioni meteorologiche, lo spazio aereo locale ed eventuali limitazioni al volo. Washington però chiarisce che questa autorizzazione non è valida per le operazioni al di fuori degli Stati Uniti.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2015/06/drone-784310_640.jpg480640Barbara Landihttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngBarbara Landi2021-01-20 16:41:192021-01-21 16:07:02Gli Stati Uniti autorizzano i droni a guida autonoma senza controllo umano
Tra i consumatori di streetwear, il 60% proviene da Cina, Corea e Giappone. La Cina, tra questi, è il mercato con maggiore complessità di adattamento di marketing
Il consumatore di streetwear in Cina è più attento ai fattori di presenza social del brand e esperienza online rispetto alla media e più incline a una spesa maggiore
Tra i brand stranieri di streetwear in Cina i best in class sono Nike e Adidas, tra i rimandati al prossimo appello Supreme, Off-White, Vetements
Ormai non si può più ignorare né relegare a sotto-cultura: lo Streetwear è un segmento sempre più importante per il mondo del fashion. Secondo le stime più attuali di PwC è un settore che vale 185 miliardi di dollari, circa il 10% del totale del fatturato Apparel & Footwear.
Ma al di là dei dati quantitativi, se ci si guarda intorno è facile accorgersi di quanto lo Streetwear sia sempre più in vista: dalla collaborazione di Louis Vuitton e Supreme, North Face e Gucci e al sorprendente successo della limited edition di Lidl.
Streetwear in Cina: a che punto è il marketing dei big oltre Muraglia?
Come abbiamo visto nell’articolo sull’ABC dello Streetwear, tra i risultati delle analisi relative al target vi era una preponderanza geografica in Corea e in Cina. Questa analisi, data la vastità del mercato e la crescente importanza dei suoi consumatori per l’industria fashion, sarà invece dedicata allo state of art dello streetwear in Cina.
Con buona pace della Corea, che sebbene al primo posto tra le provenienze geografiche dei fan dello streetwear, ha quasi un miliardo in meno di potenziali consumatori (fascia 15-54 in Cina, dati Index Mundi 2018) e un e-commerce a valore di “soli” 46 miliardi (la Cina li ha fatturati in un paio di giorni durante l’ultimo Single Day).
Fashion e Cina: un connubio esplosivo non solo per lo streetwear
Prima di addentrarci nelle strategie di marketing dei brand streetwear in Cina, concentriamoci un po’ sul contesto. Secondo i dati Statista più aggiornati le revenue del settore fashion 2021 in Cina avranno un valore di 330.633 milioni di dollari. Nel 2025, secondo le stime del CAGR 2021-2025, il valore dovrebbe arivare a 454.046 milioni, con uno sbilanciamento del fatturato sul segmento Apparel (con una proiezione di 310.915 milioni nel 2025).
Proiezione valore Fashion Industry, dati aggiornati post Covid (Statista 2020)
Oltre al valore del mercato, un dato interessante è quello relativo al numero di utenti del settore: a essere in cerca di Apparel saranno 873 milioni nel 2025. Quelli dell’e-commerce, per intenderci, sono già oggi 926 milioni e saranno 1 miliardo e 2 entro 5 anni. Perciò, se già oggi c’è quasi un pareggio tra vendite online e offline (52% versus 48%), in futuro in Cina ci sarà un 55% solo su online (Statista, 2020).
Proiezione divisione vendite online-offline Statista 2020 (dati aggiornati post Covid)
Anche il target d’età sarà quello giusto: oggi il 50% degli utenti fashion ha un’età compresa tra i 18 e i 34 anni.
Streetwear in Cina: attenzione ai social e all’esperienza offline
Tra i dati che il report di PwC e Hypebeastmettono a disposizione (2019) è possibile estrapolare le risposte dei più di 40.000 partecipanti per paese. Ed è quello che faremo, a partire da uno dei dati che interessa di più le aziende di streetwear, cioè i fattori alla base della scelta di un prodotto.
Troviamo al primo posto la qualità e il design del prodotto (81%), seguito da Brand Legacy (63%), Creative Director (49%), immaginario contro-corrente del brand (33%), presenza social media (31%), valore resell (25%) e esperienza offline (8%).
In Cina, troviamo lo stesso podio ma una diversa distribuzione dei valori: al quarto posto la presenza social (41%), seguito da immaginario contro-corrente (33%), valore resell (23%) e esperienza offline (13%). Oltre la Muraglia, apparentemente hanno un rilievo maggiore la presenza social e l’esperienza offline. Imprevedibile? No, anche perché la prima scelta di utente social cinese non è Instagram, ma WeChat.
Fonte: Hypebeast & PwC (2019)
A riprova di ciò, mentre il 94% dei rispondenti USA ha indicato Instagram come quasi unica piattaforma di utilizzo per la ricerca di informazioni, in Cina l’86% ha dichiarato di utilizzarla, con l’aggiunta di un 40% che ha indicato WeChat. Probabilmente, se i brand di streetwear cominciassero a comunicare propriamente anche sui social occidentali, il divario sarebbe maggiore.
Se si confrontano le risposte al quesito “Perché ti piace lo streetwear” tra consumatori occidentali (USA e EU) e asiatici, emerge un’altra forte differenza di consumo. Mentre i primi sono molto legati al senso di Community (40% lo ha messo in cima alla lista), in Asia solo il 12% lo reputa un fattore chiave. Di contro, il 41% di consumatori cinesi e giapponesi ha indicato il “political statement” come key factor.
Anche in termini di spesa, ci sono delle differenze tra West e East:
Meno di 100 dollari al mese: West 33%, East 21%
500-1.000 dollari al mese: West 9%, East 18%
Insomma, gli asiatici spendono di più, anche per singolo prodotto: tra i rispondenti coreani e cinesi, il 20% spende tra 300 e 500 dollari per prodotto, mentre la media occidentale (USA e EU) si attesta tra i 100 e i 300 (61% rispondenti). Un bel target, quello cinese.
I numeri dei Top of Mind
Nel 2019, i brand Top of Mind sono risultati essere nell’ordine Supreme, Nike, Off-White, Adidas, Bape, Stussy, Carhatt, Vetements e Palace.
Vediamo quali sono i canali di marketing presidiati in Cina:
Presidio dei canali digital per i brand di streetwear in Cina. Raccolta ed elaborazione dati a cura di Emilia Cozzocrea e Cecilia Lorusso (gennaio 2021)
Streetwear in Cina: Nike & Adidas Best in Class
Per interpretare questa tabella realizzata, un paio di cenni ai must have del marketing in Cina: un sito web tradotto e hostato in Cina, un presidio su Baidu (motore di ricerca principale in Cina) tramite campagne PPC, WeChat, Weibo e altri canali social per generare awareness e un miniprogram o uno store su Tmall per vendere. Si tratta di una check list semplificata (per alcuni può essere interessante valutare altri marketplace o strategia), ma dice molto del grado di localizzazione del marketing dei brand.
Come possiamo vedere dalla chart, i best in class sono evidentemente Nike e Adidas, che forti anche di una presenza fisica importante, hanno implementato tutti i canali possibili in Cina. In tabella non è riportato il loro canale su JD.com, altro leader marketplace in Cina.
Il miniprogram WeChat di Nike
Streetwear in Cina: Supreme, Off-White e Vetements rimandati al prossimo appello
Invece, dando uno sguardo a chi è bravo ma non si applica, spiccano tra i meno presenti Supreme, Off-White e Vetements. Soprattutto i primi due, che in Cina hanno un grandissimo successo, si trovano in una situazione particolarmente caotica.
Oltre a non avere un sito web in lingua, non hanno nessun canale social di proprietà, permettendo in questo modo ai rivenditori più o meno (meno) autorizzati di aprirne di non ufficiali. Tali canali, che recano comunque spesso anche la dicitura “official”, lasciano piena libertà di comunicare sul brand. Un’occasione sprecata di Brand Awareness ma anche un forte rischio. Stesso tema per l’e-commerce: dove i brand non hanno aperto un proprio flagship store, arrivano i rivenditori non autorizzati, che rivendono il prodotto senza nessun controllo da parte dell’azienda.
Ma forse, il più sfortunato tra tutti in Cina è Supreme, che oltre ad avere innumerevoli account social fasulli, ha dovuto anche risolvere un problema ben più grande: quello di un fake store Supreme a Shenzhen.
La storia risale al 2018, quando ancora Supreme non aveva depositato il marchio in Cina. A farlo, è stato Supreme Italia, un’azienda inglese che ai tempi aveva sfruttato questa “disattenzione” da parte di Supreme per registrare il marchio Supreme Italia e aprire flagship store del brand in Cina. Com’è finita la vicenda? A maggio Supreme ha vinto la causa e ha registrato il marchio in Cina, ma il caso è aperto. Ad oggi, la piazza digital è ancora lasciata al caso.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2021/01/streetwear_china.jpg7841274Cecilia Lorussohttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngCecilia Lorusso2021-01-19 16:30:402021-01-20 11:11:09I numeri dello Streetwear in Cina: sul podio Supreme, Nike e Off-White
Cosa sta accadendo nel mondo dei social media? La recente decisione di Facebook e Twitter di bannare il presidente degli Stati Uniti uscente, Donald Trump, come fosse un utente qualsiasi, è una scelta che sembra andare ben oltre gli “standard della community” e crea un precedente preoccupante. Ne abbiamo parlato con Alberto Mingardi, direttore dell’Istituto Bruno Leoni, professore associato di Storia delle Dottrine Politiche all’Università IULM di Milano e autore di “Contro la tribù – Hayek la giustizia sociale e i sentieri di montagna”.
I nuovi media sostituiranno i social tradizionali?
Può un social network censurare le idee? Il caso Trump apre interrogativi sul potere della tecnocrazia ed accendo il dibattito. Quale saranno gli effetti futuri? Assisteremo ad una fuga degli utenti verso i media emergenti?
«La censura di Trump crea un doppio cortocircuito. Equipara di fatto i social network agli editori tradizionali, scegliendo di non dare voce a un utente, esattamente come farebbe l’editore di un quotidiano – sottolinea Alberto Mingardi – L’interrogativo attuale, a fronte delle problematiche in cui sono coinvolti, tra cui i diritti di copyright, a difendersi sostenendo di non essere editori, d’ora in avanti? Dall’altra, mette in crisi coloro che hanno sempre denunciato i social perché sottratti alla regolamentazione pubblica: Twitter e Facebook si sono, letteralmente, autoregolati. L’espulsione di Trump è un atto eclatante ed apre un dibattito che si svilupperà a lungo».
Le Big Tech, nate come espressione del libero mercato, sembrano ormai legate indissolubilmente ai decisori politici, tanto da fornire output non desiderabili, tali da far fallire le proprie stesse premesse. Il risultato è un conglomerato di potere, più vicino alle logiche del crony capitalism che del free market.
Parler in crescita
Alla censura in atto su Twitter e Facebook si è unita l’offensiva contro Parler da parte di Google e Apple (con la rimozione dell’App dai rispettivi store online) e di Amazon dai propri server. La fuga degli investitori, testimoniata dai crolli in borsa delle piattaforme, si tradurrà anche in una fuga degli utenti verso piattaforme alternative? In una logica di libero mercato l’ipotesi diventa realistica, nel momento in cui altri player saranno in grado di offrire servizi altrettanto interessanti. Anche se lo scoglio resterà sempre il solito: la massa critica di persone che andranno ad animare una nuova piattaforma e quanto il valore aggiunto di quest’ultima verrà percepito dagli utenti, sempre più polarizzati in “tribù” distinte e impermeabili tra loro.
«Twitter e Facebook ci ricordano tutti i giorni come sia cambiato Internet – continua Mingardi – Speravamo fosse uno spazio aperto, nel quale potesse svilupparsi un dibattito più razionale e sereno, invece i social replicano, in certi casi inasprendola, la tribalizzazione anche politica che si riscontra nelle nostre società. Il cerchio delle cose che leggiamo si restringe. Gli algoritmi dei social media aiutano ciascuno di noi a costruire la propria echo-chamber, impermeabile a qualsiasi contaminazione di altre opinioni».
Alberto Mingardi
Professor Mingardi, l’assenza di dibattito radicalizza ogni utente sulle proprie posizioni? La comfort zone dei propri amici diventa quella del proprio algoritmo di gradimento.
«La frequentazione assidua di queste piattaforme rinforza le convinzioni di ogni utente, un po’ come un tempo si faceva comprando in edicola l’Unità e il Giornale. Solo che qualsiasi quotidiano, anche il più schierato, è plurale negli argomenti trattati: nei media tradizionali c’era sempre l’articolo di cricket in un magazine stampato per gli appassionati di calcio.
Nel nuovo mondo polarizzato, alcune tribù hanno avuto più successo di altre, come nel caso di quella dei sostenitori di Donald Trump nel 2016. Quattro anni fa nessuno o quasi si sarebbe aspettata l’elezione del candidato repubblicano, che aveva costruito un grande seguito su Twitter (memorabile la sua battuta al raggiungimento del milione di follower: “È come avere il New York Times, senza pagare per il suo bilancio in dissesto”). La sua lezione non è stata sprecata e nel frattempo anche i democratici si sono messi al lavoro per recuperare terreno. La comunicazione politica è diventata così sempre più aggressiva, intollerante, tribale».
Riconoscere una fake news
Le fake news bastano a censurare il post di un account privato. Chi decide e come si riconosce una notizia fake? «Quando ti metti a definire una fake news non ne esci più. Cos’è realmente? Alcune sono evidenti, altre meno. Dove comincia la “balla” e dove inizia l’opinione? È un lavoro che possono fare i fact checkers, ma anche costoro debbono crearsi una reputazione “sul mercato”: guai se diventano censori ufficiali.
Le misure di contrasto alle fake news riprendono anche un po’ il target dei social, riflettono gli utenti: FB, che è più popolare e trasversale ha lasciato più libertà di circolazione delle idee rispetto a Twitter, che ha filtri più coerenti con la sua base utenza».
Serve una normativa? Molti decisori politici invocano un provvedimento che ponga limiti allo strapotere delle piattaforme social. «Regolare decisioni arbitrarie di soggetti privati, come le Big Tech, con le decisioni, altrettanto arbitrarie, della politica e della legge? Forse non è la soluzione migliore. Bisognerebbe scommettere sulla diversificazione e sul mercato: se le persone non si troveranno bene in una piattaforma, migreranno in un’altra piattaforma, quando qualcuno proporrà loro offerte alternative e altrettanto credibili. Si pensi alla crescita di Linkedin, che è una specie di porto sicuro dalle polemiche più urlate. Vedremo come evolverà Parler, ora che Twitter ha cacciato Trump».
I social media diventano editori proprio nel momento in cui la fiducia nei media tradizionali è al minimo storico.
«L’assenza di fiducia nei media tradizionali non per forza è un fatto positivo: le grandi testate hanno anche una funzione di scrematura dei punti di vista, l’opinione di mio cugino vale meno di quella del fondo del Wall Street Journal. Si presume che chi scrive per queste testate abbia una capacità di analisi maggiore. I grandi media hanno la funzione di dirti che ci sono cose che meritano la prima pagina e altre che stanno bene a pagina 25, una funzione preziosa, ben diversa dalla home di un social, che invece è basata su una scala di importanza personalizzata per i gusti di ciascuno di noi. La crisi dell’editoria, e dei media tradizionali in generale, ha portato questi editori a motivare la propria tifoseria, tribalizzando a loro volta l’informazione: solo un altro modo per tamponare l’emorragia di lettori e ascoltatori, una strategia che tuttavia non sembra funzionare molto. Quello delle tifoserie è un gioco che, ad esempio, è stato chiaro per tutto il 2020 con l’isterismo pandemico, alimentato dai media tradizionali in una rincorsa perversa agli umori dei social».
Attrarre l’audience
Il problema dell’autorevolezza, non riguarda solo i media ma anche la comunicazione politica. La pazienza delle persone è poca, l’intrattenimento è tutto: tempo una frazione di secondo si deve decidere se scrollare la home o soffermarsi su un tema.
«La comunicazione politica dovrebbe portare a conoscere qualcuno che mi somiglia ma che, per preparazione su certi temi e capacità, è meglio di me. Questo era il vecchio approccio: attualmente, nella sfiducia generalizzata, la gente si accontenta di intrattenimento: se lo show è divertente mi accontento, anche se i protagonisti non sono migliori di me e forse sono perfino peggio.
Il problema è che finché concedo il 5% del Pil all’intrattenimento (cinema, teatro, Netflix…) la situazione rientra nella normalità, ma se noi scegliamo i politici come in base alle loro doti di entertainment, stiamo scegliendo persone, sulla base di questo criterio, per affidargli metà del PIL; questa eventualità, che si sta concretizzando nelle nostre società attuali, diventa un problema.
Alberto Mingardi, Contro la tribù: Hayek, la giustizia sociale e i sentieri di montagna, Alberto Mingardi, Marsilio, 2020
La narrazione mainstream è ormai un “framing” preciso che esclude ogni altra “versione dei fatti”, censurandola dalla storia ed escludendo ogni revisionismo?
C’è sempre una realtà, tra le tante possibili, che diventa mainstream a discapito di altre. Eppure non sempre la versione che sopravvive è anche la più aderente ai fatti. Prendi l’esempio del Titanic: uno sceneggiatore del film di James Cameron trovò che un banchiere, a bordo, era rimasto sulla nave che colava a picco citando il posto al suo maggiordomo. Ne discussero con il regista e gli altri autori ma scelsero di non inserirlo nel film. Perché? Forse perché erano convinti che le persone non si sarebbero appassionati alla vicenda, forse perché gli sembrava troppo strano che un riccone potesse essere anche una persona animato da tanto spirito di sacrificio. In un caso o nell’altro, vediamo un approccio ideologico magari non “scelto” apertamente ma senz’altro pervasivo e penetrato a fondo nelle nostre società».
A proposito di Hollywood: inprima fila, nelle proteste contro Trump, artisti, intellettuali, influencers e celebrità. Sembra cambiato poco da fine anni ’60, quando contro Nixon iniziò una vera e propria rivolta, capeggiata dalle star.
«Gli artisti, gli intellettuali da sempre sono stati “contro” il potere costituito, offrendo spesso una visione alternativa, ma la cose dai tempi di Nixon sono cambiate moltissimo: le proteste di ieri hanno gettato le fondamenta culturale dell’establishment di oggi. Molto spesso la ribellione è di maniera e in realtà perfettamente coerente con presupposti ideologici comunemente accettati, soprattutto nel mondo della comunicazione e dello showbiz. C’è un conformismo dell’anticonformismo».
Abbiamo citato Parler che, come altre piattaforme, si sta affacciando nel mercato dei social media. Se la soluzione non può arrivare dallo Stato, dovrà arrivare giocoforza dal mercato: nuove applicazioni, oppure…
«La mia proposta è far pagare la gente per scrivere. Un piccolo pedaggio. Sembra una proposta scandalosa e irricevibile ma se ci pensi non lo è: un tempo il costo per comunicare le proprie idee, o mandare a quel Paese qualcuno era alto. Se avevi un reclamo da fare a un’azienda, ad esempio, dovevi prendere carte e penna e perdere tempo e soldi per la spedizione della lettera. Oggi il costo di una comunicazione di questo tipo è irrisorio, il tempo di due minuti per scrivere un tweet; l’utente consumatore si ritiene invincibile e spesso comunica alle aziende con una certa aggressività, pretendendo risposte esaustive e in tempo reale. Per non dire dei commenti agli articoli di giornale: una sfilza di vaffa, neanche troppo infiorettati. Ma questa veemenza perché non viene utilizzata nei confronti degli operatori pubblici? Perché sui social media e online si trasferiscono le nostre aspettative della realtà: dalle aziende private e dai brand ci aspettiamo efficienza, mentre nei confronti dello Stato non abbiamo aspettative, perché siamo già abituati alla sua inefficienza. Insomma, e se tornassimo a fare pagare alla gente il francobollo?».
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2015/11/i_social_network_che_ti_censurano_1.jpg476640David Mazzerellihttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngDavid Mazzerelli2021-01-15 16:00:422021-01-20 12:59:47Se i social media diventano editori: il pericolo della censura. Intervista ad Alberto Mingardi
Xiaomi, la big tech dell’elettronica cinese, terza al mondo nella produzione di telefoni cellulari, crolla in borsa ad Hong. A soli sei giorni dall’abbandono della Casa Bianca, l’ultimo atto del presidente uscente degli Stati Uniti, Donald Trump, che inserisce Xiaomi nella lista nera, designandola come “compagnia militare cinese comunista”.
Xiaomi nella blacklist USA
Il Dipartimento della Difesa USA ha comunicato, infatti, che il colosso cinese rientra in una nuova lista di aziende contro le quali gli Stati Uniti imporranno specifiche restrizioni, con l’ordine per società e investitori statunitensi di disinvestire in Xiaomi entro l’11 novembre.
L’intervento di Biden potrebbe ribaltare la decisione, ma sorprende al momento la presenza di un’azienda elettronica come Xiaomi nella lista nera, inclusa tra i nove nomi di società evidenziate dal Dipartimento della Difesa, molto più orientate all’industria specializzate in aviazione, aerospaziale, cantieristica navale, chimica, telecomunicazioni, edilizia e altre forme di infrastruttura.
Anche Huawei, il secondo produttore di telefoni al mondo, è sulla lista, ma in quanto costruttore di apparecchiature di telecomunicazione su larga scala.
Immediata la replica di Xiaomi e il portavoce dell’azienda ha affermato di:
Operare in conformità con le leggi e i regolamenti pertinenti delle giurisdizioni in cui svolge le proprie attività. Non è di proprietà, controllata o affiliata all’esercito cinese, e non è una compagnia militare cinese comunista.
Al vaglio anche le conseguenze economiche e il riflesso in termini di immagine della disposizione USA, prima di intraprendere qualsiasi azione.
Se Huawei è nella “Entity list”, ovvero l’elenco delle entità del Dipartimento del Commercio statunitense che impedisce all’Usa di esportare tecnologia ad aziende inserite nella lista nera, evitando qualsiasi collaborazione, Xiaomi invece fa parte del gruppo che vieta investimenti diretti. Questo significa che Xiaomi non perde la possibilità di utilizzare Android, Google Play o chip Qualcomm (a differenza di quanto accaduto a Huawei), ma al tempo stesso le aziende USA che hanno quote in Xiaomi saranno costrette a rivedere le proprie posizioni.
Il Dipartimento del Commercio si sta muovendo per impedire a sei interi Paesi, designati come “avversari stranieri”, di fornire apparecchiature di comunicazione agli Stati Uniti, inclusi Cina, Russia, Iran, Corea del Nord, Cuba e il governo del venezuelano Nicolás Maduro.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2021/01/xiaomi-stock-exchange-2.jpg6671212Barbara Landihttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngBarbara Landi2021-01-15 13:48:372021-01-18 21:48:45USA, Xiaomi nella blacklist e il titolo crolla in borsa a Hong Kong
A pochi giorni dall’inizio della challenge Veganuary, che ogni gennaio incoraggia le persone a seguire uno stile di vita vegano per un mese, TheFork, l’app leader per la prenotazione dei ristoranti online a livello globale, ha coinvolto la sua community in un sondaggio dedicato a questa scelta alimentare. Il 19% dei rispondenti ha dichiarato di conoscere l’iniziativa e di questi l’8,5% ha aderito dal 1° gennaio. Il 27% degli utenti che invece ne hanno appreso attraverso il sondaggio, hanno dichiarato che avrebbero partecipato a seguito del questionario.
Veganuary e dieta vegan: il ruolo dei social media
L’importanza che l’alimentazione vegan sta assumendo nella dieta di molte persone d è testimoniata non solo dalle adesioni record del Veganuary 2021 (500.000 nella prima settimana), ma anche dall’ampia conversazione che esiste circa l’argomento sui Social Media. Basti pensare che su Instagram le menzioni per l’hashtag #vegan superano i 105 milioni e quelle per #veganuarysono più di 1 milione. Diversi personaggi noti sono diventati ambassador della dieta vegana, da volti più internazionali come Joaquin Phoenix, Ariana Grande e Miley Cyrus, fino a star italiane come ad esempio Simona Ventura, Paola Maugeri o ancora Anna Oxa. I dati raccolti da TheFork lo confermano: il 30% sostiene di aver approfondito la propria sul veganesimo grazie ai Social Media.
I motivi principali per la scelta di una dieta vegana
Se i social media rappresentano una fonte di conoscenza del veganesimo, le motivazioni principali di chi sceglie uno stile alimentare vegan sono: la salvaguardia degli animali, la riduzione del proprio impatto ambientale sul pianeta e infine motivi di salute. Il 34% dei rispondenti ritiene infatti questo tipo di alimentazione più sana.
Le tipologie di ristoranti più apprezzati
Se invece si parla di ristoranti ad attrarre maggiormente gli utenti sono quelli che offrono una cucina vegetariana (71%), vegana (17%) o la meno nota crudista (6%), ossia una dieta che prevede il consumo di soli alimenti crudi.
Vegano ma non solo, qualche indirizzo di TheFork
La Luce, Poianella di Bressanvido, (VI) – Orto di famiglia, agricoltori locali e cucina naturale. La Luce è un ristorante dai sapori autentici in cui scoprire il vero gusto delle ricette vegetariane e vegane. Questo ristorante offre il servizio di consegna a domicilio. Puoi ordinare chiamando direttamente da TheFork.
Selezione Naturale, Torino – “Fruit, music and vegetable”. Queste tre parole ben descrivono l’atmosfera di Selezione Naturale, un ristorante completamente dedicato alla materia prima, che viene rigorosamente da produttori locali, e alla cucina vegetariana e vegana. Questo ristorante è aperto a pranzo e offre servizio di consegna a domicilio e asporto.
L’OV – Osteria Vegetariana, Firenze – Prendete i migliori piatti della tradizione toscana e uniteli al gusto di una cucina vegetale. Otterrete così la prima osteria vegetariana di Firenze: ambiente moderno e di design e un menù tutto da provare. Questo ristorante è aperto a pranzo.
Solo Crudo, Roma – “Raw cooking and gentle cooking”, cucina cruda e gentile. Cosa significa? Che i piatti di questo ristorante sono crudi oppure preparati con cotture particolari. Il risultato? Un menù gustoso, sano e davvero originale. Questo ristorante è aperto a pranzo.
Lo Famo Sano, Pomigliano d’Arco (NA) – Un nome ironico ma sicuramente evocativo. Da Lo Famo Sano il menù è interamente vegetariano e vegano, composto da piatti preparati con la materia prima locale e soprattutto con creatività. Questo ristorante è aperto a pranzo.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2019/02/App-TheFork.jpg387800Company Newshttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngCompany News2021-01-14 17:04:222021-01-18 21:48:59Essere vegani, dai social alla tavola: la ricerca di TheFork ispirata al Veganuary
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