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Amazon, Microsoft e le altre big che hanno scelto il remote working

  • La pandemia ha forzato l’esperimento del remote working
  • Sono stati evidenziati benefici, sia in termini di produttività che di efficienza
  • Sono emerse anche numerose fragilità da colmare in ottica di innovazione

La pandemia da COVID-19 ha spinto la maggior parte delle aziende in tutto il mondo a lavorare da casa. Ad adottare questa modalità di lavoro, con lo scoppio della pandemia, sono state principalmente le imprese più grandi e strutturate (97%) seguite dalla pubblica amministrazione (94%) e dalle PMI (58%).

Certo, è stata una risposta forzata ed emergenziale, dettata più dalla necessità che dalla volontà, ma ha consentito di accelerare un esperimento che ha sempre fatto fatica a guadagnare terreno nel mondo del lavoro. La maggior parte delle aziende, infatti, è sempre stata fedele al concetto di “ufficio” e il remote working ha sollevato sempre molte preoccupazioni sulla produttività e sulla motivazione delle risorse. Uno dei motivi potrebbe essere che il mondo aziendale è ancora composto da tantissimi baby boomers, cioè persone che hanno iniziato a lavorare molti anni prima dell’inizio dell’era digitale.

Ora che il piano vaccinale è iniziato, fino a che punto proseguirà il lavoro a distanza? In realtà le prospettive per il futuro sono ancora estremamente incerte, ma remote e smart working sono ormai entrati nella quotidianità degli italiani e con ogni probabilità sono destinati a rimanerci.

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Il futuro del lavoro secondo l’indagine di Microsoft

Secondo quanto emerso da un’indagine sul “Remote Working e Futuro del Lavoro” di Microsoft, condotta su oltre 600 manager e dipendenti di grandi imprese italiane, il numero di organizzazioni italiane che hanno adottato modelli flessibili di lavoro è aumentato in modo esponenziale, passando dal 15% dello scorso anno al 77% del 2020.

I manager intervistati si aspettano che il 66% dei dipendenti continui a lavorare da remoto almeno un giorno alla settimana, anche dopo la fine della pandemia. In questa “nuova normalità”, infatti, sono stati evidenziati benefici, sia in termini di produttività sia di efficienza: l’87% degli intervistati ha riscontrato una produttività pari o superiore a prima del lockdown e il 71% è convinto che le nuove modalità “ibride” di lavoro comportino significativi risparmi in termini di denaro. Inoltre, sei intervistati su dieci (64%) credono che garantire modalità di lavoro da remoto possa essere un modo efficace per poter coinvolgere collaboratori più qualificati.

Le criticità e le fragilità dello smart working 

Tuttavia, il remote working non ha rivelato soltanto benefici, ma ha fatto emergere anche grosse fragilità, come la carenza tecnologica, non solo delle piccole aziende, ma anche nelle imprese più grandi e strutturate. 

Il 69% delle aziende, infatti, ha dovuto aumentare la disponibilità di strumenti hardware, pc portatili e di strumenti per poter accedere da remoto agli applicativi aziendali, mentre il 45% si è dovuto dotare di strumenti per la comunicazione, come i tool per le videoconferenze (16%). Tre datori di lavoro su quattro, invece, hanno chiesto ai lavoratori di utilizzare i propri dispositivi personali, mentre il 50%, non essendo dotato di tecnologia adeguata, ha dovuto sospendere del tutto l’attività.

Altre barriere difficili da superare sono state: il work-life balance (58%), la disparità del carico di lavoro tra alcuni lavoratori meno impegnati e altri sovraccaricati (40%) e l’impreparazione dei manager (33%).

Ma non solo. Durante la pandemia i datori di lavoro hanno scoperto che, sebbene alcune attività possano essere tranquillamente svolte a distanza, in caso di crisi è molto più efficace il lavoro in presenza. Queste attività includono coaching, la consulenza, l’insegnamento e tutti quei lavori che traggono vantaggio dalla collaborazione, come l’innovazione, la risoluzione dei problemi e la creatività. Ad esempio, genitori e insegnanti affermano che la qualità delle lezioni scolastiche abbiano risentito della pandemia. Senza contare che, più della metà della forza lavoro ha poche o nessuna possibilità di lavorare a distanza: molte attività fisiche o manuali, così come quelle che richiedono l’uso di attrezzature fisse, non possono essere svolte a distanza. Ne sono di esempio l’ambito dei trasporti, la ristorazione, l’edilizia, il settore agricolo.

Molti italiani di tutte le fasce d’età, hanno anche dichiarato di apprezzare l’ambiente lavorativo tradizionale, specialmente per la possibilità di socializzare e condividere esperienze con i colleghi. La ricerca di Microsoft, infatti, ha evidenziato come il lavoro da remoto, se non correttamente gestito, possa inibire la condivisione di idee tra colleghi e porti i dipendenti a essere meno invogliati a chiedere aiuto o a delegare in modo appropriato. 

Per promuovere una cultura del lavoro che favorisca l’innovazione è più che mai fondamentale supportare il management nel superare questi limiti. In quest’ottica le aziende potrebbero muoversi prevedendo fringe benefit diversi da quelli che proponevano quando si lavorava in sede, ad esempio offrendo bonus per acquistare attrezzatura informatica e/o arredo per convertire alcuni spazi della propria abitazione ad ufficio, oppure regalando abbonamenti a palestre, corsi di pilates, yoga e ginnastica posturale a distanza.

Futuro ibrido: tra casa e ufficio

Secondo recenti sondaggi condotti da Global Workplace Analytics, da Cisco e da Microsoft, sia i manager che i dipendenti che hanno apprezzato i vantaggi del lavoro da remoto, non intenderebbero tornare alle vecchie abitudini. 

Remote Working

Dopo le prime difficoltà di adattamento, gli smart worker hanno imparato ad apprezzare i benefici del lavoro agile: il 73% nota di essere molto più efficiente da quando lavora da casa. Inoltre, ha la possibilità di vestirsi in modo più casual (77%) di personalizzare il proprio ambiente di lavoro (39%), di avere più tempo per i propri hobby (49%), per i propri figli (36%) ma anche per gli animali domestici (22%). Per le donne, in particolare, il lavoro a distanza è stata una benedizione mista: un lavoro indipendente, con orari più flessibili, meno stress e minor tempo perso per il pendolarismo. 

I nuovi remote worker non vogliono più rinunciare all’autonomia inaspettatamente acquisita: ben l’87%, sia in Italia, che a livello Emear (Europe, Middle East, Africa e Russia), chiede un futuro flessibile, in cui scegliere liberamente quando e quanto lavorare da casa e in ufficio, aspirando a un mix tra lavoro in presenza e lavoro a distanza.

È vero, più persone che lavorano in remoto significa meno persone che ogni giorno si spostano da casa al lavoro, e ciò potrebbe avere conseguenze economiche significative nell’ambito dei trasporti, della ristorazione, della vendita al dettaglio. Tuttavia, si potranno modificare i modelli di consumo: i soldi spesi per il trasporto, la mensa e il guardaroba potranno essere spostati su altri usi, ad esempio il cibo da asporto, l’acquisto di apparecchiature per ufficio, di strumenti digitali e di dispositivi per la connettività potenziata.

Le big scelgono il remote working

Sono diverse le aziende che hanno scelto la formula del lavoro remoto a lungo termine. Eccone alcune:

  • Adobe

    Adobe è una software house statunitense fondata da John Warnock e Charles Geschke, nota soprattutto per i suoi prodotti di video e grafica digitale, come Photoshop, Illustrator, InDesign, After Effects, Premiere.Piani di lavoro in remoto: Adobe prevede di continuare il lavoro in remoto per alcune sedi fino a Luglio 2021. Il lavoro da remoto e la didattica a distanza hanno costituito un’opportunità per andare oltre i normali risultati del Q3 estivo 2020 che si è chiuso con entrate pari a 3,23 miliardi di dollari (in crescita del 14% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente) e un utile di 955 milioni di dollari (contro i 793 del 2019).

  • Amazon

    Amazon è la più grande azienda di commercio elettronico al mondo, fondata da Jeff Bezos nel 1999 e si occupa della vendita di libri, DVD, CD musicali, software, videogiochi, prodotti elettronici, fumetti, abbigliamento, mobilia, cibo, giocattoli e altro ancora.

    Piani di lavoro a distanza: i dipendenti le cui posizioni consentono loro di lavorare da casa possono farlo fino a Giugno 2021. Attualmente esistono offerte di lavoro da remoto che si rivolgono a persone preparate a lavorare online, con precedenti studi o esperienze in ambiti specifici. Inoltre, sono previsti nella maggior parte dei casi dei percorsi di formazione e lavoro per agevolare l’inserimento in azienda.

  • Facebook

    Facebook è la famosa rete sociale statunitense fondata da Mark Zuckerberg nel 2004, che attualmente controlla i servizi di rete sociale Facebook e Instagram, il servizio di messaggistica istantanea WhatsApp e sviluppa i visori di realtà virtuale Oculus Rift.

    Piani di lavoro a distanza: Facebook consentirà al personale di lavorare da remoto fino a Luglio 2021, riconoscendo un bonus di 1.000 dollari in aggiunta al normale stipendio così da poter far fronte all’acquisto di nuovi dispositivi, arredo da ufficio o per i servizi di connettività.

  • Mastercard

    Mastercard è una società mondiale di transazioni, elaborazione dei pagamenti e consulenza fondata nel 1966 da un gruppo di banche.

    Piani di lavoro a distanza: Mastercard consentirà ai propri dipendenti di lavorare da casa fino a quando i timori di COVID-19 non si placheranno e le persone potranno sentirsi a proprio agio negli uffici.

  • Microsoft

    Microsoft è un’azienda di informatica multinazionale fondata da Bill Gates e Paul Allen nel 1975, che sviluppa, produce e commercializza software per computer, elettronica di consumo e personal computer.

    Piani di lavoro da remoto: Microsoft consentirà di lavorare da casa fino a fine gennaio 2021. Come altre aziende, tra cui Facebook e Twitter, però, ha già abbracciato la strada dello smart working permanente post-pandemia, optando per una soluzione ibrida, che prevederà il lavoro da remoto per meno del 50% delle ore settimanali.

  • PayPal

    PayPal è la società statunitense di tecnologia finanziaria, fondata nel 1999, che consente ad acquirenti e venditori di condurre transazioni online in sicurezza.

    Piani di lavoro da remoto: in Paypal, la possibilità di usufruire dello smart working, veniva già data in tempi non di emergenza. Attualmente, la società intende proseguire il lavoro a distanza fino al termine del primo trimestre del 2021. Alla fine del 2020 ha persino costruito un ufficio virtuale per sostenere il lavoro da remoto dove, durante le festività, ha ospitato una festa globale di 29 ore per i suoi 25.000 dipendenti, ricca di concerti, spettacoli di magia, lezioni di cucina, tutorial di origami, lezioni di ballo, lotterie e diverse esibizioni di drag.

     

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  • Salesforce

    Salesforce.com è un’impresa statunitense di cloud computing fondata nel 1999 a San Francisco e operativa in 36 paesi del mondo.

    Piani di lavoro a distanza: i dipendenti di Salesforce hanno la possibilità di lavorare da casa almeno fino ad Agosto 2021. L’azienda ha anche ampliando i vantaggi del lavoro a distanza per i suoi dipendenti, dando a ogni persona $250 per l’acquisto di forniture per ufficio per le loro case, in aggiunta ai $250 erogati all’inizio del 2020. I genitori hanno anche la possibilità di aggiungere sei settimane di ferie retribuite.

  • Shopify

    Shopify è una società di e-commerce canadese fondata nel 2006, che fornisce una piattaforma di commercio multicanale basata su cloud, per progettare, organizzare e gestire negozi su vari canali di vendita.

    Piani di lavoro da remoto: a Maggio 2020 Shopify ha annunciato la chiusura definitiva degli uffici fino al 2021, dopodichè la maggior parte dei dipendenti lavorerà da remoto su base permanente.

 

  • Twitter

    Twitter è un servizio di notizie e microblogging fornito dalla società Twitter, Inc., fondata a San Francisco nel 2007, che consente alle persone di pubblicare messaggi e interagire istantaneamente con altri in tutto il mondo.

    Piani di lavoro da remoto: i dipendenti di Twitter potranno lavorare da casa in modo permanente, andando in ufficio solo se e quando lo desiderano.

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Conclusioni

Le organizzazioni si stanno attrezzando per tradurre le nuove abitudini e aspettative dei lavoratori in un nuovo approccio al lavoro. Una grande impresa su due interverrà sugli spazi fisici al termine dell’emergenza (51%), differenziandoli (29%), ampliandoli (12%) o riducendoli (10%). Il 38%, invece, ne cambierà le modalità d’uso.

Il 36% delle grandi imprese digitalizzerà i processi. Ben il 70% di chi ha un progetto di lavoro agile aumenterà le giornate in cui è possibile lavorare da remoto, passando da un solo giorno alla settimana prima della pandemia a una media di 2,7 giornate a emergenza conclusa. Il 17% agirà sull’orario di lavoro.

Solo l’11% tornerà a lavorare come prima. 

«La ricerca dice che non si torna più indietro», commenta Michele Dalmazzoni, Collaboration and Industry Digitization Leader, Cisco Emear South. «Certo non in questo modo rigido imposto dalla pandemia, ma in termini flessibili. Le aziende stanno ripensando gli spazi di lavoro, un nuovo workplace ibrido tra chi è in presenza e chi partecipa a riunioni da remoto. Ci si sta focalizzando su come abilitare i remote worker con tutti gli strumenti di collaborazione possibili e ci si chiede se sia sempre necessario andare dall’altra parte del mondo per fare un collaudo, quando si possono usare tool di realtà aumentata abilitati dalle piattaforme digitali. Insomma, a tutti i livelli si sta scoprendo che c’è un modo per fare le cose anche a distanza e le potenzialità delle piattaforme collaborative stanno avendo un impatto sociale enorme».

i social network e la censura

Se i social media diventano editori: il pericolo della censura. Intervista ad Alberto Mingardi

Cosa sta accadendo nel mondo dei social media? La recente decisione di Facebook e Twitter di bannare il presidente degli Stati Uniti uscente, Donald Trump, come fosse un utente qualsiasi, è una scelta che sembra andare ben oltre gli “standard della community” e crea un precedente preoccupante. Ne abbiamo parlato con Alberto Mingardi, direttore dell’Istituto Bruno Leoni, professore associato di Storia delle Dottrine Politiche all’Università IULM di Milano e autore di “Contro la tribù – Hayek la giustizia sociale e i sentieri di montagna”.

I nuovi media sostituiranno i social tradizionali?

Può un social network censurare le idee? Il caso Trump apre interrogativi sul potere della tecnocrazia ed accendo il dibattito. Quale saranno gli effetti futuri? Assisteremo ad una fuga degli utenti verso i media emergenti?

«La censura di Trump crea un doppio cortocircuito. Equipara di fatto i social network agli editori tradizionali, scegliendo di non dare voce a un utente, esattamente come farebbe l’editore di un quotidiano – sottolinea Alberto Mingardi – L’interrogativo attuale, a fronte  delle problematiche in cui sono coinvolti, tra cui i diritti di copyright, a difendersi sostenendo di non essere editori, d’ora in avanti? Dall’altra, mette in crisi coloro che hanno sempre denunciato i social perché sottratti alla regolamentazione pubblica: Twitter e Facebook si sono, letteralmente, autoregolati. L’espulsione di Trump è un atto eclatante ed apre un dibattito che si svilupperà a lungo».

censura sui social media

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Le Big Tech, nate come espressione del libero mercato, sembrano ormai legate indissolubilmente ai decisori politici, tanto da fornire output non desiderabili, tali da far fallire le proprie stesse premesse. Il risultato è un conglomerato di potere, più vicino alle logiche del crony capitalism che del free market.

Parler in crescita

Alla censura in atto su Twitter e Facebook si è unita l’offensiva contro Parler da parte di Google e Apple (con la rimozione dell’App dai rispettivi store online) e di Amazon dai propri server. La fuga degli investitori, testimoniata dai crolli in borsa delle piattaforme, si tradurrà anche in una fuga degli utenti verso piattaforme alternative? In una logica di libero mercato l’ipotesi diventa realistica, nel momento in cui altri player saranno in grado di offrire servizi altrettanto interessanti. Anche se lo scoglio resterà sempre il solito: la massa critica di persone che andranno ad animare una nuova piattaforma e quanto il valore aggiunto di quest’ultima verrà percepito dagli utenti, sempre più polarizzati in “tribù” distinte e impermeabili tra loro.

«Twitter e Facebook ci ricordano tutti i giorni come sia cambiato Internet – continua Mingardi – Speravamo fosse uno spazio aperto, nel quale potesse svilupparsi un dibattito più razionale e sereno, invece i social replicano, in certi casi inasprendola, la tribalizzazione anche politica che si riscontra nelle nostre società. Il cerchio delle cose che leggiamo si restringe. Gli algoritmi dei social media aiutano ciascuno di noi a costruire la propria echo-chamber, impermeabile a qualsiasi contaminazione di altre opinioni».

censura su Trump

Alberto Mingardi

Professor Mingardi, l’assenza di dibattito radicalizza ogni utente sulle proprie posizioni? La comfort zone dei propri amici diventa quella del proprio algoritmo di gradimento.


«La frequentazione assidua di queste piattaforme rinforza le convinzioni di ogni utente, un po’ come un tempo si faceva comprando in edicola l’Unità e il Giornale. Solo che qualsiasi quotidiano, anche il più schierato, è plurale negli argomenti trattati: nei media tradizionali c’era sempre l’articolo di cricket in un magazine stampato per gli appassionati di calcio.

Nel nuovo mondo polarizzato, alcune tribù hanno avuto più successo di altre, come nel caso di quella dei sostenitori di Donald Trump nel 2016. Quattro anni fa nessuno o quasi si sarebbe aspettata l’elezione del candidato repubblicano, che aveva costruito un grande seguito su Twitter (memorabile la sua battuta al raggiungimento del milione di follower: “È come avere il New York Times, senza pagare per il suo bilancio in dissesto”). La sua lezione non è stata sprecata e nel frattempo anche i democratici si sono messi al lavoro per recuperare terreno. La comunicazione politica è diventata così sempre più aggressiva, intollerante, tribale».

censura dei social media su Trump

Riconoscere una fake news

Le fake news bastano a censurare il post di un account privato. Chi decide e come si riconosce una notizia fake?
«Quando ti metti a definire una fake news non ne esci più. Cos’è realmente? Alcune sono evidenti, altre meno. Dove comincia la “balla” e dove inizia l’opinione? È un lavoro che possono fare i fact checkers, ma anche costoro debbono crearsi una reputazione “sul mercato”: guai se diventano censori ufficiali.
Le misure di contrasto alle fake news riprendono anche un po’ il target dei social, riflettono gli utenti: FB, che è più popolare e trasversale ha lasciato più libertà di circolazione delle idee rispetto a Twitter, che ha filtri più coerenti con la sua base utenza».

Serve una normativa? Molti decisori politici invocano un provvedimento che ponga limiti allo strapotere delle piattaforme social.
«Regolare decisioni arbitrarie di soggetti privati, come le Big Tech, con le decisioni, altrettanto arbitrarie, della politica e della legge? Forse non è la soluzione migliore. Bisognerebbe scommettere sulla diversificazione e sul mercato: se le persone non si troveranno bene in una piattaforma, migreranno in un’altra piattaforma, quando qualcuno proporrà loro offerte alternative e altrettanto credibili. Si pensi alla crescita di Linkedin, che è una specie di porto sicuro dalle polemiche più urlate. Vedremo come evolverà Parler, ora che Twitter ha cacciato Trump».

censura dei social media

I social media diventano editori proprio nel momento in cui la fiducia nei media tradizionali è al minimo storico.


«L’assenza di fiducia nei media tradizionali non per forza è un fatto positivo: le grandi testate hanno anche una funzione di scrematura dei punti di vista, l’opinione di mio cugino vale meno di quella del fondo del Wall Street Journal. Si presume che chi scrive per queste testate abbia una capacità di analisi maggiore. I grandi media hanno la funzione di dirti che ci sono cose che meritano la prima pagina e altre che stanno bene a pagina 25, una funzione preziosa, ben diversa dalla home di un social, che invece è basata su una scala di importanza personalizzata per i gusti di ciascuno di noi.

La crisi dell’editoria, e dei media tradizionali in generale, ha portato questi editori a motivare la propria tifoseria, tribalizzando a loro volta l’informazione: solo un altro modo per tamponare l’emorragia di lettori e ascoltatori, una strategia che tuttavia non sembra funzionare molto. Quello delle tifoserie è un gioco che, ad esempio, è stato chiaro per tutto il 2020 con l’isterismo pandemico, alimentato dai media tradizionali in una rincorsa perversa agli umori dei social».

censura

Attrarre l’audience

Il problema dell’autorevolezza, non riguarda solo i media ma anche la comunicazione politica. La pazienza delle persone è poca, l’intrattenimento è tutto: tempo una frazione di secondo si deve decidere se scrollare la home o soffermarsi su un tema.

«La comunicazione politica dovrebbe portare a conoscere qualcuno che mi somiglia ma che, per preparazione su certi temi e capacità, è meglio di me. Questo era il vecchio approccio: attualmente, nella sfiducia generalizzata, la gente si accontenta di intrattenimento: se lo show è divertente mi accontento, anche se i protagonisti non sono migliori di me e forse sono perfino peggio.

Il problema è che finché concedo il 5% del Pil all’intrattenimento (cinema, teatro, Netflix…) la situazione rientra nella normalità, ma se noi scegliamo i politici come in base alle loro doti di entertainment, stiamo scegliendo persone, sulla base di questo criterio, per affidargli metà del PIL; questa eventualità, che si sta concretizzando nelle nostre società attuali, diventa un problema.

Alberto Mingardi, Contro la tribù

Alberto Mingardi, Contro la tribù: Hayek, la giustizia sociale e i sentieri di montagna, Alberto Mingardi, Marsilio, 2020

La narrazione mainstream è ormai un “framing” preciso che esclude ogni altra “versione dei fatti”, censurandola dalla storia ed escludendo ogni revisionismo? 

C’è sempre una realtà, tra le tante possibili, che diventa mainstream a discapito di altre. Eppure non sempre la versione che sopravvive è anche la più aderente ai fatti. Prendi l’esempio del Titanic: uno sceneggiatore del film di James Cameron trovò che un banchiere, a bordo, era rimasto sulla nave che colava a picco citando il posto al suo maggiordomo. Ne discussero con il regista e gli altri autori ma scelsero di non inserirlo nel film. Perché? Forse perché erano convinti che le persone non si sarebbero appassionati alla vicenda, forse perché gli sembrava troppo strano che un riccone potesse essere anche una persona animato da tanto spirito di sacrificio. In un caso o nell’altro, vediamo un approccio ideologico magari non “scelto” apertamente ma senz’altro pervasivo e penetrato a fondo nelle nostre società».

A proposito di Hollywood: in prima fila, nelle proteste contro Trump, artisti, intellettuali, influencers e celebrità. Sembra cambiato poco da fine anni ’60, quando contro Nixon iniziò una vera e propria rivolta, capeggiata dalle star.

«Gli artisti, gli intellettuali da sempre sono stati “contro” il potere costituito, offrendo spesso una visione alternativa, ma la cose dai tempi di Nixon sono cambiate moltissimo: le proteste di ieri hanno gettato le fondamenta culturale dell’establishment di oggi. Molto spesso la ribellione è di maniera e in realtà perfettamente coerente con presupposti ideologici comunemente accettati, soprattutto nel mondo della comunicazione e dello showbiz. C’è un conformismo dell’anticonformismo».

Trump

Abbiamo citato Parler che, come altre piattaforme, si sta affacciando nel mercato dei social media. Se la soluzione non può arrivare dallo Stato, dovrà arrivare giocoforza dal mercato: nuove applicazioni, oppure…

«La mia proposta è far pagare la gente per scrivere. Un piccolo pedaggio. Sembra una proposta scandalosa e irricevibile ma se ci pensi non lo è: un tempo il costo per comunicare le proprie idee, o mandare a quel Paese qualcuno era alto. Se avevi un reclamo da fare a un’azienda, ad esempio, dovevi prendere carte e penna e perdere tempo e soldi per la spedizione della lettera. Oggi il costo di una comunicazione di questo tipo è irrisorio, il tempo di due minuti per scrivere un tweet; l’utente consumatore si ritiene invincibile e spesso comunica alle aziende con una certa aggressività, pretendendo risposte esaustive e in tempo reale. Per non dire dei commenti agli articoli di giornale: una sfilza di vaffa, neanche troppo infiorettati. Ma questa veemenza perché non viene utilizzata nei confronti degli operatori pubblici? Perché sui social media e online si trasferiscono le nostre aspettative della realtà: dalle aziende private e dai brand ci aspettiamo efficienza, mentre nei confronti dello Stato non abbiamo aspettative, perché siamo già abituati alla sua inefficienza. Insomma, e se tornassimo a fare pagare alla gente il francobollo?».

USA, Xiaomi nella blacklist e il titolo crolla in borsa a Hong Kong

Xiaomi, la big tech dell’elettronica cinese, terza al mondo nella produzione di telefoni cellulari, crolla in borsa ad Hong. A soli sei giorni dall’abbandono della Casa Bianca, l’ultimo atto del presidente uscente degli Stati Uniti, Donald Trump, che inserisce Xiaomi nella lista nera, designandola come “compagnia militare cinese comunista”.

Xiaomi nella blacklist USA

xiaomi ban di trump

Il Dipartimento della Difesa USA ha comunicato, infatti, che il colosso cinese rientra in una nuova lista di aziende contro le quali gli Stati Uniti imporranno specifiche restrizioni, con l’ordine per società e investitori statunitensi di disinvestire in Xiaomi entro l’11 novembre.

L’intervento di Biden potrebbe ribaltare la decisione, ma sorprende al momento la presenza di un’azienda elettronica come Xiaomi nella lista nera, inclusa tra i nove nomi di società evidenziate dal Dipartimento della Difesa, molto più orientate all’industria specializzate in aviazione, aerospaziale, cantieristica navale, chimica, telecomunicazioni, edilizia e altre forme di infrastruttura.

Anche Huawei, il secondo produttore di telefoni al mondo, è sulla lista, ma in quanto costruttore di apparecchiature di telecomunicazione su larga scala.

Immediata la replica di Xiaomi e il portavoce dell’azienda ha affermato di:

Operare in conformità con le leggi e i regolamenti pertinenti delle giurisdizioni in cui svolge le proprie attività. Non è di proprietà, controllata o affiliata all’esercito cinese, e non è una compagnia militare cinese comunista.

Al vaglio anche le conseguenze economiche e il riflesso in termini di immagine della disposizione USA, prima di intraprendere qualsiasi azione.

Xiaomi

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La Bigtech potrà utilizzare Android e Google Play

Se Huawei è nella “Entity list”, ovvero l’elenco delle entità del Dipartimento del Commercio statunitense che impedisce all’Usa di esportare tecnologia ad aziende inserite nella lista nera, evitando qualsiasi collaborazione,  Xiaomi invece fa parte del gruppo che vieta investimenti diretti. Questo significa che Xiaomi non perde la possibilità di utilizzare Android, Google Play o chip Qualcomm (a differenza di quanto accaduto a Huawei), ma al tempo stesso le aziende USA che hanno quote in Xiaomi saranno costrette a rivedere le proprie posizioni.

Il Dipartimento del Commercio si sta muovendo per impedire a sei interi Paesi, designati come “avversari stranieri”, di fornire apparecchiature di comunicazione agli Stati Uniti, inclusi Cina, Russia, Iran, Corea del Nord, Cuba e il governo del venezuelano Nicolás Maduro.

Essere vegani, dai social alla tavola: la ricerca di TheFork ispirata al Veganuary

A pochi giorni dall’inizio della challenge Veganuary, che ogni gennaio incoraggia le persone a seguire uno stile di vita vegano per un mese, TheFork, l’app leader per la prenotazione dei ristoranti online a livello globale, ha coinvolto la sua community in un sondaggio dedicato a questa scelta alimentare. Il 19% dei rispondenti ha dichiarato di conoscere l’iniziativa e di questi l’8,5% ha aderito dal 1° gennaio. Il 27% degli utenti che invece ne hanno appreso attraverso il sondaggio, hanno dichiarato che avrebbero partecipato a seguito del questionario.

Veganuary e dieta vegan: il ruolo dei social media

L’importanza che l’alimentazione vegan sta assumendo nella dieta di molte persone d è testimoniata non solo dalle adesioni record del Veganuary 2021 (500.000 nella prima settimana), ma anche dall’ampia conversazione che esiste circa l’argomento sui Social Media. Basti pensare che su Instagram le menzioni per l’hashtag #vegan superano i 105 milioni e quelle per #veganuary sono più di 1 milione. Diversi personaggi noti sono diventati ambassador della dieta vegana, da volti più internazionali come Joaquin Phoenix, Ariana Grande e Miley Cyrus, fino a star italiane come ad esempio Simona Ventura, Paola Maugeri o ancora Anna Oxa. I dati raccolti da TheFork lo confermano: il 30% sostiene di aver approfondito la propria sul veganesimo grazie ai Social Media.

I motivi principali per la scelta di una dieta vegana

Se i social media rappresentano una fonte di conoscenza del veganesimo, le motivazioni principali di chi sceglie uno stile alimentare vegan sono: la salvaguardia degli animali, la riduzione del proprio impatto ambientale sul pianeta e infine motivi di salute. Il 34% dei rispondenti ritiene infatti questo tipo di alimentazione più sana.

Le tipologie di ristoranti più apprezzati

Se invece si parla di ristoranti ad attrarre maggiormente gli utenti sono quelli che offrono una cucina vegetariana (71%), vegana (17%) o la meno nota crudista (6%), ossia una dieta che prevede il consumo di soli alimenti crudi.

Vegano ma non solo, qualche indirizzo di TheFork

La Luce, Poianella di Bressanvido, (VI) – Orto di famiglia, agricoltori locali e cucina naturale. La Luce è un ristorante dai sapori autentici in cui scoprire il vero gusto delle ricette vegetariane e vegane. Questo ristorante offre il servizio di consegna a domicilio. Puoi ordinare chiamando direttamente da TheFork.

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Selezione Naturale, Torino – “Fruit, music and vegetable”. Queste tre parole ben descrivono l’atmosfera di Selezione Naturale, un ristorante completamente dedicato alla materia prima, che viene rigorosamente da produttori locali, e alla cucina vegetariana e vegana. Questo ristorante è aperto a pranzo e offre servizio di consegna a domicilio e asporto.

L’OV – Osteria Vegetariana, Firenze – Prendete i migliori piatti della tradizione toscana e uniteli al gusto di una cucina vegetale. Otterrete così la prima osteria vegetariana di Firenze: ambiente moderno e di design e un menù tutto da provare. Questo ristorante è aperto a pranzo.

Solo Crudo, Roma – “Raw cooking and gentle cooking”, cucina cruda e gentile. Cosa significa? Che i piatti di questo ristorante sono crudi oppure preparati con cotture particolari. Il risultato? Un menù gustoso, sano e davvero originale. Questo ristorante è aperto a pranzo.

Lo Famo Sano, Pomigliano d’Arco (NA) – Un nome ironico ma sicuramente evocativo. Da Lo Famo Sano il menù è interamente vegetariano e vegano, composto da piatti preparati con la materia prima locale e soprattutto con creatività. Questo ristorante è aperto a pranzo.

streetwear

ABC dello Streetwear Marketing: chi, come, dove

  • Lo Streetwear vale 185 miliardi di dollari (PwC 2019) e rappresenta il 10% del fatturato totale di Apparel & Footwear
  • Il target è prevalentemente giovane, uomo e per il 60% asiatico
  • Per raggiungerlo, Instagram e YouTube si accompagnano a forum di settore e piattaforme di resell
  • Con il “drop” model, lo Streetwear si assicura consumatori disposti a un forte effort di tempo o denaro

Ormai non si può più ignorare né relegare a sotto-cultura: lo Streetwear è un segmento sempre più importante per il mondo del fashion. Secondo le stime più attuali di PwC (2019) è un settore che vale 185 miliardi di dollari, circa il 10% del totale del fatturato Apparel & Footwear.

Ma al di là dei dati quantitativi, se ci si guarda intorno è facile accorgersi di quanto lo Streetwear sia sempre più in vista. Dalla collaborazione di Louis Vuitton e Supreme (quella che forse ha avuto più risonanza) a quelle di Prada, Valentino, Gucci con i vari stilisti più spallati nel settore. Si potrebbe quasi parlare di Streetwear washing. Sembra quasi che per “svecchiarsi” e raggiungere la Gen Z, sia i grandi gruppi (LVMH, Kering) sia le varie maison siano disposte a perdere un po’ di allure borghese per riconvertirsi a un nuovo concetto di esclusività.

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L’ABC dello Streetwear Marketing: chi, come, dove. I protagonisti, il target e il marketing dello streetwear

Oggi vogliamo capire chi sono i protagonisti (who, chi è leader nel settore), chi il target (whom, a chi si rivolgono i brand), come (how, il marketing) e dove (where, con quali formule retail) lo fanno.

I protagonisti

Ricordo il momento in cui ho colto l’importanza dello Streetwear per il settore, ed è stato quando ho visto il video di Fedez che presentava a Barengo la sua collezione infinita di capi streetwear. Con un semplice logo, un capo Supreme può terminare nel giro di poche ore, essere rivenduto nel resale market passando da un valore di 158$ a un minimo di 500$ (Hypebeast, PwC 2019).

Ecco perché di fronte ai grandi del settore fashion, iper logati e dunque iper riconoscibili (Louis Vuitton, Gucci, Burberry) si stanno facendo sempre più spazio altri brand, più giovani, rivolti a un target più ampio e inclusivo e meno legati a una tradizione storica importante.

In principio erano Stussy e Supreme (lo racconta molto bene qui Federica Salto). Oggi c’è una batteria di brand provenienti da tutto il mondo (il Giappone è un’area molto profilica) pronti a conquistare una folla di millennial e zoomer in cerca di “esclusività”.

Senza voler indugiare troppo sulla storia dello streetwear nella moda (per cui anche quest’altro articolo di Federica Salto può funzionare da bussola), vediamo quelli che sono i leader del settore. Per farlo, facciamo riferimento al Brand Ranking di Hypebeast, che nell’ultimo report con PwC ha elencato le seguenti preferenze (su una coorte di 40.000 partecipanti):

  • Supreme (78%)
  • Nike (68%)
  • Off White (65%)
  • Adidas (45%)
  • BAPE (37%)
  • Stussy (33%)
  • Palace (28%)
  • Carhatt (22%)
  • Vetements (22%).

La classifica, che è stata stilata chiedendo ai partecipanti di indicare quale brand rappresentasse di più lo streetwear, riflette tutto sommato quello che è stato lo storico (Supreme si può effettivamente considerare come il primo vero brand di Streetwear comunemente inteso) e le spinte del settore (il Footwear – main ambito di Nike e Adidas – è effettivamente un segmento trainante).

Il target dello Streetwear Marketing: 1 consumatore su 5 è donna

Il pubblico dello streetwear è abbastanza omogeneo. Vi è, come facile intuire dal tipo di prodotto, una preponderanza maschile (81% versus 18% – il restante è non-binary). Ma se già oggi quasi 1/5 dei consumatori è donna, non è difficile prevedere che tale segmento possa crescere ancora. Le collaborazioni con i grandi marchi e lo stile no-gender potrebbero essere la chiave di volta per allargare ancora di più il bacino di affezionate.

Forse non acquirenti, ma consumatori giovanissimi

Volgendo l’attenzione all’età, si ritrova una concentrazione del target attorno alla fascia di età 16-25, un cluster che contiene circa il 60% del totale dei consumatori del genere. Il restante 40% è suddiviso in 26-30 (18%), 31-15 (10%) e over 35 (7%).

Una prima riflessione che viene naturale fare è che nonostante il prezzo degli item sia discretamente alto, la maggior parte dei consumatori è giovanissimo. D’altronde, una delle prime cose che si insegna ai futuri markettari è che non sempre il consumatore finale è il decisore o l’acquirente.

Streetwear Marketing_fila_supreme

In fila per Supreme: il target tipo. Giovani, uomini e disposti ad aspettare. Fonte: New York Times

Made in America, ma nel cuore di Coreani e Cinesi

Dal punto di vista geografico, se si pensa che lo Streetwear ha avuto origine negli USA ci si troverà un po’ confusi di fronte alle statistiche sulle nazionalità: al primo posto ci sono Corea e Cina (insieme al Giappone compongono circa il 60% del totale dei consumatori), seguiti da Europa (20%) e Nord America (14%).

Perché lo streetwear è così forte in Asia

Per rimettere assieme i pezzi e capire il perché di questa forte preponderanza Asian ci sono diversi fattori da considerare, primo tra tutti il fatto che il Giappone sia casa di diversi marchi del settore – BAPE tra i più popolari.

Secondariamente, una riflessione va mossa rispetto a tutto quello che lo streetwear rappresenta e per chi lo fa. Da un punto di vista socio-politico, offre ai giovani consumatori un’uniforme (il cui concetto torna) tramite la quale comunica il proprio punto di vista politico: sovversivo per il 41% dei consumatori cinesi e giapponese.

Da un punto più culturale, invece, lo streetwear offre una sorta di cartellino lampeggiante che comunica appartenenza ad un élite. Come vedremo poco qui sotto, lo streetwear marketing altro non è che esclusività e criterio della scarsità: tutti vogliono un accessorio in edizione limitata per poter dire Io lo possiedo. In mercati in via di espansione e in cui l’individualismo è un concetto del tutto nuovo e tende a camuffarsi nel contrario collettivismo (oltre Muraglia in maniera esemplare), poter dire di far parte di un gruppo – ristretto – è tutto quello che un giovane consumatore possa volere.

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Streetwear Marketing: le 4P dei brand

Se analizzare dal punto di vista strategico l’intera proposta di marketing dello streetwear non è possibile in poche righe, individuare elementi comuni a tutti i brand lo è. Prendendo come punto di partenza il marketing mix come composto da Product, Promotion, Place e Price, si possono evidenziare i seguenti capisaldi.

I prodotti top dello streetwear

Il report di PwC ha indigato sia dal punto di vista delle aziende che dei consumatori quali sono i prodotti top. All’interno dell’industry il tre segmenti più performanti sono le felpe (67%), le tshirt (67%) e il footwear (66%). Parallelamente, se si chiede ai consumatori di indicare quale sia il prodotto che più probabilmente compreranno il footwear (62%) ha la meglio su tutto, confermando la strategia delle aziende.

Dai forum a Instagram: la comunicazione dello streetwear

Quando si parla di streetwear si parla di nuove generazioni, quando si parla di nuove generazioni si parla di community social.

A partire dai primi anni 2000, prima dell’avvento di Facebook & Co, si sono sviluppati una serie di Forum frequentati dai cultori dei brand (NikeTalk, Strictly Supreme, etc) e incentrati sullo scambio di informazioni in merito ai prossimi drop e luoghi di compravendita dei prodotti. Evidentemente, il tipo di presidio di questi mezzi era squisitamente gestito dall’utente.

I forum sono un importante touchpoint passivo per i brand, all’interno dei forum è tutto UGC e le potenzialità di marketing riguardano quasi solo esclusivamente il social listening.

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Col tempo questo tipo di forum si è trasferito sui social media che oggi sono anche il punto di incontro tra target e brand. Da un lato ospitano le vecchie community (Facebook in particolare), da un lato offrono ai marchi la vetrina per comunicare con i consumatori.

Oggi, alla domanda “su quale piattaforma ti informi”, le persone rispondono quasi tutte Instagram (96%), seguito da YouTube (42% – il canale di Barengo è un case study esemplare). E questo non fa altro che rendere il bacino di consumatori potenzialmente più ampio: se prima occorreva visitare forum di nicchia per venire a contatto di un marchio street, oggi basta avere un account Instagram. Prima o poi il logo di Supreme ci colpirà: la nicchia non è più tanto nascosta.

Flagship store, modello “drop” e resale: le chiavi dello Streetwear Marketing

Quando si pensa allo Streetwear, uno dei primi ricordi top of mind sono le file infinite alle porte dei flagship store. I flagship store sono per diversi brand il principale punto di contatto e di vendita coi consumatori. Il dato di PwC ne conferma il rilievo, con il 60% delle aziende che lo indica come “parte importante della brand strategy” e un ulteriore 25% a definirlo “abbastanza” importante.

D’altra parte, ci sono anche brand che puntano solo sul digital, come Anti Social Social Club o Brain Dead, che vendono esclusivamente online. Una scelta che in maniera lungimirante riduce i costi per l’azienda e che in epoca Covid è sicuramente premiante (tra pochi mesi potremo anche dire quanto, dati alla mano).

Il “drop model”

Che poi sia digital, quello che accumuna queste scelte è la strategia di fondo: il modello “drop”. Tale modello ha avuto origine con James Jebbia, che ispirato da quello che facevano i brand in Giappone, ha suggerito di replicarlo per i suoi brand, prima con Stussy (co-fondato con Stussy stesso) e poi con Supreme. Oggi i drop rendono i consumatori più inclini a visitare lo store più spesso e attenti alla comunicazione del brand. A proposito delle code di fronte al negozio e di drop, il 54% degli intervistati di PwC ha dichiarato di essere disposto ad aspettare in fila per accaparrarsi un pezzo.

Croce e delizia dello Streetwear Marketing: il resale

Chi non è disposto ad aspettare, molto probabilmente sarà disposto a comprarlo a un prezzo più alto su e-commerce specializzati nella rivendita dei prodotti second-hand.

Il 70% dei consumatori ha acquistato circa un quarto dei propri prezzi in resale e sebbene questo possa sembrare a prima vista un inconveniente lato brand, per diversi motivi non lo è totalmente: il 69% delle aziende trova il resale un modello di business da valutare.

Ma soprattutto, il resale è un barometro concreto della domanda del mercato. Il decuplicare dei prezzi e la costante presenza di un target disposto a strapagare il prodotto è il più chiaro indice di apprezzamento e fidelizzazione dei consumatori. Che, o sono disposti a un effort di tempo facendo la fila al negozio (i medio-basso spendenti), o sono disposti a un effort di denaro ricomprando su StockX, Grailed o sui vari gruppi Facebook e nei forum di settore (alto spendenti).

E in Cina?

Poco più sopra si è parlato della forte connotazione asiatica del target dello streetwear. La maturità del segmento di consumatori è comparabile a quella del positioning dei brand nella Country? Con il prossimo articolo scopriremo status quo del più grande segmento luxury emergente nel più grande mercato emergente attuale, la Cina.

La crescita esponenziale di Amazon nell’ultimo anno: dalle assunzioni alle vendite

  • La pandemia per Amazon ha segnato una crescita imprevedibile delle vendite e a queste è seguita la creazione di nuove opportunità di lavoro
  • Durante l’ultimo anno l’azienda sembra aver aggiunto una media di circa 1.400 nuovi membri del personale al giorno, spingendo la sua forza lavoro a più di 1,2 milioni di persone a livello globale

 

La crisi occupazionale data dalla pandemia non ha colpito Amazon, che durante l’ultimo anno sembra aver aggiunto una media di circa 1.400 nuovi membri del personale al giorno, spingendo la sua forza lavoro a più di 1,2 milioni di persone a livello globale (oltre il 50% rispetto all’anno precedente). 

Queste nuove opportunità di lavoro sono state destinate a persone con ogni tipo di esperienza, istruzione, livelli di competenza e non hanno riguardato solo magazzinieri, addetti a prelievo, imballaggio e spedizione della merce, autisti, ma anche responsabili dello sviluppo di software, della logistica, delle risorse umane, del customer care e dell’IT.

Ci sono state opportunità di impiego anche per il personale senza esperienza, che è stato adeguatamente formato ed inserito in azienda. Amazon, infatti, offre l’opportunità di beneficiare di percorsi formativi per accedere a diverse professioni. I numeri, invece, non includono i 100.000 lavoratori temporanei che sono stati reclutati per la stagione degli acquisti natalizi e i 500.000 corrieri (non sono dipendenti diretti di Amazon).

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Cosa offre Amazon ai propri dipendenti?

I nuovi posti di lavoro offrono una retribuzione competitiva, opportunità di crescita professionale, e un pacchetto completo di benefit, tra cui l’assicurazione sanitaria privata contro gli infortuni e sconti per acquisti sul sito. 

Amazon offre ai propri dipendenti anche sedi all’avanguardia ed un ambiente di lavoro sicuro: tra aprile e giugno sono stati investiti circa $4 miliardi per iniziative legate al COVID. Per tutelare i dipendenti, sono stati introdotti oltre 150 cambiamenti di processo tra cui una maggiore frequenza delle pulizie e della sanificazione, il mantenimento della distanza di sicurezza, il controllo della temperatura e la distribuzione di sistemi di protezione individuale. Sono state sospese tutte le riunioni, tutta la formazione viene effettuata in modalità webinar ed è stata rivista l’organizzazione delle pause e dei processi di ingresso e uscita dagli edifici.

Offrire posti di lavoro con una retribuzione leader del settore e un’ottima assistenza sanitaria è ancora più significativo in un momento come questo.

ha sottolineato Jeff Bezos, fondatore e CEO di Amazon.

 

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Inoltre, Amazon ha stanziato anche 500 milioni di dollari come bonus natalizio per tutti dipendenti della logistica, per il lavoro straordinario dovuto all’emergenza. Ad esempio, in Italia, i dipendenti del settore logistico e dei fornitori, avranno diritto a un bonus di 300 euro. Che gli “affari” di Amazon stessero andando particolarmente bene non era certo un mistero. Ma come sono andate esattamente le vendite di quest’anno?

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La crescita delle vendite grazie alla pandemia

Secondo le statistiche, tra aprile a giugno, Amazon avrebbe venduto il 57% in più di articoli, rispetto all’anno precedente e nel terzo trimestre sarebbe stato registrato il triplo dell’utile netto rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. 

Come se non bastasse, per le festività natalizie il colosso dell’eCommerce ha visto un’ulteriore incremento delle vendite. D’altro canto l’edizione del Black Friday e del Cyber Monday di quest’anno sono state le migliori di sempre: le piccole e medie imprese che vendono su Amazon, nonostante le limitazioni della pandemia, hanno ottenuto una crescita delle vendite del 60% rispetto all’anno precedente. 

Per non parlare dell’Amazon Prime Day, che si è svolto ad ottobre. Tra i prodotti più acquistati, a livello mondiale, sono stati segnalati Echo Dot, Fire Tv Stick 4K Ultra HD con telecomando vocale Alexa, iRobot Roomba, il filtro personale per l’acqua LifeStraw,  le cuffie wireless Bose QuietComfort 35 (serie II), lo smartwatch Fitbit Versa 2 e il casco di Stormtrooper di Star Wars.

Echo dot Amazon

In Italia, i prodotti più gettonati sono stati il videogioco “Fifa 21”, la PlayStation 4, con incluso upgrade per PS5, le capsule di caffè Borbone e le mascherine FFP2.

In Francia hanno spopolato i pannolini Pampers Premium Protection, lo Spazzolino Elettrico Ricaricabile Braun Oral-B Pro 2 2500, ed il Gufo Lego di Harry Potter.

In Spagna, tra i prodotti più acquistati c’è stato il detersivo per lavastoviglie Finish Powerball All in 1 Max, la crema giorno L’Oréal Paris Men Expert – 24H Hydra Energetic e la cartuccia universale per caraffa filtrante Brita Maxtra.

Nel Regno Unito tra i prodotti più venduti ci sono lo Shark, la Scopa elettrica Celebrations, lo spazzolino elettrico Oral-B Smart 6 6000N Crossaction.

Infine, negli USA, invece, non sono mancati l’iRobot Roomba Robot Vacuum, il Myq Apriporta Smart Wireless & Wifi per Garage, il filtro personale per acqua Lifestraw ed il gioco in scatola Kids against Maturity.

Anche le vendite di alcolici, di prodotti di bellezza e gli articoli per i bambini sono più che raddoppiati quest’anno, grazie all’aggressiva strategia di prezzo del gigante dell’eCommerce. L’analisi dei dati riguardante la vendita di alcool su amazon.com tra luglio e ottobre 2020, ad esempio, ha mostrato un aumento del 121% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente

catalogo ikea

L’anno di IKEA, fatto di sostenibilità e digitale per un presente migliore

  • La sostenibilità non è più un optional per i brand e IKEA lo ha voluto dimostrare con un gesto importante quest’anno, dando l’addio al suo tradizionale catalogo cartaceo
  • Ma anche gli oggetti e l’arredamento costituiscono un patrimonio da non disperdere e le scelte dell’azienda vanno sempre di più in questa direzione

 

È l’anno della sostenibilità. Il 2020 che volge al termine ci dà una certezza: i brand  promettono di essere più sostenibili, dal food, al fashion, passando dall’automotive, fino ad arrivare al design. Un esempio su tutti è quello del colosso svedese dell’arredamento, con il claim “diamo una seconda vita ai mobili IKEA usati”. 

Infatti, il furniture brand, fino al 6 dicembre ha attuato il Green Friday: riportando i mobili precedentemente acquistati, ad esempio una libreria BILLY che non serviva più, o un tavolo NORDVIKEN, che ormai era diventato troppo piccolo per la famiglia, si aveva una valutazione economica mentre all’oggetto era garantita una seconda vita. Per tutti i soci, c’era la supervalutazione del 50%, dunque una forte convenienza.

Stando più tempo in casa vi siete resi conto di dover liberare un po’ di spazio? Il #BuyBackFriday vi aspetta dal 27 novembre al 6 dicembre. E se siete Soci IKEA Family potete ricevere una supervalutazione del 50% e riportare i vostri mobili usati IKEA fino al 28 febbraio 2021. Insieme rendiamo il Black Friday più sostenibile. #SiamoFattiPerCambiare

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I nuovi trend per i consumatori

L’idea ha tenuto conto del periodo particolare: vari studi e ricerche avevano già fatto intendere che gli acquisti per il Black Friday 2020 sarebbero stati molto diversi, sia in qualità e sia soprattutto in quantità, rispetto a quelli degli ultimi anni.

D’altronde, oggi non ti dispiacerebbe buttare via gli oggetti usati? Magari vorresti ripararli, riutilizzarli o riciclarli, ma non sempre hai il tempo o semplicemente non sai come fare.

IKEA pensa a un’economia circolare, che significa ridurre al minimo gli scarti e rigenerare le risorse attraverso il noleggio, la restituzione e il riacquisto dei mobili, aiutando i clienti a riparare, riutilizzare e riciclare la la mobilia obsoleta, o a rivenderla per darle una seconda vita.

D'altronde, oggi a chi non dispiace buttare via gli oggetti usati?

Come è emerso da una ricerca di TrustPilot, incentrata sul comportamento d’acquisto dei consumatori, in occasione del Black Friday e del Cyber Monday, circa il 21% del campione, (su 1600 intervistati), avrebbe acquistato come ha fatto di solito, mentre il 20% sarebbe stato assente, infine il  15% del campione aveva espresso l’intenzione di spendere meno del solito, mentre soltanto il 9,8% aveva avuto tra le previsioni quella di spendere maggiormente.

C’è un dato che più di tutti contribuisce a mettere in evidenza un senso di incertezza provato dai consumatori: in un momento in cui ogni forma di pianificazione sembra essere inutile, il 35% degli intervistati aveva risposto di  non sapere se avrebbe sfruttato o meno le offerte dei due eventi.

Alle possibilità di risparmio, i più  desideravano coniugare più attenzione verso l’ambiente e la categoria home avrebbe ricoperto una buona fetta degli acquisti prefestivi. Trascorrendo più tempo in casa ci si potrebbe essere accorti, del resto, di dover liberare un po’ di spazio, come recita il post dedicato all’IKEA Green Day sulla pagina Facebook.

La sostenibilità di IKEA

Credits: Ogilvy, Stati Uniti per IKEA.

L’estetica green di IKEA

Le festività potrebbero essere sempre un po’ più verdi e IKEA vuole rendere più facile quest’anno così anomalo. Invece di concentrarsi su vendite e promozioni durante il Black Friday, ha scelto e di attirare l’attenzione sulle sue iniziative sostenibili.

Nell’estetica distintiva e di marca delle Guide di assemblaggio IKEA, il rivenditore ha lanciato una serie di nuove “Guide verdi”, ciascuna con un prodotto sostenibile collegato a una delle sue varie iniziative di sostenibilità. Le guide includono la messa in evidenza di sedute sostenibili con sedie in legno rinnovabile e plastica riciclata, l’importanza di risparmiare energia con luci natalizie a LED e come i consumatori possono ridurre i loro rifiuti di legno, attraverso contenitori di stoccaggio riutilizzabili.

Queste illustrazioni sono state mostrate in forma aggregata su tutti i canali di proprietà di IKEA, nonché presentate da influencer, attraverso una campagna social ADV.

Ikea: luci nel presente e nel futuro

Una sfida ambiziosa, quella di Ikea: permettere a più di 1 miliardo di persone di vivere una vita quotidiana migliore rispettando i limiti del pianeta.

Ad esempio, tutto l’assortimento di prodotti per l’illuminazione di IKEA ora è a LED ad alta efficienza energetica e tutto il cotone che utilizzano nei prodotti proviene da fonti più sostenibili. C’è un forte investimento nell’energia , per produrre, entro il 2021, una quantità di energia rinnovabile pari a quella consumata. Ma non abbiamo ancora finito; abbiamo appena cominciato… si legge sul loro sito web.

L’obiettivo è quello di  diventare un business circolare e avere un impatto positivo sul clima: per questo Ikea si è ripromessa di utilizzare più materiali ecosostenibili e riciclati, di eliminare gli scarti delle nostre attività e di cambiare il modo in cui vengono progettati i prodotti e i servizi offerti alla clientela. Questo permetterà di prolungare la vita dell’oggettistica e dei mobili così da considerarli risorse per il presente e per il futuro.

Addio al catalogo IKEA, tra consumi online e sostenibilità

IKEA dopo 70 anni abbandona anche il catalogo cartaceo, lo manda in pensione per lasciare spazio solo al digitale. Dal 1° gennaio 2021 il catalogo di carta dei prodotti dell’azienda svedese non verrà più prodotto. Per informarsi, restano il sito e la nuova App.

«Cambiare pagina è stato di fatto un processo naturale da quando l’utilizzo dei media e i comportamenti dei clienti sono cambiati» – afferma Konrad Grüss, Amministratore Delegato di Inter Ikea Systems B.V. – «e per raggiungere e interagire con la maggioranza delle persone, continueremo a fornire ispirazione con le nostre soluzioni per l’arredamento della casa in modi nuovi».

Con alle spalle una storia straordinaria, il primo catalogo Ikea realizzato e curato di persona dal fondatore Ingvar Kamprad aveva in copertina la poltrona Mk con imbottitura in pelle, uno dei primi successi dell’azienda svedese. Con la sparizione del catalogo si chiude anche un’era di consumi basata sul contatto fisico con il prodotto già a partire dallo sfogliare le pagine del catalogo in famiglia per decidere l’acquisto. Il pubblico di riferimento di Ikea è principalmente formato da giovani famiglie e coppie che arredano la prima casa, ed il trend per gli under 30 è ormai focalizzato sugli acquisti online.

Quella dell’IKEA Green Friday, insomma, non è stata certo un’iniziativa isolata o solo simbolica. Dopo la tempesta che nel 2018 sradicò ettari ed ettari di alberi tra Veneto, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia, IKEA ha provato a recuperare parte di quel legno e lo ha utilizzato per la realizzazione di un’edizione speciale delle librerie BILLY: con ogni acquisto i clienti potevano partecipare a delle campagne per il rimboschimento della zona. “#EffettoVAIA” era il titolo della campagna di comunicazione collegata:

 

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IKEA ha posizionato, infatti, alcune delle stesse BILLY in edizione limitata nei parchi romani fino all’8 novembre 2020; le ha riempite di libri sui temi di ecologia, sostenibilità, economia circolare, cambiamento climatico e invitato chiunque vi si imbattesse a condividere sui social foto, Storie, post con l’hashtag dedicato nell’intento di sensibilizzare il largo pubblico.

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La casetta su ruote: lo smart working mobile e sostenibile

kea e la casa del futuro dopo il coronavirus

È arrivata la casetta Ikea sulle ruote, pensata per i nomadi digitali: per cambiare stile di vita, per fare smart working in modo sostenibile e per viaggiare lavorando.

Le tiny house sono quelle case piccole piccole, di massimo 30 metri quadrati. Affascinano sempre di più e nell’ultimo lustro sono diventate parecchio popolari tra coloro che cercano una vita semplice e piena, spesso nomade. Ora è arrivata anche la versione firmata Ikea, una mini-dimora mobile.

La caettta Ikea sulle ruote ha una superficie di 17,37 metri quadri. È stat pensata dall’azienda svedese di arredamento per il suo “Tiny Home Project”, caratterizzato da un’edilizia sostenibile che rispetti l’ambiente.

Ikea, insieme alla statunitense Escape Homes, che negli anni si è specializzata in case di piccole dimensioni, ha infatti ideato una piccola casa su ruote. Il progetto mira a promuovere la sostenibilità attraverso l’inclusione e l’innovazione.

L’esterno comprende un rivestimento in legno di ispirazione giapponese, noto come Shou Sugi Ban. Lo stesso materiale, cioè legno di pino prodotto in modo sostenibile, si trova anche all’interno con le pareti dipinte di bianco per dare una sensazione di spaziosità. Anche il pavimento è in legno.

«La strategia Positive People and Planet di Ikea è la nostra tabella di marcia», ha detto la responsabile per la sostenibilità dell’azienda svedese, Jennifer Keesson, «vogliamo soddisfare i bisogni delle generazioni di oggi senza compromettere quelli delle generazioni future».

Rendere il pianeta un posto migliore

È importante tenere la porta del frigo sempre chiusa, usare le luci a LED e fare la raccolta differenziata dei rifiuti. Suona familiare?

Se anche tu hai a cuore il riciclo e cerchi sempre di evitare sprechi di acqua, di cibo e di elettricità… complimenti, sei l’attivista di casa. Anche IKEA si impegna a dare il suo contributo per un pianeta più sostenibile, e insieme possiamo fare ancora di più.

L’acquisizione di Freshly da parte di Nestlè: il trend del delivery è qui per restare

  • Nestlé ha acquisito Freshly, start-up americana del meal delivery, per 950 milioni di dollari
  • Un’operazione strategica, significativa di un’evoluzione delle abitudini quotidiane, che potrebbe rivelarsi più duratura di un semplice fenomeno passeggero

 

Nestlé, la multinazionale elvetica attiva nel settore alimentare, più volte criticata per la propria politica commerciale, ritenuta troppo aggressiva e talvolta irresponsabile, continua ad espandersi.

Da quando il farmacista Henri Nestlé formulò la ricetta del latte in polvere per neonati nel 1860, infatti, l’azienda è cresciuta a dismisura, tanto da occupare una posizione di monopolio sul mercato mondiale.

Un traguardo che il colosso svizzero condivide con alcuni noti brand internazionali, come Unilever, Danone, Mars e pochi altri, per formare la cosiddetta lobby del “Big Food”.

Con riferimento alla matrice BCG (Boston Consulting Group), dunque, potremmo definire la Nestlé come una “cash cow”, pronta ad investire – anche ingenti somme di denaro – in nuove opportunità di business.

Nestle Canada giving temporary raises to factory and distribution centre workers | The Star

Freshly, un’idea vincente (fin dall’inizio)

Una delle più recenti conquiste è Freshly, startup del meal delivery presente in 48 Paesi degli Stati Uniti, che consegna oltre 1 milione di pasti alla settimana e che quest’anno sfiorerà i 430 milioni di dollari di fatturato.

Fondata nel 2015 da Michael Wystrach e Carter Comstock, l’azienda propone pasti bilanciati e realizzati con materie prime di qualità, preparati da chef e consegnati freschi a casa, pronti per essere consumati dopo un rapido passaggio nel forno a microonde.

Sin dalle origini, la filosofia del Gruppo è stata quella di ridurre l’utilizzo di prodotti processati, diminuire i quantitativi di zucchero e implementare la presenza di nutrienti nelle preparazioni, scommettendo sulla collaborazione tra cuochi e nutrizionisti.

Una formula che, in breve tempo, si è rivelata vincente: dopo appena quattro mesi, la startup ha raccolto i primi 7 milioni di dollari, grazie al fondo di investimento Highland Capital, al quale poi se ne sono aggiunti di altri, come Insight Venture Partners e White Start Capital, che hanno contribuito con 21 milioni di dollari.

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Nestlé acquires Freshly for $950 million | Supermarket News

Nestlé-Freshly, deal da quasi 1 miliardo di dollari

Un’ascesa repentina – e quasi incredibile – quella di Freshly, che già nel 2017 aveva destato l’interesse di Nestlé. Il gigante di Vevey, infatti, allettato dalle buone prospettive di crescita e deciso a sondare il mercato, acquisì il 16% delle quote societarie, senza troppi indugi.

E ora, nell’anno più proficuo per la start-up americana, ha deciso di completarne l’acquisto, mettendo sul piatto 950 milioni di dollari.

Un’operazione di grande portata, conclusasi ufficialmente il 30 ottobre 2020, con cui Nestlé ha confermato la propria volontà di essere presente nei comparti più competitivi del mercato alimentare, come ha sottolineato anche Steve Presley, CEO di Nestlé USA, durante un’intervista stampa:

I consumatori stanno abbracciando la strada dell’eCommerce e mangiano a casa come mai prima d’ora. Si tratta di un’evoluzione causata dalla pandemia ma che, secondo noi, è destinata a durare nel tempo. Freshly è una startup del food-tech, innovativa e in rapida crescita, e aggiungerla al nostro portfolio ci aiuterà a capitalizzare sulle realtà emergenti del mercato alimentare statunitense, assicurando alla nostra alla nostra azienda una futura posizione di leadership”

La moratoria nel piano del consumatore con accordo esterno

Meal-delivery, un trend destinato a durare nel tempo

Quella di Nestlé potrebbe sembrare di primo acchito una mossa scontata, considerando la piega che i consumi alimentari hanno assunto negli ultimi mesi.

Tuttavia, è significativa di un’evoluzione delle abitudini quotidiane, che potrebbe rivelarsi più duratura di un semplice fenomeno passeggero, imposto dai tempi che corrono.

La crisi sanitaria che stiamo vivendo, infatti, ha sconvolto – e modificato – il nostro stile di vita, sin negli aspetti più routinari.

E per quanto lo stravolgimento dei tempi, degli spazi e delle relazioni, possa essere temporaneo, lascerà inevitabilmente un’impronta profonda ed indelebile dentro di noi.

Molte delle libertà che al momento ci sono negate saranno rivendicate con sollievo quando l’emergenza sarà finalmente cessata.

Ma la scoperta dei servizi di consegna a domicilio, da parte di una platea molto più vasta ed eterogenea rispetto al passato, sarà con ogni probabilità da annoverare tra le conquiste destinate a lasciare il segno.

Incremento eCommerce nel 2020: analisi e bilanci di fine anno

  • Per un brand o per un esercizio commerciale dovrebbe essere importante considerare il mondo digitale come un grande alleato
  • I potenziali clienti passano molto più tempo in compagnia dei propri device: sulle piattaforme social, su siti web di informazione e sulle proprie app
  • La grande sfida per il nuovo anno non è rappresentata solo dalla presenza digitale per le aziende, ma anche dall’ottimizzazione dell’esperienza dei potenziali clienti durante la navigazione (in modo particolare quella mobile)

 

È quasi terminato il 2020, un anno che ha costretto le persone a modificare profondamente le proprie abitudini, un anno che ha visto gli italiani passare molto più tempo fra le mura domestiche.
Oltre a fattori dovuti all’emergenza sanitaria come lockdown, restrizioni e divieti di assembramenti, il 2020 è stato anche caratterizzato da un notevole incremento del know-how digitale degli italiani: in particolare le persone si sono approcciate all’eCommerce come mai in passato, facendo registrare in generale una crescita del commercio elettronico.

Qualche numero sull’eCommerce in Italia

single's day cina ecommerce

Guardando i dati pubblicati da ISTAT nel report sul “Commercio al dettaglio Ottobre 2020”, salta all’occhio come l’utilizzo del commercio elettronico sia in forte aumento (+54,6%) rispetto allo stesso mese dell’anno precedente (Ottobre 2019) e facendo registrare un valore pari a +32,3% durante i primi dieci mesi del 2020, rispetto al medesimo periodo del 2019.

L’eCommerce ha raggiunto un elevata diffusione ed è diventato oramai un canale di vendita primario: d’altra parte, nell’ultimo anno sia in Italia che in ogni altra parte del mondo, gli store fisici della maggior parte dei settori merceologici, non hanno potuto accogliere regolarmente i propri clienti. Molte persone si sono riversate quindi sui canali digitali per effettuare le proprie spese ordinarie e anche quelle extra.

È probabile che i brand o i negozi che non hanno adottato in tempo utile delle efficaci strategie di marketing digitale o che non si siano attrezzati adeguatamente per le vendite online, abbiano creato un distacco con i propri clienti abituali o con i potenziali acquirenti.

Va considerato che in questi dati non sono stati conteggiati i numeri delle vendite riguardanti i mesi di novembre e dicembre 2020, e quindi ricorrenze come il Black Friday, il Cyber Monday e tutto il Christmas Time: momenti storicamente favorevoli per il commercio.

Quest’anno, inoltre, nel lasso di tempo tra il Black Friday e il Cyber Monday, secondo alcuni report, vi è stato un notevole incremento del commercio elettronico e del numero di consumatori che hanno approfittato delle numerose promozioni a livello mondiale.

Presumibilmente in Italia, molte persone dopo aver utilizzato lo strumento eCommerce per quasi un anno, anche per i regali e le spese natalizie ricorreranno ancora una volta ad esso, andando a far crescere i dati menzionati.

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eCommerce: opportunità o minaccia?

Per un brand o per un esercizio commerciale dovrebbe essere importante considerare il digitale come un grande alleato, soprattutto in un periodo come quello che si sta vivendo, durante il quale i potenziali clienti passano molto più tempo in compagnia dei propri devices (notebook, smartphone e tablet) sulle piattaforme social, su siti web di informazione e sulle proprie app.

Infatti considerando il know-how acquisito, è importantissimo dare la possibilità di acquistare un prodotto anche su uno store online, di poterlo pagare o prenotare tramite un link inviato via sms o tramite un servizio di messaggistica istantanea o addirittura avere a disposizione una vetrina dei propri prodotti sui principali social network.

Un altro aspetto fondamentale, per attivare un’efficace strategia di eCommerce, è supportare questo canale di vendita con un piano marketing digitale strutturato oltre che informare chiaramente il cliente su tutto quello che può interessargli prima di un acquisto, assicurandogli un’esperienza positiva e completa: prezzo e caratteristiche del prodotto, modalità, tempi di spedizione, possibilità di reso, free shipping (solo per citare alcune delle informazioni che non devono mancare).

Cosa ci si aspetta dal 2021?

burattino shopping online

La grande sfida per il nuovo anno non è rappresentata solo dalla presenza digitale per le aziende: ma anche dall’ottimizzare l’esperienza dei potenziali clienti durante la navigazione (in modo particolare quella mobile).

Come emerge da un articolo sul tema di Think with Google, molti utenti che si approcciano all’utilizzo di una piattaforma di eCommerce (tramite un dispositivo mobile) non concludono l’acquisto per molteplici cause: ad esempio scarsa velocità del sito web, difficoltà nella compilazione dei campi web (es. indirizzo di spedizione), bassa qualità delle foto del prodotto oppure la mancanza di trasparenza nella comunicazione dei costi.

Questo vuol dire: opportunità di vendita mancate, in quanto l’utente presumibilmente troverà un altro canale per finalizzare l’acquisto.

La sfida è davvero ingente per un brand o un esercizio commerciale che non ha mai utilizzato gli strumenti digitali: consolidare in pochi mesi la propria presenza online e allo stesso tempo garantire un’esperienza valida e appagante ai potenziali clienti.

Tuttavia ottimizzare il commercio elettronico potrebbe aiutare ad affrontare al meglio le sfide online ed offline del 2021.

cashback

Come sta cambiando il modo di fare acquisti: dal digitale al cashback

Sarà difficile dimenticare un anno come questo e i motivi sono davvero tanti. Mancano pochi giorni alla fine del 2020, e lo ricorderemo soprattutto come un anno in cui tutti noi abbiamo cambiato totalmente le nostre abitudini senza nemmeno rendercene conto. La mattina, prima di recarci a lavoro, molti di noi erano soliti fermarsi al bar per un cornetto e un caffè al volo, e un’altra folle giornata iniziava tra corse in ufficio, appuntamenti vari e le lezioni in palestra. Sono bastati pochi mesi e ci siamo ritrovati a fare colazione, call con i colleghi e workout nel salotto di casa. Anche il modo di fare acquisti è cambiato, o meglio si è evoluto.

Quest’anno quante cose abbiamo ordinato online comodamente sdraiati sul divano? E quanto raramente abbiamo usati i contanti per fare acquisti nei negozietti sotto casa?

Sempre più persone comprano prodotti su Internet e utilizzano carte di credito per acquistare in qualsiasi negozio. Ovviamente non è una novità, ma in questi mesi è stata una vera e propria necessità che ha portato molti enti a creare dei servizi appositi per facilitare e migliorare questi diversi modi d’acquisto.

E ultimo arrivato (anche se non si tratta esattamente di una novità), avete sentito parlare del cashback? Alcuni già lo conoscevano, ma negli ultimi giorni è diventato un vero e proprio tormentone.

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Che cos’è il cashback

Il cashback esiste già da qualche tempo ed è una sorta di piccolo rimborso, applicato da diversi negozi, brand e piattaforme di pagamento sulle spese effettuate dai clienti. È considerato un incentivo per favorire gli acquisti da parte delle persone, fidelizzando anche i clienti a quelle attività e aziende che hanno adottato questo sistema.

La cifra rimborsata è diversa da caso a caso, e ogni attività e app di pagamento definisce la propria percentuale. Inoltre il rimborso viene accreditato subito dopo aver fatto l’acquisto. Ecco perché non è uno sconto ma può essere considerato una sorta di ricompensa per la spesa effettuata, che sia in negozio oppure online.

In genere, il cashback funziona attraverso dei siti di affiliazione che guadagnano una percentuale sugli acquisti effettuati dai propri utenti nei negozi convenzionati, per poi riversare parte di questo guadagno sui consumatori stessi.

Nato inizialmente come un servizio puramente online, negli ultimi anni il cashback si è poi sempre più diffuso anche offline a livello locale grazie all’utilizzo di coupon creati appositamente allo scopo.

Solitamente il cashback pone un limite minimo da raggiungere per poter richiedere il pagamento (il cosiddetto “payout”), rendendo così necessaria per l’utente la fidelizzazione. E qui sta il vantaggio per l’esercente.

Se il cashback diventa di Stato

Negli ultimi giorni, dicevamo, si sta parlando moltissimo di Cashback di Stato, perché il Governo ha deciso di introdurre questo sistema con lo scopo di agevolare gli acquisti tracciabili, evitare il più possibile l’uso dei contanti e tenere sotto controllo l’evasione fiscale.

È un incentivo, quindi, per chi utilizza carte di credito, bancomat e app sul proprio smartphone per effettuare acquisti, ma in questo caso vale solo per quelli in negozio. Inoltre il Governo ha rilasciato anche un’applicazione per usufruire di questo servizio, App IO.

La misura si inserisce nel più ampio contesto di lotta al contante prevista, tra gli altri, anche dal decreto Agosto convertito in legge il 14 ottobre 2020. Di incentivi ai pagamenti elettronici d’altronde si parlava già nell’ultima manovra finanziaria, che aveva introdotto le disposizioni di un Cashback di Stato.

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Cashback ed Extra Cashback di Natale: come funzionano

L’Extra Cashback di Natale è partito l’8 dicembre e si concluderà il 31 dicembre 2020 dovrebbe incentivare gli acquisti nei negozi fisici per le feste in questa difficile fase di crisi.

Per ricevere il payout sarà necessario effettuare almeno 10 operazioni cashless (cioè senza contanti) e sarà riconosciuto il 10% di rimborso, fino a un massimo di 1.500 euro di spesa (il rimborso sarà quindi di massimo 150 euro).

Ogni operazione di pagamento sarà considerata fino ad un massimo di 150 euro. Il primo cashback sarà accreditato a febbraio 2021 sull’Iban indicato al momento dell’adesione all’iniziativa tramite l’app IO.it o tramite gli altri sistemi messo a disposizione da banche e emittenti, come Enel X Pay, il conto digitale di Enel X che già integra l’opzione con possibilità di aderire al programma Cashback di Stato direttamente da App senza SPID e App extra.

Enel X Pay è il conto digitale di Enel X Financial Services, la società di Enel X che ha come obiettivo quello di portare, nel settore dei servizi finanziari, l’innovazione, i valori e la solidità del Gruppo Enel attraverso tecnologie, soluzioni all’avanguardia e servizi competitivi. Un modo nuovo per gestire la casa, le spese e la vita.

Quando il sistema del Cashback entrerà a regime, dall’1 gennaio 2021, a chiunque abbia aderito verrà riconosciuto un rimborso semestrale pari al 10% di quanto speso fino a un massimo di 1.500 euro a semestre e purché si facciano almeno 50 operazioni cashless a semestre: a conti fatti, cioè, si può arrivare a un rimborso massimo di 300 euro in un anno.

Ci sarà inoltre un Super Cashback: in pratica un rimborso che verrà riconosciuto ogni semestre per 1.500 euro, in aggiunta al cashback standard ai primi 100.000 registrati che abbiano effettuato il maggior numero di operazioni cashless, a patto che eseguano almeno 50 operazioni di pagamento nel corso del semestre.

Tutti i rimborsi, inclusi quelli relativi al Super Cashback saranno esentasse.

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A chi spetta il Cashback

Per poter partecipare all’iniziativa dell’Extra Cashback di Natale e poi di quello ordinario occorre iscriversi tramite app, come già detto, o tramite sistemi bancari e finanziari.

Possono farlo tutti i maggiorenni residenti in Italia e saranno ammessi indistintamente tutti gli acquisti fatti come consumatori. Non sono invece contemplati quelli effettuati nell’ambito dell’attività professionale o imprenditoriale.