Call, video call, ritardi, riunioni, email, la vita lavorativa on site ha una routine demanding, contorniata da ritardi e magari traffico.
Lo smart working sarà il futuro della vita professionale. I trend in crescita segnalano che non sarà più un’eccezione o una componente residuale della vita lavorativa.
More smart and less phisical: l’ufficio si smaterializza e diventa completamente virtuale con FB Infinite Office.
CTRL+C, CTRL+V, ho una call, sposto il meeting e il business travel.
E ancora: sveglia alle 7.30, prendi il bus, corri perché sei in ritardo, accompagna bimbi a scuola, entra in ufficio per iniziare la giornata.
Riunioni fiume, email su email, call e video call.
Quante volte l’abbiamo fatto? E quante volte siamo arrivati in ritardo? Abbiamo perso bus, tram, metro? E, ancora, abbiamo annullato call e posticipato cene in famiglia?
Insomma, alzi la mano chi è uscito indenne da tutto ciò durante la propria professional life.
Probabilmente non ci sarà nessuna standing ovation, in effetti è capitato un po’ a tutti.
Sì, certo, lo smart working, soprattutto in questi ultimi mesi, ha cambiato tantissimo le nostre abitudini lavorative, ma si può fare ancora di più: siamo solo all’inizio di una vera e propria rivoluzione.
Less physical, more smart
Gli scettici dello smart working sono ancora tanti. C’è chi ancora concepisce il lavoro come un qualcosa dalla presenza necessaria, seduti alla scrivania dalle 9.00 alle 18.00.
E non importa se obiettivi e task non sono stati fissati, l’importante è che tu ci sia.
Visione obsoleta, scandita dal cosiddetto timbro del cartellino.
Il futuro dovrebbe essere il management by objective, ovvero gestire le risorse per obiettivi e non in base alla presenza in ufficio.
Si, soprattutto oggi con i DPCM che lo “raccomandano fortemente”, lo smart working e le relative policy sono un tema caldo.
E se provassimo ad andare uno step forward? Se l’ufficio non avesse più confini, se non ci fossero più il desk, il PC e il telefono? Se non fosse più richiesta la nostra presenza e se lo smart working non fosse più un qualcosa di straordinario?
In poche parole, se l’ufficio si dematerializzasse e fosse virtuale?
Infinite Office
Sì, se l’ufficio fosse infinito?
Durante il lockdown abbiamo appurato che il digitale ha ridotto ogni distanza. Abbiamo potuto lavorare, senza essere necessariamente in ufficio.
Abbiamo fatto meeting virtuali, partecipato a sessioni formative da remoto. Dunque, in parte, abbiamo già sperimentato il lavoro agile, con tanto di interview svolte metà in camicia e metà in pigiama (ormai sono un clichè).
E allora qual è lo step forward?
In occasione dell’evento Oculus Connect, Facebook, ora proprietaria di Oculus, ha presentato il nuovo modello Quest2. Si tratta di un sistema di realtà virtuale all- in -one, più piccolo e leggero rispetto alla versione precedente. La novità è che, nonostante i visori VR siano stati ideati ed utilizzati soprattutto per l’intrattenimento con lo sviluppo di appositi videogiochi, questi dispositivi possono essere d’aiuto anche per la produttività.
Proprio per quest’ambito, Facebook ha annunciato Oculus Infinite Office, che ricrea un ambiente virtuale con il quale interagire tramite gesture, consentendo così di lavorare ai propri progetti ovunque e un qualunque momento.
Cioè, per dirla in maniera semplificata: indossi il device e sei in ufficio. Tramite gesture puoi inviare email, partecipare a meeting, fare call, portare avanti progetti.
Super interessante anche la possibilità offerta dal visore di vedere ugualmente quello che ci circonda e regolare la trasparenza degli oggetti a schermo.
Una tastiera Logitech, abbinata ad Oculus, permette di digitare nella vita reale e di vedere poi il risultato negli schermi virtuali.
Cosi, il badge sarà presto un ricordo.
Trend
In Europa il 17% dei lavoratori è oggi in smart working. I danesi in testa con il 37% del totale, Italia ultima con il 7% (siamo ancora fan del badge).
Fuori dal Vecchio Continente, USA e Giappone sono intorno al 40% e il trend è in crescita, a prescindere dalla pandemia.
Visti i trend in crescita, si presume che lo smart working nei prossimi anni non rappresenterà più un’eccezione né sarà una componente residuale del lavoro d’ufficio. E le persone che lavorano da casa potrebbero non disporre di uno spazio di lavoro ampio per disporre i diversi monitor (pratica utilizzata spesso per migliorare la produttività).
Infinite Office consente di posizionare i monitor in uno spazio virtuale, in modo da rendere più efficace la giornata lavorativa.
Una rivoluzione non solo tech, ma anche umana se si considera quanto possa cambiare (e magari essere più equilibrato) il cosiddetto work life balance.
Sicuramente c’è ancora tanta strada da fare: FB ha affermato che Infinite Office verrà rilasciato come funzionalità sperimentale per Quest 2 durante quest’inverno. Nessuna parola per l’uscita definitiva.
E noi? Saremo capaci di gestire il cambiamento o continueremo ad essere legati al ragionier Ugo (Fantozzi alias Paolo Villaggio), personaggio in cui si si è riconosciuta non solo una classe di lavoratori (gli impiegati), ma una generazione intera, che vedeva nel posto fisso l’unica situazione lavorativa ed esistenziale possibile?
Allora, siete ancora fan del badge?
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2020/11/facbook-infinite-office.jpg5641123Guenda Espositohttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngGuenda Esposito2020-11-04 22:39:102020-11-04 22:39:10Dal badge all’ufficio infinito di Facebook: ecco come sarà la nostra prossima vita professionale
Anche LinkedIn lancia una riprogettazione importante e rende le storie disponibili a tutti.
Continua la fase di rebranding di Bing che diventa Microsoft Bing
I word checker, Thesarus.com e Dictionary.com, aggiornano i loro portali insieme ai loghi.
Il rebranding di Catawiki e la nuova piattaforma digitale,
Quando un’azienda attiva un processo di rebranding non vuole solo migliorare il proprio appeal. Molto spesso intende cambiare obiettivi, messaggi, tono di voce, stile e qualsiasi altra cosa contribuisca all’immagine. Se fatto bene, questo passaggio consente a un’azienda di adattarsi al cambiamento e di migliorare la visibilità e la differenziazione del prodotto. Ecco le principali riprogettazioni del mese appena trascorso.
Le nuove icone di Google Workspace
Google si è davvero divertito con i nuovi loghi di G Suite. Il colosso di Mountain View ha recentemente rivelato la nuova icona di Gmail insieme alle altre di Google Workspace: Calendar, Drive, Docs e Meet.
Ma andiamo con ordine e proviamo a ripercorrere questo progetto di design attraverso tre aspetti fondamentali: la forma, il colore e il valore del marchio.
È sicuramente apprezzato l’intento di unificare il linguaggio visivo delle varie app della suite, ma il risultato non si può proprio considerare un successo.
L’aggiornamento è arrivato a metà ottobre. Molti utenti hanno subito espresso le loro frustrazioni sul nuovo design, sostenendo fosse troppo simile alle altre icone di Google Workspace.
L’iconico design della busta rossa di Gmail (che risale a più di dieci anni fa) lascia il posto a un’icona più minimalista, la quale presenta gli ormai colori distintivi di Google: rosso, verde, giallo e blu. Un allontanamento eccessivo dal logo classico a “M” e quindi dalla forma a busta, indicatore chiave per identificare quale fosse la scheda della posta elettronica aperta su Chrome. Il tentativo di migliorare l’usabilità è sicuramente fallito, in quanto lo sforzo cognitivo per riconoscere e distinguere le icone è maggiore del precedente.
I servizi sembrano perdere i colori caratterizzanti, come il rosso di Gmail o il blu di Calendar. I colori sovrapposti creano inoltre confusione: aggiungono una complessità difficile da percepire su piccola scala. Per esempio, il logo originale di Drive aveva tre colori e un po’ di ombreggiatura, una soluzione sicuramente più safe rispetto a quella attuale che lo fa apparire come un simbolo di biorischio.
Il problema fondamentale è che ora Gmail, che opera come un marchio autonomo da più di un decennio, viene messo al pari di altri servizi che non hanno la stessa portata, soprattutto in termini di utilizzo. Così Gmail diventa solo un’altra forma arcobaleno in un mare di forme arcobaleno, molto simili tra loro.
Nonostante il ronzio negativo attorno a questo restyling, è improbabile che la società decida di tornare ai loghi precedenti o di prendere in considerazione un’altra riprogettazione tra qualche mese.
LinkedIn lancia una riprogettazione importante e rende le storie disponibili a tutti. Si tratta del più grosso rinnovamento della piattaforma degli ultimi cinque anni.
Il social network, dal 2016 controllato da Microsoft, è cresciuto fino a diventare una community impegnata di oltre 700 milioni di professionistiin tutto il mondo che condividono contenuti, inviano messaggi e seguono corsi di LinkedIn Learning per migliorare le proprie competenze.
Le modifiche rendono la piattaforma calda, inclusiva, moderna e intuitiva. Offre un’esperienza di ricerca più snella per incoraggiare una migliore esplorazione di persone, eventi, gruppi e contenuti. L’inclusione e l’accessibilità sono i principi fondamentali del design, rumors annunciano che arriverà molto presto anche una modalità dark.
LinkedIn ha semplificato l’avvio di riunioni online, si potrà avviare una videochiamata su Teams, BlueJeans o Zoom, direttamente da un thread di messaggi LinkedIn.
Le LinkedIn Stories, hanno lo stesso formato di quelle delle altre piattaforme, solo che adesso risultano inserite in un contesto più professionale.
Sebbene abbia perfettamente senso, poiché aumenta in modo significativo il coinvolgimento, molti utenti hanno criticato la decisione di implementare le stories anche su questo canale.
Durante i test, milioni di membri LinkedIn hanno utilizzato le stories “per connettersi in modo più personale e meno formale con i loro colleghi e amici, soprattutto durante il periodo COVID.
LinkedIn vuole stare al passo con i tempi e le stories sembrano essere il futuro della condivisione dei contenuti, con la maggior parte delle piattaforme social che stanno investendo pesantemente nell’implementazione di questo formato.
Continua la fase di rebranding di Bing che diventa Microsoft Bing
Microsoft ha rinominato il suo motore di ricerca Bing in Microsoft Bing, come parte di un progetto di rebranding più ampio. Microsoft non è entrata nei dettagli sul motivo per cui ha aggiunto il nome dell’azienda al marchio Bing.
Di recente la società di Bill Gates ha sperimentato i loghi di Bing, alcuni di questi lavori sono apparsi temporaneamente nel motore di ricerca.
Il gigante della ricerca ha scelto di aggiungere la firma Microsoft a molti dei suoi prodotti negli ultimi anni, basti pensare ai recenti piani Microsoft 365 di Office 365.
In questa fase di passaggio Bing sta utilizzando sia il logo aggiornato e sia un logo Microsoft Bing, come si vede sulla home page del motore di ricerca. Non è chiaro se alla fine ritirerà il logo Bing in favore di questo logo più Microsoft o semplicemente utilizzerà entrambi in futuro.
Brand-refresh per Thesaurus e Dictionary
I noti word checker di Internet, Thesarus.com e Dictionary.com, hanno recentemente aggiornato i loro siti Web insieme ai loro loghi. Se ti sei trovato a cercare una parola per convincere qualcuno del contrario durante una discussione, è probabile che ti sei imbattuto in uno di questi portali.
Due marchi, parte del nostro quotidiano, che rappresentano delle risorse utili, in termini di editing e correzioni grammaticali. Con oltre 15.000 voci aggiornate su argomenti che vanno dalla razza all’orientamento sessuale, passando per clima e cultura digitale.
I due siti sono sono stati avviati nel 1995 e acquisiti nel 2008 da IAC, che possiede anche Match.com, Vimeo e il servizio di dating Tinder. La Gilbert’s Rock Holdings lo scorso mese ha dichiarato di aver acquistato i due siti dalla società di comunicazione con sede a New York IAC. I termini dell’accordo non sono stati divulgati.
In questo rebranding sparisce la simbologia simile al sole davanti alle lettere principali dei due loghi. La nuova versione vede una porta aperta, sia per Thesaurus.com che per Dictionary.com, simbolo che può significare l’inclusività ma anche l’apertura e la predisposizione ad accogliere nuovi termini che verranno.
Il rebranding di Catawiki e la nuova piattaforma digitale
Catawiki lancia una nuova visual identity tutta da scoprire. La piattaforma di aste online per l’acquisto e la vendita di oggetti speciali e da collezione cambia il proprio brandmark insieme all’immagine coordinata.
Fondata nel 2008 come community online per collezionisti, dal 2011, Catawiki ospita aste online settimanali, in varie categorie come fumetti vintage, modellini di treni, monete, orologi, arte, gioielli e auto d’epoca.
Al progetto di rebranding ha lavorato l’agenzia internazionale dentsuACHTUNG che ha saputo cogliere i tratti distintivi della società olandese che nel giro di pochi anni è cresciuta sino a diventare un punto di riferimento per collector di ogni genere.
Il rebranding passa attraverso il rifacimento dell’intera immagine coordinata. Cambiano sia la font family che la color palette, che adesso accende di blu elettrico i diversi punti di contatto.
Anche il portale è stato ridisegnato in coerenza con la nuova identità. La call to action in Home Page “Find your next…” con la search bar servita cattura immediatamente l’attenzione degli utenti, fornendo le informazioni in maniera semplice ed efficace.
Interessante anche l’utilizzo della C come finestra sul mondo Catawiki, anche se ampiamente utilizzata da tantissimi altri brand.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2020/11/rebranding-gmail-catawiki-bing-redesign-linkedin-14.png410728Giuseppe Tempestinihttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngGiuseppe Tempestini2020-11-04 22:25:132021-07-21 15:01:59Rebranding di ottobre: Gmail, Catawiki e Bing
Le elezioni presidenziali 2020 negli Stati Uniti sono state accompagnate da una serie di campagne dei brand per incentivare l’affluenza alle urne.
L’obiettivo è stato quello di rendere più consapevoli le persone e agevolarle nella procedura di registrazione al voto.
In un paese in cui l’affluenza è notoriamente bassa, il brand activism mira a creare partecipazione tra le fasce meno rappresentate.
Con la pandemia da Covid-19 ancora in corso, l’economia in recessione e le questioni legate all’ambiente e ai diritti della comunità afroamericana che restano al centro dei dibattiti, l’attesa del prossimo Election Day 2020 continua a tenere gli Stati Uniti (e non solo) con il fiato sospeso.
E se da un lato non è inedita nella storia americana la partecipazione alle campagne elettorali anche di organi normalmente estranei alla politica, d’altra parte l’impegno dei grandi marchi è un fenomeno abbastanza recente.
La tendenza sembra essere una logica conseguenza della crescita del brand activism che quest’anno ha raggiunto il culmine: le questioni sociali e la necessità di cambiamento sembrerebbero non poter essere trascurate nella comunicazione con il pubblico.
Dopo l’assassinio di George Floyd, per tutta l’estate i brand hanno soppesato sul razzismo e sugli abusi della polizia, ogni parola delle loro campagne.
Diverse fonti evidenziano una crescita negli ultimi anni della percentuale di consumatori che dichiarano di essere attenti alle scelte di responsabilità sociale dei marchi che acquistano, in particolar modo nella fascia di età 18-34.
Adottare un approccio di parte all’impegno civico può alienare dipendenti o clienti nell’ambiente iperpartitico di oggi. Il nostro studio trova un punto debole per le aziende: essere a favore della democrazia e dell’elettorato, senza essere di parte.
Ma non vi è nessuna presa di posizione nel sostenere apertamente la democrazia, se non ci si schiera a favore di nessuno dei due candidati. Oltre a stimolare la partecipazione degli elettori, le aziende affermano di aver tratto benefici dai programmi di impegno civico, come aumentare la consapevolezza del marchio tra i consumatori o rafforzare i rapporti con dipendenti e azionisti.
VOTE!
Il focus resta quindi stimolare l’affluenza alle urne, che negli Stati Uniti è notoriamente molto bassa, rispetto agli standard internazionali.
Innanzitutto, diversamente dall’Italia, per votare bisogna iscriversi volontariamente nelle liste elettorali, e questo scoraggia una vasta fetta dell’elettorato, generalmente più povera e meno istruita.
La percentuale di non votanti aumenta in modo significativo anche se ci si sposta nella fascia under 25.
Meno del 56% della popolazione in età di voto ha votato alle elezioni presidenziali del 2016, con un leggero aumento rispetto al 2012 ma inferiore rispetto al 2008.
Ma, come confermato dalla maggior parte degli americani, ciò che s’intende con “alta affluenza” varia molto da paese a paese e secondo quale metro di valutazione si utilizza.
When we all vote
When we all vote è l’organizzazione no-profit fondata da Michelle Obama con lo scopo di colmare i gap di età e razza tra gli elettori, cambiando la cultura del voto e stringendo partnership strategiche per raggiungere tutti gli americani.
Obiettivo dell’associazione è quello di guidare le aziende e le organizzazioni partner, fornendo gli strumenti e la formazione necessaria affinché i loro clienti, dipendenti e membri comprendano come votare e partecipino in maniera più attiva e informata.
Oltre a tutte le iniziative finalizzate al coinvolgimento e all’informazione, When we all vote ha svolto un ruolo fondamentale nella divulgazione della campagna VOTE, che ha coinvolto molti brand del fashion, tra cui Levi’s, Gap, Patagonia, Michael Kors.
Tutti i capi d’abbigliamento e gli accessori delle edizioni limitate “VOTE” sono disponibili anche sul sito dell’associazione, nella sezione Vote 4ever Merch.
La scelta non è ricaduta casualmente sullo streetwear: la campagna si rivolge principalmente alla fascia più giovane della popolazione, tradizionalmente la più sottorappresentata nella registrazione degli elettori.
Snipes x Puma – #USEYOURVOICE
La collaborazione di Snipes con Puma per la campagna #USEYOURVOICE, nasce con lo scopo non solo di rendere più accessibile agli elettori la procedura di registrazione, ma anche di informare e sensibilizzare.
In tutti i 95 punti vendita Snipes, sono stati allestiti degli speciali chioschi con schermo touch screen, in cui tramite registrazione o scansione del QR code si viene rimandati al sito di registrazione al voto o ai siti d’informazione del proprio stato.
Quattro negozi tecnologicamente più avanzati, tre a Filadelfia e il primo shop 2.0 presso il Barclays Center di Brooklyn, dispongono di chioschi Vengo interattivi che inviano collegamenti di registrazione degli elettori e dispensano mascherine riutilizzabili SNIPES USA x Puma #USEYOURVOICE. Tutti gli altri punti vendita utilizzeranno la segnaletica personalizzata in negozio con codici QR.
La campagna #USEYOURVOICE è durata fino alla scadenza per la registrazione degli elettori, il 19 ottobre.
Time to vote
Oltre che parlare ai consumatori, le aziende sostengono anche programmi rivolti ai dipendenti.
Time to vote è un’organizzazione no-profit nata nel 2018 proprio con questo scopo: garantire ai dipendenti delle aziende partner un programma di lavoro che permettesse loro di votare alle elezioni di medio termine. Sempre nel 2018 è stata registrata la più alta affluenza alle elezioni di medio termine degli ultimi decenni, e Time To Vote ha avuto menzioni da The New York Times, The Washington Post e The Boston Globe.
Time to vote si pone come movimento apartitico che mira a creare una comunità imprenditoriale attivamente impegnata nell’affrontare le questioni più significative del nostro tempo.
Tra le aziende partner ci sono Abercrombie & Fitch, Backcountry, Dick’s Sporting Goods, Eileen Fisher, Gap, Harbor Freight Tools, J. Crew, Levi Strauss & Co., Macy’s, Madewell, Nike, Obey Clothing, Patagonia, Steve Madden, Stitch Fix, Target, The North Face, Timberland, Walmart e Warby Parker.
Molte di queste aziende offrono ferie retribuite oppure orari flessibili per i dipendenti che si offrono volontari nei seggi elettorali.
Levi’s si è impegnata a fornire 15.000 mascherine per i lavoratori del sondaggio “per garantire che nessuno debba scegliere tra il proprio voto e la propria salute”, ha affermato il presidente e CEO Chip Bergh in una dichiarazione.
Patagonia: make a plan to vote
Patagonia ha sempre fatto della sostenibilità ambientale una pietra angolare della filosofia del brand. L’incoscienza delle azioni intraprese dall’amministrazione Trump ha dato una spinta per intraprendere ulteriori azioni e a lanciare un messaggio non più così sottile
A cominciare proprio dal messaggio cucito nell’etichetta dei suoi pantaloni “Vote the assholes out” che, come dichiarato dall’azienda, non si rivolge solo a Trump ma qualsiasi politico che neghi la realtà del cambiamento climatico.
Make a plan to vote è la call to action con cui Patagonia lancia la sua iniziativa di per i diritti di voto incentrata sul sostegno ai propri clienti e dipendenti nella registrazione degli elettori, in particolare tra le comunità di colore che incontrano maggiori difficoltà anche solo per la registrazione.
Email Marketing, influencer e merchandising
Le aziende hanno adottato approcci molto diversi tra loro per affrontare questioni politiche.
La Gap Inc. ha lanciato la campagna, Stand United per creare una community “unità per l’umanità e l’uguaglianza”. Definita dalla stessa azienda una spinta di marketing a 360 gradi, lo sforzo di Gap include una pagina dedicata alla registrazione degli elettori, $ 25.000 in donazioni sia a When We All Vote che a Rock the Vote, musica, discorsi di attivisti ed esperti, e una linea di abbigliamento in edizione limitata.
Alla Old Navy è stato predisposto un piano di incentivi per i dipendenti che lavorano alle urne il giorno delle elezioni. Levi’s, con il merchandising, ha ingaggiato influencer e celebrità nella sua campagna che incoraggia la registrazione e l’affluenza alle urne. Gli elettori possono anche registrarsi presso il flagship store di Saks Fifth Avenue a Manhattan.
American Eagle Outfitters con due release speciali ha destinato il 100% del ricavato a beneficio dell’organizzazione elettorale giovanile HeadCount, che gestisce un centro di azione per il voto 2020 per registrarsi, iscriversi alle newsletter “e conoscere ancora più modi per fare la differenza”.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2020/10/election-day-2020.jpg539958Federica D'Arpahttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngFederica D'Arpa2020-11-03 14:57:382020-11-06 16:18:14Election Day 2020: le migliori campagne dei brand
Quibi, la startup dei grandi nomi, ha chiuso i battenti: dopo sei mesi di attività ne è stato annunciato il fallimento.
La piattaforma di video in streaming non è riuscita a tenere il passo con la concorrenza.
Quibi sta per Quick Bites(bocconi veloci), è un servizio di streaming, lanciato 6 mesi fa, che permette all’utente abbonato di guardare video brevi della durata massima di 10 minuti.
Abbiamo iniziato questa cosa con l’idea di reinventare lo storytelling (…). O l’idea non era abbastanza forte per fare stare in piedi un nuovo servizio di streaming, oppure abbiamo sbagliato il momento.
Hanno dichiarato Jeffrey Katzenberg e Meg Whitman annunciando il fallimento della piattaforma.
Dopo i primi tre mesi di attività, dei 900mila utenti registrati ad aprile alla versione di prova, solo 70mila hanno rinnovato l’abbonamento.
Quibi, le ragioni del flop
L’app è stata creata, come appena ricordato, da Jeffrey Katzenberg e Meg Whitman. Il primo nome conosciuto nell’ambiente di Hollywood e il secondo noto nel panorama delle grandi compagnie. Ilfondatore di Quibi, vanta nel curriculum lavori alla Disney e alla DreamWorks; mentre il suo CEO, ha lavorato per DreamWorks, Procter & Gamble, Hasbro, Ebay.
Nella fase di startup la coppia è riuscita a reperire fondi per oltre 1miliardo e mezzo di euro coinvolgendo investitori quali Disney, Sony Pictures, Alibaba, AT&T’s WarnerMedia, Goldman Sachs e JPMorgan.
Ma ciò non è bastato a gettare le basi per un progetto veramente innovativo.
Secondo alcune analisi, Quibi non è stata in grado di cogliere le esigenze del mercato e di rispondere in maniera innovativa alla concorrenza. L’idea di base era quella di permettere all’utente di guardare video brevi da mobile accompagnandolo nei viaggi in metropolitana piuttosto che in altre situazioni di mobilità. I video dell’app sono stati studiati per essere visualizzati sia in orizzontale che in verticale in momenti diversi della giornata e in maniera disordinata.
Complici la pandemia (i relativi lockdown) e la concorrenza delle altre app di video gratuiti, tra cui TikTok e Instagram, la piattaforma di streaming non ce l’ha fatta ad uscire dalla sua fase di startup. Eppure il management di Quibi aveva investito in collaborazione con grandi nomi tra cui Guillermo del Toro e Steven Spielberg.
Neppure il prezzo, inferiore a quello di Netflix e di Amazon Prime, ha lasciato l’app immune dal virus della concorrenza.
Lavorare da casa è stata la campana a morte per Quibi, è il titolo che Rebecca Nicholson scriveva sul The Guardian lo scorso 24 ottobre. Katzenberg e Whitman infatti hanno fatto le loro più profonde scuse a tutti, attribuendo gran parte del fallimento aziendale alla Pandemia in corso.
Ma già in tanti avevano il sentore che questo tipo di app non ce l’avrebbe fatta ad emergere nel mare della concorrenza. Secondo alcuni analisti, il problema principale è stato la mancanza di focus e di conoscenza dell’utente, secondo altri una fase di test inesistente, secondo altri il ritardo di accordi per allargare la fruizione, come ad esempio l’accordo con Apple Tv, mentre altri ancora lamentano un’esosa campagna pubblicitaria televisiva.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2020/11/young-woman-holding-tablet-with-spotify-app-1-scaled-scaled.jpg33004951Flavia Alvihttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngFlavia Alvi2020-11-02 14:50:492020-11-04 22:27:36Cosa è successo a Quibi, la piattaforma di streaming che non ce l'ha fatta
Ancora oggi quando realizzano una campagna di marketing molto aggressiva o fanno una promozione importante in momenti specifici dell’anno come il Black Friday, le aziende sottovalutano l’importanza delle soluzioni web utilizzate. In queste occasioni, infatti, il portale web/eCommerce potrebbe subire in pochi minuti dei picchi di traffico, impossibili da quantificare prima dell’evento stesso.
Per molte persone la stagione delle festività natalizie è il periodo più bello dell’anno, ma per i retailer è certamente quello più intenso. Orde di desiderosi acquirenti di regali affollano negozi e siti web durante i mesi di novembre e dicembre, con una mole di vendite che può arrivare a rappresentare fino al 30% delle vendite annuali di un’azienda. E in particolare nei giorni di punta dello shopping, come il Black Friday (il prossimo 27 novembre!), i merchant online vedono un traffico tre volte superiore al solito.
Un dato destinato a crescere ulteriormente quest’anno, visto il boom dell’eCommerce legato alla pandemia.
Per trarre vantaggio da questo incremento di attività sul web (ma non solo), i rivenditori devono espandere rapidamente le loro infrastrutture e le loro operazioni per far fronte alle impennate della domanda. Non è un compito facile, ma preparandosi per tempo è possibile mettere al sicuro i propri affari, anche grazie al cloud.
Si sente sempre più spesso parlare di esperienze di acquisto frictionless, per aiutare gli utenti a sentirsi a proprio agio nel completare il proprio shopping online. Immagina, quindi, la frustrazione che potrebbe provare un potenziale cliente, magari già pronto a cliccare su “Acquista ora”, nel vedere che il sito crolla e non è più raggiungibile. No, no, no. Brutto segno! E spesso questo lo porterà a desistere e a rivolgersi a un competitor.
Qual è la soluzione? I retailer più lungimiranti stanno già utilizzando il cloud server per gestire la corsa allo shopping natalizio. In realtà questi strumenti possono portare un vantaggio in qualsiasi momento dell’anno, dato che tutte le aziende che possono subire improvvisi ed estremi picchi di attività.
I vantaggi di un cloud server
Per evitare di perdere clienti e di danneggiare l’immagine del brand a causa di un blocco del sito web non pianificato, i più esperti leader tecnologici testano le le loro infrastrutture con largo anticipo. Molti si affidano alle soluzioni cloud per aggiungere dinamicamente più risorse di calcolo e di archiviazione man mano che il traffico del sito sale, per poi ridimensionarsi automaticamente quando la domanda diminuisce.
Oltre a prevenire le interruzioni, il trasferimento di traffico consente spesso di ridurre i costi di hosting dell’infrastruttura.
Un altro aspetto da non sottovalutare, inoltre, è legato al mobile. Se gli acquisti da smartphone stanno già superando quelli da desktop, tuttavia oltre il 50% dei siti viene abbandonato quando richiede più di tre secondi per essere caricato.
Per ridurre la latenza sui loro siti mobili e sulle app durante le festività, i rivenditori utilizzeranno soluzioni cloud che forniscono contenuti in tutti i punti di presenza distribuiti a livello globale.
Ma non si tratta solo delle vendite online. La tecnologia cloud, infatti, può contribuire ad abbreviare i tempi di attesa – e le lunghe code – anche per gli acquirenti in-store, ora che molti retailer hanno adottato soluzioni cloud-based che consentono agli addetti alle vendite di effettuare pagamenti con carta di credito in qualsiasi punto del negozio. Poiché le informazioni sono memorizzate nel cloud piuttosto che in locale, questi sistemi hanno l’ulteriore vantaggio di integrarsi perfettamente con altre fonti di dati, come i record del programma fedeltà e i motori di recommendation.
E questi sono solo alcuni degli aspetti da considerare e dei vantaggi da tenere in considerazione parlando di eCommerce, Retail e cloud.
Quali sono le caratteristiche del cloud server ideale
Pur avendo adeguato la potenza di calcolo del tuo cloud server o più in
generale della tua architettura per tempo, è da considerare l’importanza di un monitoraggio attento e continuo, cioè una sorta di presidio operativo.
Se la campagna che hai in mente per il Black Friday, ad esempio, dovesse riscuotere tantissimo successo, a fronte di particolari picchi di traffico, un rallentamento dei tempi di caricamento delle pagine di destinazione o addirittura una loro irraggiungibilità provocherebbe seri danni al tuo
business, con un abbandono degli utenti praticamente immediato, per non parlare della reputazione del tuo brand.
Di qui il fattore tecnico, ossia l’adeguatezza dell’infrastruttura cloud, ma anche quello umano, vale a dire l’adeguatezza del tipo di assistenza offerta dal provider. Un elemento di primaria importanza e da non sottovalutare in termini di prontezza nella risposta a qualsiasi imprevisto tecnico.
Volendole riassumere in pochi punti, le caratteristiche del cloud ideale per le campagne di marketing e la reazione ottimale ai picchi di traffico, quindi, dovrebbero essere:
avere una scalabilità immediata che non comporta variazioni di nessun genere: in cui basti, insomma, adeguare le risorse con upgrade verticali (dove non devo
aggiungere altre virtual machine ma posso scalare quelle delle macchine che già compongono l’architettura web).
Una buona ottimizzazione /tuning dell’infrastruttura.
Un supporto tecnico disponibile in modo immediato (il fattore umano non va mai sottostimato, anzi!).
La possibilità di fruire di un servizio di presidio operativo per cui al momento della campagna, una persona dello staff del provider si occuperà di monitorare la coerenza delle prestazioni e del TTFB /tempo di caricamento delle pagine e interverrà con upgrade immediati o soluzioni laddove si noti una riduzione dei tempi di risposta dei server durante il click time.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2019/02/ecommerce-in-italia-2019.jpg568939Ninja Partnerhttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngNinja Partner2020-10-30 12:00:342021-01-19 19:54:17Come prepararsi al Black Friday grazie al Cloud Server
La campagna presidenziale degli Stati Uniti ha infranto ogni regola passata e si è aggiudicata il primato di più costosa di tutta la storia Americana!
I negative ADS, spot contro l’avversario, sono stati prodotti nell’80% dei casi dal presidente Trump e nel 62% dei casi da Joe Biden.
Nell’anno della pandemia il tema della sanità è entrato prepotentemente nell’agenda politica delle elezioni USA 2020. Il Republican National Commitee (RNC) ha aggiunto, per gli ultimi giorni di campagna, ben 9 milioni di dollari tutti su uno spot di 30 secondi, denominato “Noise”, che sta andando in onda negli stati più contesi come Arizona, Michigan, North Carolina e Wisconsin.
“Noise”, Trump, 2020
Joe Biden ha puntato moltissimo sul tema della sanità e ha attaccato ripetutamente il presidente Trump, accusandolo di gestione fallimentare dell’emergenza. In “Ready to lead”, andato in onda durante il picco del Coronavirus negli States, il senatore dem chiede un “Nationwide Mask Mandate”.
“Ready to lead”, Joe Biden, 2020
La polarizzazione del consenso
Glauco Maggi, inviato de La Stampa a NY, nel suo recente libro “Il guerriero solitario. Trump e la Mission Impossible” nota come il principale avversario del Tycoon sia proprio se stesso: avendo polarizzato moltissimo il consenso, gli States si sono divisi in vere tifoserie tra chi lo ama e chi lo detesta, al di là di quello che è stato fatto o non fatto in questi 4 anni e dei dati economici e occupazionali incoraggianti pre-pandemia. Un voto di stomaco, dunque, che asseconda le simpatie personali di ciascuno e meno le issue classiche che spostavano il consenso, come economia e politica estera.
La spesa degli spot a seconda dei temi in agenda, New York Times
La campagna a schieramenti si riflette nei social media, dove gli algoritmi assecondano questa polarizzazione dell’informazione: le persone vedono, interagiscono, si uniscono a community e costruiscono conversazioni esclusivamente attorno a coloro che la pensano in maniera equivalente. Il dialogo con le altre tifoserie è rarissimo così come lo scambio di contenuti tra chi la pensa in maniera opposta.
La polarizzazione delle conversazioni social non viene scalfita nemmeno dai media mainstream, la cui credibilità è minata dalla pluralità delle fonti, tra cui vive e prospera anche il link o il meme condiviso in bacheca dal vicino di casa o dalla fidanzata. I social media, nati come una piazza aperta e plurale, sono inevitabilmente vittime del loro stesso algoritmo: gli utenti vedono i contenuti a loro più affini, radicalizzando le proprie posizioni. Più le rispettive fazioni sono coese più difficilmente saranno impermeabili al dissenso, anche se argomentato. Un meccanismo illustrato perfettamente dal prof. Niall Ferguson, nel documentario “Networld”, tratto dal suo recente best seller “La piazza e la Torre”.
L’uso degli Spot
Nell’era delle certezze granitiche e degli ultras, la televisione non drena più consenso? Tutt’altro: in una società, come quella statunitense, dove la media dell’età di chi si reca alle urne è particolarmente alta, la TV detiene ancora un ruolo da protagonista e la gran parte dei budget viene stanziato per produrre e mettere in onda gli ADS, la cui tradizione risale al celebre scontro Eisenhower-Stevenson del 1952.
L’effetto degli spot nel 2020, all’interno di una corsa presidenziale così polarizzata, sarà con tutta probabilità mitigato rispetto al passato. Anche i negative ADS (gli spot contro l’avversario), che da sempre rappresentano da soli i due terzi di tutta la messa in onda, hanno più difficoltà a penetrare nei fortini dell’elettorato avversario, a meno di trovare una smocking gun finale, come sta provando a fare il presidente Trump cavalcando l’inchiesta del New York Post (censurata da Twitter) nei confronti del figlio di Joe Biden, Robert Hunter Biden, accusato di connivenza e loschi affari con un oligarca ucraino e con aziende petrolifere legate al regime di Pechino.
“Biden Lied“, Trump, 2020
L’immagine di Biden, con un’espressione confusa e smarrita, vuole assecondare le voci su una sua demenza senile, ed è ricorrente nella campagna di Trump, oltre che nei meme che circolano sui social di mezzo mondo.
Gli ADS dell’ex vice presidente cavalcano ovviamente il tema della pandemia, criticando aspramente l’operato del Presidente in carica. In “I Alone”, si ripete la frase di Trump “Solo io posso aggiustare questa situazione”, mentre i dati dei deceduti e dei contagiati scorrono inesorabili, scritti con una font oro, stile casinò di Las Vegas, quasi fossero gli slogan del Tycoon.
“I Alone”, Biden, 2020
Nella campagna elettorale 2020 i negative ADS sono stati prodotti nell’80% dei casi dal presidente Trump e nel 62% dei casi da Joe Biden. Il Republican National Committee (RNC) ha tirato fuori l’artiglieria pesante solo in queste ultime settimane: negli stati leaning (in bilico) si stanno spendendo ben 25 milioni di dollari in spot TV. I telespettatori che vedranno i nuovi ADS sono quelli in particolare di Arizona, Iowa, Michigan, North Carolina, Florida, Pennsylvania, Georgia, Nevada, Wisconsin, Iowa e Ohio.
Il comitato di Biden ha speso molto di più: ben 53 milioni, soltanto nell’ultimo mese, con ben 38 tipi diversi di spot soltanto in Pennsylvania. Tuttavia il presidente in carica, che ha speso meno del 2016, conta molto sulla visibilità dei suoi affollatissimi comizi e sulla copertura mediatica organica, quantificata da Bill Stepien, il campaign manager di Trump, in 48 milioni di dollari a settimana.
La campagna Trump sta anche spendendo direttamente anche su reti via cavo locali che hanno un alto numero di spettatori tra gli elettori più rurali, come RFD-TV, WGN-TV e Weather Channel, e sta puntando molto anche sulle stazioni radio evangeliche e conservatrici.
La spesa in ADS dei due candidati, New York Times
Le issues in agenda nel 2020
Il presidente Trump era partito con un’altissima percentuale di approvazione a gennaio 2020 (49%) per poi scendere tra il 38% e il 42% a seguito della pandemia. Secondo gli ultimi rilevamenti di Gallup, l’economia resta al primo posto nei pensieri degli americani (e resta anche il tema più presente negli spot), seguito dai temi della sicurezza nazionale e del terrorismo (presenti quasi esclusivamente negli ADS di Trump). Due punti che potrebbero far ben sperare il Presidente in carica, se non fosse per l’entrata del Coronavirus nel dibattito e per le polemiche legate alle tematiche razziali (che crescono di importanza dal 30% al 45% da dicembre 2019 a settembre 2020).
Record Smashing, Trump 2020
Made in America, Biden 2020
La risposta all’emergenza sanitaria è fondamentale non solo per il 93% dei democratici ma anche per il 61% dei repubblicani, una percentuale enorme se confrontata con gli altri temi di attualità, ad esempio il cambiamento climatico, che si ferma al 23% di attenzione nell’elettorato GOP ed è presente solo negli spot di Joe Biden.
Immagini e significati negli spot più belli della campagna
In “Vote For”, Joe Biden punta tutto sulle emozioni, facendo un appello a tutti gli americani per andare a votare, in qualunque modo possibile. “Il tempo delle divisioni finirà presto”, dice la sua voce fuori campo. I valori sono tracciati da parole e immagini mai casuali: “Empathy” (0:07), una madre (?) che incoraggia (per la partita?) la figlia un po’ corpulenta appena scesa da un truck, mentre una mazza da baseball spunta dallo zaino. Biden è poi ritratto a pregare assieme a una comunità di donne afroamericane (0:08).
“Vote For”, Biden 2020
“Respect” (0:09) è l’abbraccio con un anziano reduce. Quando compare “Honor” (0:10), sono tutti in piedi mano sul cuore a cantare l’inno (nessuno in ginocchio) ma le tribune sono mezze vuote, la disillusione di molti è tangibile. La ragazza in primo piano, tatuata, accanto all’amica dall’aspetto latino. La parola “Honor” (0:11) è anche accompagnata dalle immagini del compianto John McCain e di sua moglie Cindy, il cui endorsement per il Dem ha fatto scalpore. La recentemente scomparsa giudice della corte suprema Ruth Ginsburg, pioniera delle battaglie liberal si fa spazio nello spot accompagnando la parola “Equality” (0:12) come un monito a chiunque voglia intaccare l’imparzialità della corte stessa. Cosa potrebbe accompagnare “Bravery” (0:14) se non medici e infermieri? In questo caso tutti di colore e una di loro con un pugno alzato, come nelle battaglie razziali delle Black Panther.
“Love” (0:15) sono due persone che si abbracciano, in una casa di una periferia americana. Donald Trump viene citato solo al secondo 0:16 alla parola “Truth”: la sua presenza aleggia in una sala stampa deserta della Casa Bianca. Lo spot prova a fare breccia nel fortino avversario con l’immagine di un rodeo (0:24), controbilanciata subito da una catena umana (proteste BLM?) a 0:25.
America First, Trump 2020
“America First”, è invece un lungo e visualizzatissimo spot di Donald Trump, che riprende invece uno dei suoi più celebri speech. “Per troppo tempo”, dice la voce fuoricampo del Presidente, “L’establishment ha protetto se stesso”. Le immagini di Hillary, Bill Clinton, Joe Biden , Obama e Nancy Pelosi scorrono disturbate dal classico effetto “vecchia televisione”, utilizzatissimo nei negative ADS. “Le loro vittorie non sono state le vostre vittorie”. Ma quali sono questi trionfi a cui si riferisce? Joe Biden brinda col presidente cinese: il telespettatore può ben immaginarlo.
Il cambiamento del registro comunicativo e musicale dello spot parte dal secondo 0:21: Donald Trump entra in scena, scende da un elicottero come quell’eroe che tutti stavano aspettando. Interessantissimo che le parole “new vision will govern our land” siano affiancate da immagini della manifattura “made in USA” (da 0:32).
“Buy American and hire American”, invita il presidente Trump (0:40), facendo leva su temi molto sentiti nel suo elettorato.
Il terrorismo islamico compare dal minuto 1:00 e l’attenzione si sposta sugli uomini in divisa. “Law and order”, lo slogan di Trump è declinato in una carrellata di quelli che lui definisce “Great men and woman of our military and law enforcement”.
La nuova era trumpiana fa eco a Kennedy:“We sill bring back our dreams” (1:23), ritornare a sognare significa anche veder decollare il razzo di SpaceX con gli astronauti americani a bordo.
La maggiore distanza con Biden è tutta qui: “This moment is your moment. It belongs to you”, Trump ha creato un vero e proprio movimento di persone che lo adorano al di là del Partito Repubblicano; se si trattasse di una rock star parleremo di fan base.
Unpredictable
La domanda che tutti si fanno è la medesima: i sondaggisti avranno toppato anche questa volta, come 4 anni fa, e sarà Trump a prevalere oppure tutto andrà come previsto e trionferà il vecchio Biden?
La notizia più recente è che i repubblicani stanno ottenendo una quantità maggiore di nuovi elettori registrati, specialmente in alcuni swing states, come racconta questa inchiesta del Time.
Tuttavia i risultati sono totalmente imprevedibili, e l’alta affluenza all’early vote (si può votare sia al seggio che via posta) potrebbe avvantaggiare i Dem o potrebbero essere semplicemente un segnale del timore degli anziani (la base elettorale più ampia di Trump) a mettersi in fila il 3 novembre. Gli Stati Uniti, la cui leadership è minata dalla Cina e da molti altri ingombranti attori di un mondo multipolare, hanno davanti a un enorme bivio e la vittoria di uno o dell’altro candidato non potrà che portare a riflessioni importanti sulla composizione, demografica, economica e valoriale, della propria società.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2020/10/122495827_3457321877666531_8162018026455839368_o.jpg7092064David Mazzerellihttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngDavid Mazzerelli2020-10-30 11:02:412020-11-02 21:34:57L’America a un bivio: tra Trump e Biden è guerra di spot
Ottimizzare la presenza digitale potrebbe aiutare le piccole imprese a raggiungere anche il rispettivo target offline: integrare le esperienze tradizionali con quelle digitali assume un’importanza sempre maggiore.
Anche le piccole imprese devono adattarsi ai nuovi comportamenti dei consumatori e per farlo devono costruire adeguatamente una customer journey omnicanale.
È quasi un anno che il Covid-19 si è abbattuto sulla quotidianità di ognuno, e non ha di certo fatto sconti alle piccole imprese italiane, messe a dura prova prima dalle norme sul distanziamento sociale, poi dal lockdown e più recentemente da quella che risulta essere la seconda ondata di contagi del virus.
Le norme sul distanziamento sociale hanno, per esempio, inevitabilmente danneggiato alcuni settori: per esempio tutto quello che si concentra sulla vendita al dettaglio oppure viaggi, eventi e ristorazione, solo per citarne alcuni.
Mentre in Italia si fa di tutto per scongiurare un nuovo lockdown generale, mai come in questo momento diventa di nuovo d’attualità, per le piccole imprese, la necessità di trasformare i propri modelli di business, tentando un avvicinamento al digitale, al fine di poter essere competitivi e raggiungere serenamente un futuro (si spera quanto più vicino possibile) periodo di Post-Covid.
D’altra parte, come ricorda anche un recente articolo su ThinkwithGoogle, rispetto a qualche tempo fa il contesto tecnologico è completamente mutato: l’utilizzo dei nuovi strumenti digitali ha fatto un grande salto in avanti nei settori del lavoro, della formazione e delle relazioni sociali.
Partendo da questa crescita del pubblico online, l’idea di ottimizzare la presenza digitale potrebbe aiutare le piccole imprese a raggiungere anche il rispettivo target offline che vuol recarsi fisicamente al punto vendita: integrare le esperienze tradizionali con quelle digitali assume, di giorno in giorno, un’importanza sempre maggiore.
L’online può aiutare l’offline?
In un articolo di ThinkwithGoogle sul futuro del retail, si legge che nel 2024 la maggior parte degli acquisti verrà ancora realizzata offline (78%). Continua dicendo che i rivenditori che potranno contare nel 2024 su una solida offerta digitale, incrementeranno le loro vendite. Da qui l’importanza di organizzarsi con una strategia sia commerciale che di marketing integrata tra mondo online e offline, creando vari touchpoint nell’esperienza di acquisto del potenziale utente.
La pandemia da Covid-19 ha effettivamente accelerato il processo di trasformazione digitale e anche le piccole imprese si sono spinte, in velocità, su questi canali: di seguito alcune tendenze e tecnologie che potrebbero entrare a far parte stabilmente del loro futuro.
eCommerce, trasformazione digitale e strategia omnicanale
Considerando il know-how acquisito dalle persone durante l’ultimo lockdown in Italia, è importantissimo dare la possibilità a un potenziale cliente di acquistare un prodotto anche su uno store online.
Anche solo per informare il cliente con il prezzo e le caratteristiche di un prodotto o con l’eventuale disponibilità in uno store fisico dello stesso: essere presenti con una piattaforma eCommerce, in un momento in cui gli utenti passano molto più tempo online e con una predisposizione crescente verso questa tipologia di acquisto, può essere utile per condurre l’utente alla definitiva conversion (on o offline).
Trasformazione Digitale
Non solo eCommerce: le piccole imprese potrebbero considerare la possibilità di sfruttare a pieno le infinite potenzialità degli strumenti digitali. Basta pianificare con attenzione. Dai tool per lo smart working fino a quelli per la gestione delle risorse umane.
Creare l’ambiente digitale della propria azienda può rivelarsi una soluzione funzionale per fronteggiare questo periodo di incertezza: la capacità di mutare velocemente una strategia, la possibilità di lavorare in remoto con i propri dipendenti, avere a disposizione una suite digitale che colleghi tutti i collaboratori coinvolti, magari con un repositor dati e un ambiente di comunicazione. Strumenti, mai come in questo momento, fondamentali.
Customer journey omnicanale
Anche le piccole imprese devono adattarsi ai nuovi comportamenti dei consumatori e per farlo devono costruire adeguatamente una customer journey (“viaggio del consumatore”) omnicanale: sembrerà una ripetizione, ma in questo momento storico occorre accompagnare il consumatore nel viaggio verso la conversion, attraverso molteplici touchpoint.
Altri touchpoint, oltre all’eCommerce, potrebbero essere rappresentati dagli strumenti di digital marketing (es. annunci sui motori di ricerca), la presenza sugli aggregatori di servizi (es. app di servizio per la consegna a domicilio di cibo nel caso di imprese impegnate nella ristorazione), le campagne di comunicazione e di sensibilizzazione sui social network, le campagne commerciali on e offline, la presenza sul web con un sito responsive. Sono molteplici le possibilità, l’importante è avere le idee chiare sulla strategia omnicanale da attuare e sulla customer journey da riservare al proprio target.
Il rapporto umano: il vantaggio delle piccole imprese
Il grande vantaggio di una piccola impresa è rappresentato dalla conoscenza del proprio target: la possibilità di fidelizzare i propri clienti, attraverso la creazione di un rapporto umano e diretto (soprattutto per le piccole imprese che operano a livello locale), resta una delle chiavi del successo.
Sempre parlando di rapporto umano, non è da sottovalutare quello che si instaura all’interno del team di lavoro: la conoscenza e l’esperienza condivisa di un team di una piccola impresa è senza dubbio un elemento importante, soprattutto in un momento delicato come questo. Per le imprese di dimensioni più piccole, il fattore umano non dovrebbe essere sostituito da quello digitale: il vero scopo è trovare la migliore soluzione per integrarli e scoprire nuovi metodi per fronteggiare le difficoltà e ottimizzare i processi.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2019/07/digital-marketing-per-le-PMI.jpeg13001852Luca Maucionehttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngLuca Maucione2020-10-28 16:54:542020-10-28 17:13:48L'importanza della presenza digitale per una piccola impresa
Digital Food Strategy: le aziende dell’alimentare diventano smart. È questo il titolo dell’ultima ricerca promossa e realizzata da Casaleggio Associati dedicata alla vendita online dei prodotti alimentari che è stata presentata il 27 ottobre durante un evento digitale.
Il cambiamento radicale del mercato nel 2020 ha indotto un’accelerazione verso il digitale dei produttori alimentari italiani che stanno trasformando le loro aziende per diventare smart. Il rapporto diretto con i clienti richiede, però, numerosi cambiamenti non solo organizzativi ma di visione. Per essere forti sul web diventa sempre più importante rafforzare il brand delle aziende verso il consumatore diventando delle media company, creare servizi per fidelizzare direttamente il cliente finale, gestire anche le vendite dirette senza creare conflitti tra i canali distributivi e dimostrare il tracciamento di filiera su blockchain.
“Stiamo assistendo alla nascita di nuovi business model, a percorsi alternativi di costruzione della relazione diretta con i clienti finali attraverso nuove logiche di comunicazione e soprattutto a nuove soluzioni per gestire le vendite dirette – spiega Davide Casaleggio, Presidente Casaleggio Associati – . Attraverso la ricerca metteremo a confronto i trend in atto e i migliori casi italiani e internazionali che hanno investito e deciso di cambiare radicalmente modo di fare business”.
eCommerce e Food: come sta influendo la pandemia
Le aziende del settore alimentare italiano cambiano modello di business
e investono nei canali online. Dalla Gdo ai piccoli produttori le aziende food puntano sulla relazione diretta con il consumatore e sull’eCommerce.
La ricerca ha analizzato i dati relativi alle vendite online del 2019 del settore alimentare che registrano una crescita del 19%.
Secondo le stime di inizio anno ed escludendo il delivery e i pasti pronti, il Food & Beverage online nel 2020 in Italia avrebbe dovuto raggiungere quota 653 milioni di dollari, con una crescita del 9,8% sul 2019. Le stime più recenti che considerano l’impatto del Covid hanno invece aggiornato questa cifra a 697 milioni di dollari. E nel 2024 si prevede che il settore raggiunga i
1.013 milioni di dollari, con una penetrazione in termini di user del 20,8% (6,6% in più rispetto al 2020).
I dati del primo semestre 2020 rilevano che la pandemia ha influito in modo sostanziale sull’evoluzione della presenza online del settore alimentare italiano con un incremento di oltre 2 milioni di clienti online da gennaio a settembre 2020.
Ma sebbene il mercato online alimentare in Italia non arrivi ancora all’1% del totale, contro il 4-8% nel resto d’Europa, è evidente come i brand e i produttori italiani abbiamo radicalmente cambiato l’approccio nei confronti della rete, luogo di vendita e di fidelizzazione imprescindibile.
Luci e ombre della crescita dell’eCommerce nel Food
Ma se in molti hanno investito e hanno avuto successo, va evidenziato come il settore della logistica legata al food sia stato messo a dura prova dovendo far fronte ad un aumento della domanda con picchi anche del 300-400%.
“L’agroalimentare italiano è il primo settore industriale italiano e vale 538 miliardi di euro, il 25% del PIL, con 3,8 milioni di occupati in circa 70.934 aziende– spiega Casaleggio – Si tratta di imprese molto frammentate delle quali l’86% ha meno di 10 dipendenti. In questi ultimi mesi sia i grandi brand che i piccoli produttori si sono accorti dell’importanza di creare una relazione digitale diretta con il cliente. Con i negozi chiusi la rete è stato l’unico contatto con l’esterno e chi lo ha capito per primo ha sofferto meno. La pandemia ha dato una grande accelerazione alla digitalizzazione del settore alimentare portando la creazione o l’ottimizzazione degli eCommerce ma ha anche messo in evidenza la frammentazione del settore e le grandi differenze tra prodotti per ognuno dei quali si impone una riflessione rispetto alla vendita in rete”.
Food ed eCommerce: 4 modelli ricorrenti
Attraverso l’analisi del mercato italiano e interviste ai top manager delle aziende alimentari del nostro Paese la ricerca di Casaleggio Associati ha individuato 4 modelli di business ricorrenti per l’eCommerce che variano in base alla tipologia di prodotto: il prodotto autonomo, ovvero singoli prodotti capaci di soddisfare il bisogno, il paniere proprietario, il paniere in partnership e i prodotti della spesa venduti attraverso la GDO.
I quattro modelli di strategia eCommerce generano un approccio diverso in termini di relazione digitale con il cliente finale e all’attività di marketing. Agire su queste due leve consente di ottimizzare il modello di eCommerce e di puntare all’affermazione della propria presenza online.
Investire nella rete e in un canale online comporta, infatti, investimenti non solo nella logistica e nella distribuzione ma anche nel marketing per instaurare e migliorare la relazione digitale con il cliente dando valore al brand, legando il prodotto a un’esperienza, differenziando i prodotti creando dei pack scorta o regalo, proponendo acquisti facilitati attraverso una gamma di prodotti di
più brand che completano il paniere, gli abbonamenti e il riordino automatico.
“Per le aziende del Food la presenza online non è più una scelta – continua Casaleggio – ma una richiesta che arriva dal consumatore. Il cliente finale vuole una relazione diretta con il brand, conoscere la filiera produttiva ed è sempre più attento a quello che consuma”.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2020/02/documentari-food-scaled-scaled.jpg24003600Redazionehttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngRedazione2020-10-28 09:25:562020-10-28 17:12:50eCommerce e Food: in atto un cambiamento radicale delle nostre abitudini
Nel mondo dell’iperconessione siamo tutti viaggiatori alla ricerca di mete ancora da scoprire. Quando ci occorre conoscere un’informazione su un’azienda, trovare l’indirizzo di un negozio, o dobbiamo rintracciare un libero professionista perché necessitiamo di un servizio specifico, la prima cosa che facciamo è quella di sfilare lo smartphone dalla tasca e andare su internet per ottenere quello che si serve. Tutto passa dal web, e niente sfugge alla sua infinita rete. Ma non tutti hanno ancora capito l’importanza della presenza online e di come farla crescere.
Molte PMI si trovano a un bivio in cui devono prendere la fatidica decisione: lanciare o no la propria attività sul web? Se avevamo ancora delle remore a dover essere, o meno, presenti online, gli ultimi mesi hanno spazzato via anche i coriacei dubbi dei più scettici.
Essere online ci permette di esistere in un mondo in cui non esistono confini fisici. E per farlo oggi abbiamo a disposizione anche strumenti molto semplici come quelli offerti da Register.it.
Perché è importante avere una presenza online?
La prima ragione per cui un’azienda e un professionista devono essere online e curare la propria presenza digitale è che ognuno di noi ricerca una grande mole di informazioni su qualsiasi tipo di brand e figura professionale, consultando esclusivamente il web.
Lanciare la propria attività online, di conseguenza, comporta maggiore visibilità e permette di essere rintracciati e contatti da chiunque.
Avere una presenza online, inoltre, fortifica l’immagine e la credibilità dell’azienda perché ogni brand e professionista potrà raccontarsi ai suoi utenti mostrando la mission dell’azienda, il perché è nata, prima di soffermarsi sui prodotti e i servizi che offre.
Essere online è il modo ideale per consolidare la propria brand identity. Inoltre, una cosa da tener presente è che prima di effettuare un acquisto, molti utenti indagano sulla policy delle aziende per capire se è in linea con il proprio modo di essere. Chiarire la propria l’identità è cruciale.
In ultima analisi, gli strumenti digitali consentono all’azienda e ai professionisti di accrescere il proprio giro d’affari perché essere online permette a tutti di conoscerci e poterci consultare.
Ma quali sono questi strumenti necessari per incrementare e sviluppare la propria presenza online?
Gli strumenti digital professionali che permettono di aumentare la propria presenza online
Quando cerchiamo delle informazioni specifiche su un’azienda o un professionista, sbirciamo i contenuti sui social, anche perché non tutti dispongono di un sito web. Ogni professionista, invece, dovrebbe raccogliere tutto ciò che riguarda la sua attività e i suoi servizi su un sito vetrina.
indirizzi email validi e certificati con cui comunicare
Registrare un dominio gratis
Un modo semplice per cominciare è usare un servizio che ci consenta di registrare il nostro dominio in modo gratuito. Il primo passo per creare un sito internet ed essere facile da trovare, è proprio la registrazione del dominio.
Una volta effettuata la registrazione finalizzeranno la riuscita della nostra presenza online a 360° e potremo andare avanti e personalizzare il sito web.
Creare e personalizzare un sito web
Dopo la registrazione del dominio, possiamo dare il via alla creazione e personalizzazione del nostro sito web. Possiamo scegliere il template che più si adatta a noi e alle nostre esigenze, avendo cura di scegliere un servizio che ci consenta di creare un sito mobile friendly, ossia ottimizzato per i dispositivi mobile e non solo per il PC.
Una volta creato e completato il sito, possiamo lanciarlo in rete. Inoltre se non si ha tempo di creare un sito da soli o si ha paura di fare pasticci, ci sono figure professionali che possono occuparsi di tutto il processo.
A cosa serve un sito web?
Il sito web è essenziale in questo mondo in continua evoluzione. Permette alle aziende e ai professionisti di farsi conoscere agli utenti e ai potenziali clienti, ottenere dati sulla propria community, creare delle promozioni ad hoc e personalizzate in base al proprio target e mercato di riferimento.
Inoltre, agevola la comunicazione grazie a dispositivi sempre nuovi e innovativi.
Indirizzi email validi e certificati con cui comunicare
Ogni professionista e PMI devono disporre d’indirizzi mail professionali e personalizzati per poter comunicare con la propria community. Oltre alle semplici email, c’è bisogno di una PEC (Posta Elettronica Certificata), che offre una garanzia legale per qualsiasi comunicazione avvenuta, certificando l’invio, l’integrità e l’avvenuta consegna del messaggio.
La forza dei social media
Oltre a questi imprescindibili strumenti, un’azienda e un professionista devono creare e curare la propria presenza digitale anche sui canali social, ma non prefissarsi su queste piattaforme come obiettivo principale la vendita.
Sui social media dovranno creare una relazione continua e in tempo reale con la propria community attraverso un buon piano editoriale e comunicando tramite contenuti emozionali. Bisogna stabilire una conversazione bidirezionale, dove non solo si parla, ma si ascoltano i feedback degli utenti.
Una volta online bisogna coltivare la propria identità attraverso la cura del sito web e dei profili social. Un ottimo consiglio per restare competitivi in questo mondo in espansione è quello di dare sempre un occhio ai propri competitor e imparare dai loro punti forza ma soprattutto a non ripetere gli stessi errori.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2020/10/sito-web-presenza-online.jpg7731210Mariagrazia Repolahttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngMariagrazia Repola2020-10-27 12:00:502020-10-28 17:05:52Quali sono gli strumenti per essere presenti online in modo professionale
Per risolvere con efficacia il problema della propria sostenibilità, il giornalismo deve necessariamente abbandonare i vecchi modelli di business per abbracciarne di nuovi.
Tra i nuovi modelli di business, quello della membership è già risultato efficace per molti progetti giornalistici, soprattutto nel mondo anglosassone.
I modelli di membership sono costituiti da tre componenti principali e si differenziano dagli abbonamenti, dai modelli di donazione e dal crowdfunding.
Il giornalismo, si sa, sta affrontando un grosso problema di sostenibilità. Mentre i tradizionali modelli di business diventano sempre meno adatti e profittevoli, si fatica a trovare nuove strade che possano garantire altrettanta efficacia economica. Alcuni tentativi – talvolta riusciti – tuttavia ci sono. È il caso delle membership, modello nato nel mondo anglosassone già alcuni anni fa e che consiste in un “contratto sociale” tra un’impresa giornalistica e i suoi membri: i membri danno il loro tempo, denaro, energia, competenza e connessioni per sostenere una causa in cui credono; in cambio, la testata giornalistica offre trasparenza e occasioni per contribuire in modo significativo sia alla sostenibilità che all’impatto dell’organizzazione.
In una parola, membership significa appartenenza. E utilizzare l’appartenenza come modello di business significa fare in modo che i lettori si sentano parte di un universo di valori condivisi. Rivolgersi a una specifica comunità offrendole un servizio utile e di qualità.
Insomma, secondo questo orientamento editoriale, i lettori sono molto più di una fonte di sostegno economico. I membri sono parte attiva di uno scambio circolare di conoscenze con i giornalisti, dinamica che permette tra l’altro alla testata di identificare i sostenitori più forti e arruolarli nella sua ricerca di impatto e sostenibilità.
In molti casi, la membership è un accordo per mantenere l’accesso agli articoli libero e gratuito per tutti. In quanto sostenitori in primo luogo di una causa, i membri hanno infatti interesse a raggiungere il maggior numero possibile di persone attraverso la testata.
Le tre componenti dei modelli di membership per il giornalismo
Secondo la Membership Guide, i modelli di membership nel giornalismo devono essere costruiti attorno a tre componenti principali.
Una strategia di membership che definisce come questo modello si inserisce nella vision dell’organizzazione giornalistica. In che modo l’organizzazione sosterrà il proprio prodotto editoriale? Quale ruolo avranno i membri dell’audience, sia in termini economici sia più in generale?
Le cosiddette memberful routines, ovvero le dinamiche che collegano i membri dell’audience alla testata giornalistica e alle persone che la producono. Fondamentali per una strategia di membership efficace, si riferiscono anche in questo caso ai membri dell’audience in generale.
Un programma di membership, cioè il prodotto con cui il lettore interagisce per diventare membro. È una specie di contenitore per la gestione delle persone che contribuiscono all’organizzazione giornalistica. Quando si parla di membership, solitamente ci si riferisce proprio a questo aspetto, che – per capirci – comprende anche la pagina sulla quale si atterra dopo aver cliccato sulla call to action “diventa membro”.
Non tutte le testate giornalistiche che adottano il modello della membership hanno già sviluppato tutte e tre queste componenti. Inoltre, ciascuna di esse può essere approfondita in modo diverso. Tuttavia, una redazione giornalistica partecipativa e inclusiva che voglia sostenersi almeno parzialmente sulla membership necessita di tutte e tre gli aspetti.
Infine, attenzione: la membership non è per il giornalismo l’unico modello di revenue ed engagement dell’audience. Comprendere le differenti value proposition e resource demand dei diversi modelli di revenue ed engagement è la chiave per capire qual è il modello giusto per la propria comunità e quindi organizzazione.
In cosa i modelli di membership sono diversi dai modelli di abbonamento?
In un modello di abbonamento o subscription, i membri del’audience pagano per avere accesso a un prodotto o servizio. Questo modello richiede quindi solitamente un paywall, poiché ciò che viene monetizzato è l’accesso al contenuto.
L’abbonamento può scalare molto più rapidamente della membership, poiché non necessita di un rapporto più profondo con i lettori. Ciò che richiede è invece un giornalismo eccezionalmente coerente, di alta qualità, altamente differenziato – e una buona user experience.
Per le pubblicazioni altamente specializzate, che forniscono un marcato vantaggio professionale e/o hanno una forte audience istituzionale in settori specifici, l’abbonamento può funzionare bene. Si vedano ad esempio casi come il New York Times, il Wall Street Journal, il Financial Times, il Ken e The Information, ma anche The Athletic.
In cosa i modelli di membership sono diversi dai modelli di donazione?
In un donation model, i membri dell’audience donano il loro tempo o denaro a sostegno di una causa o di valori comuni. Si tratta quindi di una relazione di beneficenza. Molte redazioni utilizzano i termini membro e donatore in modo intercambiabile. Tuttavia, è diversa l’aspettativa di ciò che un sostenitore ottiene in cambio.
Quando si è in dubbio nella scelta tra i due modelli, occorre chiedersi di quale livello di autonomia editoriale dalla propria audience si ha bisogno per compiere la propria missione, così come quale livello di partecipazione si è disposti a offrire.
Per le pubblicazioni che coprono soprattutto questioni inerenti al bene pubblico, un donation model può funzionare bene. Allo stesso modo, questo modello può essere scelto anche quando i temi trattati non si prestano all’adozione del modello di membership o a quello dell’abbonamento. Ad ogni modo, pubblicazioni come ProPublica e Mother Jones (71% delle entrate del 2019 realizzato grazie ai lettori, 12% attraverso l’abbonamento all’edizione cartacea) sono chiari esempi di donation model.
In cosa i modelli di membership sono diversi dal crowdfunding?
In un modello di crowdfunding, i membri dell’audience donano un contributo una tantum per sostenere un progetto specifico.
Solitamente, il crowdfunding è un buon modo per testare l’entusiasmo nei confronti di un’idea e per conoscere meglio il grado di coinvolgimento della propria audience. Alcune organizzazioni, ad esempio La Silla Vacia in Colombia, hanno iniziato proprio con una campagna di crowdfunding come test e in seguito hanno optato per il modello di membership,
In altri casi – ad esempio Krautreporter in Germania e De Correspondent in Olanda – le testate giornalistiche hanno considerato i loro donatori tramite crowdfunding come i primi membri del progetto, passando così immediatamente a un programma di membership.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2020/10/modelli_di_membership_giornalismo_cover.jpg483724Elisa Bertolihttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngElisa Bertoli2020-10-27 10:22:402020-10-28 17:09:46Le membership sono il nuovo modello per i Media, ma quali sono i vantaggi e quando sceglierle?
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