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Il comparto del lusso: dalle riconversioni alla ripresa nelle vendite grazie alla Cina

  • Anche il comparto del lusso ha subito forti contraccolpi a causa della pandemia, con fatturati che sono calati fino al 30%.
  • La Cina, primo mercato di riferimento, però, è in piena fase revenge spending, con numeri che fanno ben sperare.
  • Big news: anche il lusso finalmente si apre al digitale puntando alle esperienze d’acquisto personalizzate.

 

Da questa pandemia stiamo uscendo cambiati e sicuramente non fa eccezione l’economia, con abitudini del consumatore mutate, aziende ancora non del tutto operative, nuove misure di “distanziamento sociale”.

Non è da meno il comparto del lusso, un mercato in cui la crisi è bivalente: brand e subappaltatori italiani in difficile ripartenza e il miglior e maggior cliente, la Cina, con forti conseguenze da totale lockdown.

Ma nulla è perduto! Le stime confermano un trend di crescita positivo, seppur meno del previsto e viene finalmente sdoganato lo shopping online per i beni di lusso.

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Dal calo di fatturato al digitale

Il mercato del lusso ha, negli ultimi anni, attirato milioni di investimento e il trend si conferma in questo periodo di neo post lockdown con previsioni di incremento fino al 70% di nuovi fondi che stanno guardando a questo comparto come la prossima mossa per il 2020.

Perché? I dati parlano chiaro: il settore prevede una crescita del 10% iniziata nel 2019 fino al 2025 con un +1,9% annui e, dopo questa pandemia, con ampia manovra di sviluppo in campi come digital, shop online e tech inesistente prima del febbraio 2020.

I settori che vedranno arrivare più capitali sono quelli del beauty come la cosmetica e i profumi, gli accessori moda e il lusso digitale e sono anche i settori che hanno tenuto di più durante il periodo COVID, mentre contraccolpo negativo per hôtellerie, auto ed orologi.

Se da una parte i nuovi investimenti nel settore non sembrano rallentare, dall’altra, inevitabilmente, i consumi e le produzioni hanno subito una brusca frenata, con un calo del 30%. Questo è dovuto soprattutto al fatto che la clientela del settore è rappresentata per il 35% dalla Cina, Paese primo ad entrare in lockdown con forti conseguenze sulla sua capacità di spesa e potere di acquisto.

In periodi come questi è fisiologico che le priorità di acquisto cambino, seppur possedere ed acquistare beni di lusso rappresenti anche l’appartenere ad uno status quo, è necessario procedere per priorità, le spese per nuovi beni impossibili però sembrano solo posticipate, niente cancellazione quindi soprattutto tra i giovani e la Gen Z, i maggiori acquirenti del mercato.

In Cina, infatti, sono le nuove generazioni e le zone emergenti ad essere affamate di beni nuovi grazie anche all’influenza dei social, un pubblico che in questo momento è pessimista per il peggioramento della loro condizione economica a causa del lock-down, ma che dichiara anche di voler tornare a comprare come prima appena tutto sarà finito.

Due cose il comparto dovrebbe imparare dopo questo trimestre: il lusso al giusto prezzo e che l’online non è il diavolo, ma un’opportunità.

Il lusso al giusto prezzo, infatti, ha dato un segnale al mercato importante sul fatto che potrebbe essere l’occasione per ampliare la clientela con una corretta segmentazione il settore potrebbe rispondere in maniera più solida ai contraccolpi di cali di fatturato.

L’online è un’opportunità soprattutto per chi non lo ha ancora esplorato e questa è un’inevitabile conseguenza che ci porteremo tutti dietro dopo questa pandemia, d’altronde se non si può stare “vicini” come prima è necessario trovare un altro modo, un’esperienza d’acquisto online personalizzata, store digitali con assistenti reali che guidino il cliente nel suo shopping o un processo d’acquisto online che si finalizzi nello store, ma il negozio fisico seppur di alto livello ormai non è più sufficiente.

Una cosa mi ha stupita, lo “store” in cui avvengono i maggiori acquisti del comparto sono gli aeroporti e con il turismo limitato è il punto vendita che ha in assoluto registrato numeri negativi ed è da sempre stata la fonte maggiore di guadagno per il settore.

La luce a fine tunnel c’è e si vede. Gli esperti dichiarano che tra il 2022 e il 2023 si ritornerà al livello di spesa pre Covid con la Cina sempre in testa nella ripresa, anche per il 2020 anno in cui sarà l’unica a chiudere in positivo.

Insomma, la situazione non è così nera come ci si aspetta, ma sicuramente sarà una nuova ripresa, diversa e che avrà cambiato anche un settore così tradizionale ad ancorato agli store fisici.

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Il Revenge Spending dalla Cina

Si sa, gli autoregali e la voglia di avere qualcosa di nuovo sono i migliori antidoti a malumore e depressione. Anche con l’apertura delle attività post Covid si conferma questo trend che ha un vero e proprio nome: Revenge Spending, la voglia di riscattarsi dopo un periodo di limitazioni attraverso lo shopping, insomma il classico shopping consolatorio.

Tra i settori più colpiti da questo shopping compulsivo ci sono ristoranti, viaggi, locali e, naturalmente, i negozi, brand del lusso compresi.

Non solo Cina, anche il mercato indiano è sotto la lente d’ingrandimento dei brand di lusso che si aspettano da questo altro Paese emergente una crescita di volume d’affari tra il 10 e il 15 percento, ma non solo nell’ambito “grandi marchi internazionali” che sicuramente traineranno il comparto, ma anche dai luxury brand indigeni come abbigliamento e accessori sotto il marchio Indian Apparel, ma anche servizi, turismo, auto e beni immobili con un settore che vale circa il 30% del mercato totale.

Il mercato asiatico, ma più in generale il mercato dei beni di lusso, oltre a registrare le sue maggiori vendite nel contesto turistico ed aeroportuale, rappresenta per l’acquirente l’occasione di essere arrivato, di ostentare, anche, il suo potere di acquisto e di sentirsi parte di un’élite.

Se in India la fetta più ampia di clientela è rappresentata dagli uomini di affari e dalle loro famiglie, per il popolo cinese è la Generazione Z, oltre ai Millennials, quella che guida la classifica con previsioni di spesa che si aggirano sui 43 miliardi di dollari entro il 2024.

Per questo segmento, infatti, non è più l’ostentazione la motivazione d’acquisto, ma il “social capital” sentirsi, cioè, parte di un gruppo. Vedetela come: per noi in adolescenza se non avevi il motorino non eri nessuno, ora gli adolescenti nel 2020 se non hanno l’ultimo paio di scarpe droppato da Nike o un bell’orologio importante si sentono ai margini del loro gruppo.

Sicuramente il periodo che stiamo attraversando ha significato un parziale cambio di rotta e di regole per i player del settore che, pur di non perdere il loro mercato principale, hanno abbassato prezzi e tassazione puntando sul comparto digitale, pensate che Burberry, Guerlain o La Mer hanno deciso di aprire un loro store su Alibaba.

Queste scelte strategiche, fatte anche di acquisti di prossimità, hanno portato fin dal mese di aprile ad una ripresa, per marchi come Louis Vitton, Dior ed Hermès i dati parlano già di +50%.

Oltre a ciò un trend importante viene avanti: la valorizzazione di marchi cinesi coppia della volontà di ridurre, soprattutto dopo questa pandemia, la dipendenza del Paese dal mercato estero che per i brand stranieri, anche quelli più conosciuti vuol dire prendere in considerazione una distribuzione diretta in Cina o ad installare parte della produzione direttamente sul territorio asiatico.

Dopo questo Covid si parlerà, insomma, di Km0, o quasi, anche per lo shopping di alto livello.

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Una promettente ripartenza dei più grandi marchi del comparto del lusso

I veri imprenditori non rimangono mai con le mani in mano e ce lo hanno dimostrato anche e soprattutto i grandi nomi della moda e del lusso durante questa emergenza, c’è chi ha convertito la propria produzione per offrire un prodotto utile alla comunità e c’è chi ha voluto fare donazioni alle strutture sanitarie. Insomma tutti hanno voluto dare una mano.

Per citare alcuni degli esempi più chiacchierati: Dior e Armani hanno convertito le loro produzioni tessili, la prima per mascherine produttive e la seconda per camici monouso; lo stesso gruppo Armani e l’omonima squadra di basket hanno voluto donare dei capitali alle terapie intensive milanesi e lombarde; lo stesso ha fatto il gruppo OTB devolvendo in beneficenza il 10% del ricavato di ogni vendita, Valentino, Geox e Diadora anche loro protagonisti di cospicue ed utili donazioni; Gucci e Prada forzando la loro produzione alla realizzazione di mascherine e camici monouso; LVMH, invece è passata dai profumi al gel disinfettante distribuito in modo gratuito agli ospedali.

Ma se anche i big del Made in Italy e non solo hanno registrato cali di fatturato causati da pandemia e contrazione dei consumi, il settore più colpito sarà quello dei piccoli artigiani a cui i grandi brand subappaltano parte della produzione per garantire la qualità del fatto a mano.
Un esempio rilevante viene dalla produzione del cuoio, scorte accantonate su stime del periodo che però ora non possono essere lavorate per mancanza di richiesta. Quindi cosa fare? Comprare i piccoli produttori o lasciarli fallire?

Come già detto sopra i segnali positivi di ripresa ci sono, come le cifre record incassate da Hermès nella sola giornata dell’11 aprile: 2,5 milioni di euro registrati dalla boutique locale di Canton. E per l’occasione non volevamo lanciare la nuova Birkin tempestata di diamanti?

Sicuramente questi dati incoraggianti avvalorano di nuovo la tesi della Revenge Spending, i consumatori si sono stufati di spendere solo per le spese essenziali, c’è voglia di ritornare a concedersi qualche vizio in più.

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Dopo ogni momento di cambiamento è necessario capire quali sono le nuove strategie e i nuovi comportamenti da adottare per non farsi cogliere impreparati e rimanere il più possibile sul mercato.
Sicuramente dopo questa pandemia i brand, non solo del lusso, si sono resi conto di due leve ancora forse inesplorate: le vendite online e le vendite di prossimità.

  • La vendita online rappresentava prima del 2020, per alcune aziende, una strategia di mercato lontana o inesplorata, ma i lock-down ha portato i consumatori in modo più o meno consapevole ad accelerare le loro abitudini e il loro salto culturale verso il digitale, sia in termini lavorativi con lo smart-working, sia in termini di abitudini d’acquisto con la preponderanza dello shopping online.
  • In netta contrapposizione, le vendite di prossimità, che non significa solo lo store fisico dietro l’angolo, ma anche l’iniziare a pensare al proprio cliente come persona ricca di valori e necessità e non solo un numero da mettere a budget. Questo vuol dire che le comunicazioni e le strategie pubblicitarie devono iniziare ad apprendere un tone of voice più umano portavoce di valori aziendali veri e condivisi

Sicuramente i grandi brand del comparto del lusso stanno sperimentando queste due nuove leve, con l’apertura di esperienze di shopping online prima impensabili e con la creazione di store fisici o esperienze d’acquisto più personali e personalizzabili.

La luce in fondo al tunnel c’è, basta vederla.

Trump trollato dal popolo di TikTok e dai fan del K-Pop

Circa 1 milione di persone erano attese per l’evento del presidente Donald Trump a Tusla. La risposta all’invito online aveva subito reso chiaro che l’arena per il comizio con una capacità di 19 mila persone non sarebbe bastata a contenere il pubblico.

E così in Oklahoma l’organizzazione della campagna Trump era corsa ai ripari attrezzando mega-schermi all’esterno del palazzetto e prevedendo tutto l’apparato di sicurezza necessario in caso di eventi così affollati.

Peccato però, che l’evento sia andato praticamente deserto rispetto alle attese.

Molti dei potenziali partecipanti, infatti, erano utenti dei social, soprattutto millennial, che si erano abilmente organizzati su TikTok per trollare il presidente.

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Com’è nata la challenge anti-Trump su TikTok

La settimana scorsa, Trump aveva twittato “Quasi un milione di persone hanno richiesto i biglietti per il Rally del sabato sera a Tulsa, Oklahoma” e un funzionario locale aveva dichiarato che erano attese 100.000 persone nell’area. Ma sabato, i partecipanti registrati non hanno riempito l’arena del Bank of Oklahoma Center di Tulsa, costringendo di fatto il team Trump ad abbandonare i piani di gloria.

Uno sforzo coordinato era in corso su TikTok: si invitavano le persone a registrarsi online per l’evento gratuito e poi a non presentarsi.

TikTok si stava trasformando in uno strumento di azione politica e di protesta.

Il responsabile della campagna Trump 2020, Brad Parscale, ha dichiarato alla CNN domenica: “I troll di sinistra e i troll online che fanno un giro di vittoria, pensando di aver in qualche modo influenzato la partecipazione ai rally, non sanno di cosa stanno parlando o come funzionano i nostri rally”. Aggiungendo poi che “iscriversi a un rally significa rispondere con un numero di cellulare. Abbiamo costantemente eliminato i numeri falsi, come abbiamo fatto con decine di migliaia di persone al rally di Tulsa, per calcolare il nostro possibile bacino di partecipanti. Queste richieste di biglietti fasulli non sono mai state prese in considerazione“.

A beffare la squadra di Trump è stata una signora, Mary Jo Laupp, che vive a Fort Dodge, Iowa, e ha un migliaio di follower su TikTok. La donna ha incoraggiato dal social media le persone ad andare sul sito web di Trump, registrarsi per partecipare all’evento e poi non partecipare.

Così accanto a balli, sfide comiche e scherzi, l’appello della signora è diventato una challenge a sè. Gli utenti hanno iniziato a pubblicare video che mostravano che anche loro si erano registrati all’evento. Post simili anche su Instagram e Twitter hanno registrato migliaia di “Mi piace”.

In particolare un video, con più di un quarto di milione di visualizzazioni, ha invitato i fan della musica pop sudcoreana ad unirsi alla campagna di trolling. I follower della musica, nota come K-pop, sono una forza sui social media – solo l’anno scorso hanno postato oltre 6 miliardi di tweet. E hanno una storia di azioni a favore della giustizia sociale. All’inizio di questo mese,si erano radunati anche intorno al movimento Black Lives Matter.

Così, alla fine  sabato sera, mentre le immagini mostravano l’arena semivuota, i giovani festeggiavano su TikTok e anche la rappresentante democratica Alexandria Ocasio-Cortez ha twittato sul tema taggando il responsabile della campagna di Trump.

Statue, Coronavirus e Black Lives Matter: come comunicano le piazze

  • Obbligatorie da indossare nelle aree pubbliche in base alle ultime direttive dell’OMS, le mascherine sono una necessità contro il Covid-19;
  • Anche le statue in giro per il mondo hanno dato l’esempio, in questi mesi lanciando il messaggio: “Hey, ti sei ricordato di indossare la mascherina?”;
  • Sempre le statue sono al centro di grandi polemiche in questi giorni in relazione alla protesta Black Lives Matter.

 

Anche loro con la mascherina, poi imbrattate, decapitate, al centro delle polemiche. Le statue, simbolo o fantaccio della storia e della memoria, sono tornate ad aver un ruolo importante nella società odierna.

Negli ultimi giorni è stato il movimento internazionale seguito alla morte di George Floyd a entrare “nella storia” con un messaggio forte: “liberarci da una concezione dell’eredità europea che ci rende arretrati e ci impedisce di comprendere il mondo”. E per farlo ha utilizzato i simboli tangibili della memoria collettiva, facendo cadere, nel vero senso della parola, le statue nelle piazze di tutto il mondo.

Poi ci sono le altre statue, quelle che negli ultimi mesi si sono vestite di mascherine, per comunicare un altro messaggio importante: la necessità delle misure di distanziamento e di prevenzione sanitaria.

Le proteste del Black Lives Matter

Da Colston a Churchill, dai generali sudisti a Indro Montanelli, le statue di tutto il mondo sono state oggetto della protesta.

La svolta simbolica delle contestazioni ha investito l’universo delle immagini, i monumenti celebrativi di personaggi storici razzisti, che in molte città statunitensi ed europee sono stati vandalizzati, abbattuti, o fatti oggetto di atti ufficiali di rimozione.

E anche la politica ha alla fine dato ragione alla protesta:

Con la decisione della speaker della Camera degli USA, Nancy Pelosi, di rimuovere tutte le statue dei confederati che si trovano a Capitol Hill, sede del Congresso, e quella della Marina americana di ammainare per sempre la bandiera di battaglia confederata in tutte le basi, navi, aerei e sottomarini.

Cosa faremo di questi spazi vuoti è la domanda successiva. Pensando a costruire un futuro più giusto per tutti.

Statua con mascherina

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L’arte in maschera

FFP2, FFP3, chirurgiche. Non si trovano. Servono. Non servono. Obbligatorie solo per i medici e gli operatori sanitari. Al costo di 0,50 cent. L’OMS, con le nuove linee guida, ha infine cambiato rotta: “obbligatorie da indossare nelle aree pubbliche”.

Un must have, non da intendersi nel senso fashion del termine, ma proprio alla lettera. Must have che farà parte sicuramente delle nostre mise durante la stagione primavera-estate 2020. Dopo si spera di farne a meno.

Non si tratta di borse, né di foulard o occhiali da sole, sebbene prima di uscire siano spesso dimenticate con la stessa frequenza. Ne abbiamo sentito parlare nei tg, nei salotti tv, sui giornali e c’è chi ancora ne discute l’effettiva utilità.

Sono state, a volte, protagoniste di sequestri, perché irregolari, prive delle caratteristiche dichiarate da produttori e venditori e oggetto di importazione con modalità non consentite. Sono loro: le mascherine.

Antipolvere, chirurgiche, facenti parte dei dispositivi di protezione individuale. E sono anche in tessuto, ultimamente colorate o con fantasie originali.

Ci sono tutorial per fabbricarle in casa, vedemecum ufficiali e non su quando e come indossarle.

Oggi sappiamo che vanno indossate, sono obbligatorie negli spazi confinati o all’aperto in cui non è possibile o non è garantito il distanziamento fisico. In alcune regioni l’obbligatorietà è stata estesa anche ad altri contesti. A spiegare come usarle in maniera dettagliata è l’Istituto Superiore di Sanità.

Must have considerato accessorio alla moda o colpevole di non consentire il libero respiro. In ogni caso, così come dichiarato dal New York Health Board durante la spagnola del 1918, vale la regola: “Meglio ridicoli, che morti”.

Che cosa centra l’arte in tutto ciò? Si sa, l’arte è l’espressione dei popoli e allora se siamo tutti con la mascherina anche l’arte va in maschera.

O forse no. L’arte va in maschera per dare l’esempio, per lanciare e confermare il messaggio già emanato dalle istituzioni competenti.

Sì, perché pare che non tutti abbiano ancora ben recepito le direttive. E allora? Ecco che anche alcuni modelli simbolo come le statue indossano la mascherina.

Identificative di alcune città, simbolo di libertà, rappresentanti di determinati valori e, perché no, anche di cultura e traduzioni, sono oggi con bocca e naso coperti.

arte va in maschera

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On Tour

Da Helsinki a Perugia, da Dresda a Santo Domingo, il coronavirus invita tutti a mettere le mascherine. A ricordarcelo in giro per il mondo le statue, che diventano parlanti per lanciare il messaggio: Hey, ti sei ricordato di indossare la mascherina?.

E allora, ecco che un gigantesco Buddha in Thailandia dà il buon esempio, coprendo il viso con una mascherina rossa.

arte va in maschera

In Brasile, il paese più colpito dell’America Latina, sul Cristo Redentore di Rio, invece, sono direttamente proiettati mascherina e hashtag #MascaraSalva (la mascherina salva).

A New York, The Fearless Girl non sembra meno fearless con naso e bocca coperti. Anche il monument simbolo di Bruxelles, il Manneken-Pis, non perde la sua irriverenza indossando la mascherina. E, ancora, la indossano Woody Allen a Oviedo; l’imperatrice Augusta nel complesso Rhineland-Palatinate a Koblenz, in Germania; la Lady con il cagnolino davanti al teatro internazionale Chekhov Sakhalin in Russia; a Seattle la indossa la statua The Electric Lady Studio Guitar di Daryl Smith; la indossano anche le otto statue dorate, rappresentati i diritti dell’uomo, che fiancheggiano Trocadero (Parigi); stessa mascherina per Freddie Mercury a Montreaux, in Svizzera.

L’iconica Marylin Monroe di Seward Johnson nel Maryland è sicuramente indimenticabile, con la classica gonna al vento e naso e bocca coperti.

Lo stesso vale per il toro di Arturo Di Modica nel distretto finanziario di New York.

Per le statue italiane, la indossano le sfingi della Fontana del Seguro di Piazza Mercato a Napoli; Mike Bongiorno a pochi passi dal Teatro Ariston ne indossa una con la scritta “Allegria! E il virus va via”. E la cosa non può far altro che strappare un sorriso; a Barletta, Eraclio, statua di quattro metri e mezzo ne ha indossata una per qualche ora, per essere poi rimossa.

arte va in maschera

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Be an art lover

Le mascherine sono diventate, dunque, un accessorio imprescindibile nella nostra quotidianità. In un primo momento si derideva bonariamente chiunque le indossasse in aeroporto o in viaggio nelle città turistiche, oggi se ne riconosce l’utilità.

E, allora, la prossima volta che vi sentite sciocchi o frustati per averla indossata in pubblico, chiudete gli occhi e immaginate di essere un’opera d’arte. Se proprio va male, sarete a fianco del Cristo Redentore di Rio.

whatsapp pay

Week in Social: da WhatsApp Pay a Brand Connect di YouTube

L’universo social è inarrestabile. Anche questa settimana, ti proponiamo tutti gli aggiornamenti che non puoi assolutamente perdere. Sei pronto? Ecco le notizie principali.

Arriva WhatsApp Pay

È ufficiale! Facebook ha comunicato il lancio di WhatsApp Pay, il servizio per i pagamenti digitali che funziona attraverso la celebre app di messaggistica istantanea.

Una notizia già annunciata dallo stesso Zuckerberg lo scorso gennaio, durante la presentazione dei risultati finanziari aziendali.

Pochi giorni fa, il CEO di Facebook ha dedicato al lancio di WhatsApp Pay un post nel quale rivela “Il Brasile è il primo Paese in cui stiamo estendendo ampiamente i pagamenti via WhatsApp. Ne arriveranno presto altri!”.

E in attesa che questo servizio giunga anche in Italia, esploriamolo insieme più nel dettaglio.

Come funziona WhatsApp Pay

Dai primi indizi relativi al lancio del servizio in Brasile, si intuisce che WhatsApp Pay funziona sia come metodo di pagamento fra aziende e utenti (quindi, nell’ambito di una chat di un sito eCommerce che si affida a WhatsApp Business, adesso il compratore può pagare senza bisogno di uscire dall’applicazione), sia per le transazioni di denaro fra persone.

“Rendere semplici i pagamenti può aiutare a portare più aziende nell’economia digitale, aprendo nuove opportunità di crescita. Inoltre, stiamo rendendo l’invio di denaro ai propri cari facile come inviare un messaggio. Poiché i pagamenti su WhatsApp sono abilitati da Facebook Pay, in futuro vogliamo rendere possibile alle persone e alle aziende di utilizzare le stesse informazioni di pagamento in tutta la suite di applicazioni Facebook”, spiega il blog ufficiale di WhatsApp.

whatsapp pay

Non mancano gli accorgimenti per la sicurezza: “Abbiamo costruito questo servizio di pagamento pensando alla sicurezza, – dichiara Facebookper evitare transazioni non autorizzate, sarà necessario uno speciale PIN a sei cifre o l’impronta digitale (o il riconoscimento del volto, per alcuni smartphone ndr)”.

Al momento, in Brasile WhatsApp Pay supporta le carte di debito e di credito del Banco do Brasil, Nubank e Sicredi sulle reti Visa e Mastercard.

Facebook lancia il Centro Informazioni per il Voto

In vista delle imminenti elezioni presidenziali negli Stati Uniti, Facebook lancia un Centro Informazioni per il Voto.

Stando a una dichiarazione rilasciata da Zuckerberg a USA Today, il Centro per le Informazioni di Voto svolgerà un ruolo chiave per incentivare la partecipazione alle urne.

Stiamo creando un nuovo Centro Informazioni per il Voto con informazioni autorevoli, tra cui come e quando votare, nonché i dettagli sulla registrazione degli elettori, sulle votazioni per posta e le informazioni sulle votazioni anticipate […] Questa novità comparirà nella parte superiore del feed di Facebook e su Instagram per assicurarci che tutti possano vederlo.

Facebook pubblicherà anche un promemoria per il giorno delle elezioni – feature dimostratasi particolarmente efficace nel favorire la partecipazione degli elettori in passato.

Inoltre, la piattaforma  ha reso nota l’imminente release di una nuova opzione per bloccare le inserzioni politiche.

“Gli utenti saranno in grado di disattivare gli annunci a tema politico, elettorale sociali provenienti da candidati politici e altre organizzazioni che hanno il disclaimer politico ‘pagato per’ [….] questa funzione sarà disponibile per tutti gli user statunitensi nelle prossime settimane”.

Facebook sta lanciando l’opzione negli Stati Uniti, ma prevede di estenderla anche ad altri Paesi, in futuro.

In pratica, quando vedremo un annuncio politico nel nostro feed, dovrebbe comparire un’opzione nel menu a discesa dell’ad per disattivare tutte le future inserzioni analoghe.

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Youtube aggiorna il suo Marketplace per l’Influencer Marketing

La crescita dell’influencer marketing, soprattutto per le piattaforme video, ha spinto YouTube ad aggiornare il suo marketplace dedicato. Ecco che FameBit diventa BrandConnect.

Finora FameBit ha agevolato la connessione tra i brand e gli influencer selezionati da YouTube attraverso il processo di pubblicazione delle campagne di seguito illustrato:

week in

Come spiegato da Youtube, BrandConnect mira a “rendere più semplice per i creatori e i marchi la creazione di branded content autentici ed efficaci […]  Per i creatori di contenuti, abbiamo sviluppato strumenti per agevolarli a trovare un match con possibili brand partner […] Per i brand, abbiamo aggiunto nuovi indicatori come il Brand Interest, il Peso dell’Influencer, e le visualizzazioni organiche attraverso le conversazioni, tutti dati che forniscono misurazioni delle campagne in tempo reale, rendendo evidenti i loro risultati”.

La nuova piattaforma BrandConnect prenderà il posto di FameBit il 1  agosto. Gli influencer interessati a registrarsi per ricevere proposte dai brand devono avere almeno 25.000 iscritti.

L’era della paranoia, intervista a Gianluca Falanga del Museo della Stasi a Berlino

Al confine tra Gorizia e Nova Gorica il muro della Cortina di Ferro era riapparso in piazza della Transalpina.

Questa volta, a dividere Italia e Slovenia, c’era una squallida rete metallica, di quelle da cantiere, con appese le solite circolari. Un manifesto ingiallito sulla strada per Jesolo ricorda che nessuno è stato al concerto di James Blunt, il 27 marzo a Padova, e che dopo non ci sono stati altri concerti, né altri manifesti.

Eppure la gente corre verso il mare, in una realtà un po’ sospesa tra il trauma di ciò che è stato e i fantasmi di ciò che sarà.

Foto: David Mazzerelli

Dicono tutti che che dovremo scordarci la vita di prima. Un cartello alla porta di un hotel sul lungomare dice: “Alla prossima stagione!”.  I media sono generosi di profezie sul futuro ma scarseggiano i commenti di chi si chiede come mai un virus proveniente dalla Cina abbia trasformato la nostra società in una puntata di Black Mirror.

Tempo di bilanci: quando è stato il momento esatto in cui abbiamo deciso che la sospensione delle libertà fondamentali fosse una cosa accettabile?

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Covid-1984

Ricordo un libro che avevo letto e un museo che avevo visitato, quattro anni fa. Il libro si chiama “Il Ministero della Paranoia” e il luogo è l’ex Ministero della Sicurezza di Stato, a Berlino. Cerco l’autore, Gianluca Falanga, classe 1977, a Berlino da vent’anni.

Lo trovo, non senza qualche difficoltà (come giusto che sia, dato il suo lavoro, penso tra me e me). Oltre che uno storico, Gianluca è anche è il responsabile dei programmi culturali al museo della Stasi a Berlino Est, all’ex penitenziario della Stasi di Hohenschönhausen e al Memoriale di Lindenstraße a Potsdam.

Fissiamo di sentirci al telefono, mi chiede di anticipargli di cosa parleremo: gli mando due cose su WhatsApp, la prima è un graffito sui muri di Mestre, in cui un geniale writer ha scritto “Covid-1984”. Il secondo è un articolo di Repubblica: “4 italiani su 10 reputano giusta la sospensione della democrazia”.

Gianluca Falanga

Entrambi hanno percepito un’anomalia nel sistema: sia chi ha preso spray e bomboletta sia chi ha risposto al sondaggio. Come mai le conclusioni sono così differenti?

«Il romanzo di Orwell racconta un futuro distopico – sottolinea Gianluca – chi ha fatto quella scritta credo si riferisse all’atmosfera del sospetto da Guerra Fredda, paragonata all’attuale situazione sociale».

Abbiamo trovato la prima analogia tra il mondo della Stasi e il nostro tempo post-Covid? «Il senso del sospetto è sicuramente un elemento inquietante che hanno in comune queste due realtà», conferma Falanga.

Se prima purtroppo la diffidenza era per lo più concentrata verso chi era percepito “diverso” da noi, adesso la stessa diffidenza diventa onnicomprensiva. Non stiamo parlando solo del celebre elicottero di Barbara D’Urso in diretta TV, ma anche della spinta a denunciare il tuo vicino “irresponsabile” ovunque e comunque.

Chi “fa la spia” parte sempre da tre presupposti: che ci sia una convenienza nel farlo (la propria incolumità, in questo caso?), che la legge vigente sia giusta e che il pensarla diversamente sia un atto meritevole di sanzione economica e reprimenda sociale.

«La Stasi questo meccanismo lo conosceva, lo alimentava e ne faceva da regia, generando nelle persone il sospetto e dando loro gli strumenti per alimentarlo. Nei nostri tempi caotici il sospetto è mosso dalla paura: più grande è il caos, più grande è la paura».

Catastrofismo da TG

La narrazione mediatica di questi mesi è sicuramente una delle parti più complesse dell’intera questione. Quel è stato il motivo di questo martellante “mood catastrofistico”? Ragionare solo in termini di copie vendute, audience o click sembra riduttivo.

Il paragone con l’epoca della Stasi stavolta è facile: «Con mio grande stupore – sottolinea Falanga – i media hanno messo in scena un flusso informativo a senso unico con pochissime voci contrarie. È stato interessante anche notare la campagna violenta contro chi organizzava, o anche soltanto dichiarava di voler organizzare, manifestazioni di dissenso».

La comunicazione da “chiudete tutto o moriremo tutti” sembra in contrasto con quello che eravamo abituati a sentire: sacrosante apologie della democrazia, del dissenso e della libera manifestazione di pensiero. Ci avevano ripetuto fino alla nausea che eravamo vaccinati da 70 anni di democrazia, che non avremmo mai più permesso a uno Stato nazionale di violare la nostra libertà. E se anche qualcuno avesse soltanto osato proporlo ci sarebbe stata un’opinione pubblica che si sarebbe opposta in maniera netta.

Falanga è tranchant: «Non credo esistano vaccini per tutto questo. Molte generazioni non hanno mai respirato l’aria di regime, così come altrettanti giornalisti, ma hanno conosciuto timori e insicurezze, ed è proprio nell’insicurezza che germoglia il desiderio di decisioni e personalità forti. Questa narrazione mediatica è figlia della paura e dello smarrimento.  A confronto del 2020, il periodo della Guerra Fredda fu un periodo stabile, c’erano gli Euromissili, è vero, ma c’era anche l’ottimismo, che oggi manca».

Barattare la propria libertà

La Stasi deteneva molti tristi record, tra cui la densità di spie tra la popolazione: una ogni 59 cittadini. Una macchina del controllo che andò ben oltre la realizzazione del Grande Fratello orwelliano.

«Quel periodo storico è profondamente diverso dal nostro e le persone lo sono altrettanto, tuttavia mi ha sorpreso la disponibilità della maggioranza nell’accettare scelte così gravose e dirigistiche».

Dopo la pubblicazione del suo libro molte classi di studenti italiani sono andate a Berlino per conoscere la storia della polizia segreta della DDR. «Una persona che cresceva nel socialismo reale era indottrinata fin dalla nascita: veniva spogliata di ogni pensiero critico, cedeva completamente la propria responsabilità individuale allo Stato. E tutto questo era visto come la normalità».

«Quel cittadino aveva uno Stato che prendeva le decisioni al posto suo e pensava al posto suo. In cambio di una casa, di un lavoro, di un’automobile uguale per tutti. Il patto di quelle società oggi può sembrare inquietante ma era molto chiaro».

Stasimuseum

Sintetizzando: se non posso essere libero allora mi dai tutto quello che mi serve. «Già. Oggi invece i Governi hanno detto: chiudi il tuo negozio. E il negoziante si è chiesto: va bene, chiudo, ma in cambio di cosa?».

In cambio di una promessa di salute, lusinga molto più vaga rispetto alla sicurezza contro un nemico esterno, tangibile, visibile, definito. Per questo i paragoni semantici con la guerra sono stati inopportuni: nella crisi del virus cinese mancava sia l’epica che l’estetica di una contrapposizione armata. Dall’era della Guerra Fredda, in cui c’era una divisione manichea della realtà (bene VS male), siamo passati a un improvviso e diffuso senso del sospetto.

«La rinuncia alla libertà ha un prezzo molto alto, questo nella Germania Est lo avevano capito bene ma nella nostra società attuale una base sempre più larga di persone sceglie di abdicare alla comprensione dei fenomeni sociali.  Comprendere la realtà che ci circonda è uno sforzo che presuppone delle basi culturali, che non tutti hanno. È più semplice e rassicurante lasciare questo sforzo nelle mani del Governo, seguendone poi le direttive, giuste o sbagliate che siano».

L’algoritmo dei social che crea intorno a ogni bacheca un piccolo mondo è la nostra comfort zone, anche per chi vuole crearsi la propria, personale, verità. «Una verità che spesso è soltanto credulità – aggiunge Gianluca – il lavoro dell’algoritmo, nella Germania socialista, lo faceva il Governo».

Hong Kong come nuova Berlino?

Hong Kong sembra essere l’epicentro di una nuova Guerra Fredda, il movimento che lotta per la libertà e l’autonomia si richiama ai valori occidentali, l’eredità più importante lasciata della Gran Bretagna.

Falanga: «Non vedo la presenza degli americani, non vedo una chiara posizione dell’Occidente a supporto della causa della libertà. C’è Pechino, è vero. Ma la domanda da porsi è: chi vede la Cina come una minaccia? Certamente non l’Europa. Il regime comunista cinese è attivo in maniera espansiva fuori dai propri confini, la politica URSS era invece basata su un filone ideologico».

Insomma, ai cinesi interessano gli affari, non le conversioni.

La ribellione da aperitivo

Il sole e il mare fanno sembrare questa mattina di giugno una normale estate, sono ancora al telefono con Gianluca, gli racconto che i primi a uscire in palese “violazione delle distanze di sicurezza” sono stati i più giovani, stanchi di settimane di lockdown e desiderosi di riprendere in mano la propria vita sociale. Il mio pensiero va a tanti ragazzi dell’Est che negli anni ’80, pur di ascoltare i gruppi rock occidentali, incidevano i dischi proibiti nelle lastre delle radiografie. La musica e la voglia di divertirsi fecero cadere il muro più velocemente. Il mio paragone è appena sussurrato ma Falanga lo coglie. «Ecco un’altra analogia, e non è una questione frivola. Dopo due decenni (’60 e ’70) di “pace militarizzata” negli ’80 i movimenti di opposizione al Governo divennero consistenti. Nell’allora DDR le prime ansie di emancipazione arrivavano appunto dai giovani».

«In Germania all’inizio della quarantena, come risposta alle restrizioni, sono stati organizzati dei grandi party, ovviamente sanzionati dalla polizia. Questa attitudine a non accettare limitazioni delle proprie libertà individuali è positiva e indica una certa vitalità in parte della popolazione, oggi come allora».

Ma cosa rimane di tutto questo?

«Il problema dei più giovani è quello di esprimere questa vitalità in maniera consapevole. C’è l’ansia di ritrovarsi, c’è la spensieratezza, ma poi, cosa rimane una volta tornati a casa? Chi adesso ha 20 o 25 anni mi fa sperare, perché forse sono i primi a capire che, se è vero che non abbiamo una dittatura in Europa, è anche vero che siamo controllati, e che tutta questa arrendevolezza al potere nasce da un senso di impotenza».

Questi mesi ci hanno insegnato che la libertà non è ancora un valore acquisito. «La democrazia e sempre quella ma siamo cambiati noi ed è cambiato il mondo. Dobbiamo imparare a cercarci da soli le risposte – conclude Gianluca – al tempo della Stasi reperire informazioni da diverse fonti e farsi una propria idea sul mondo era un’operazione che metteva a rischio la propria vita, adesso basta uno smartphone. I giovani, tra uno Spritz e l’altro, dovrebbero capirlo e fare sentire la propria voce».

Brand Activism

5 esempi di Brand Activism da cui trarre ispirazione

C’è chi, come Oberalp, trasforma i materiali di scarto delle tute da sci in cinture e accessori. Chi, come Loop, realizza packaging riutilizzabili. E chi, come Flowe, si serve di gaming ed educazione finanziaria per spingere le persone ad acquisti più consapevoli e per riforestare il Pianeta.

Esperienze diverse tutte accomunate da una parola: brand activism, ovvero la ricerca di uno scopo, di un impatto positivo sugli altri e sull’ambiente, che superi la mera logica del guadagno.

L’espressione è immortalata in un libro, considerato uno dei testi più importanti sulla materia, “Brand Activism. From purpose to action”, scritto da due guru del marketing come Philip Kotler e Christian Sarkar, per i quali il brand activism è la responsabilità che l’azienda si assume in ambito sociale, con una serie di iniziative volte al raggiungimento di un bene comune.

Dalla teoria alla pratica: abbiamo raccolto cinque esempi di “brand activism” nel mondo, dall’Italia, agli Stati Uniti, fino all’Australia. Li raccontiamo in questo articolo.

brand activism

1. Oberalp lotta contro i perfluorocarburi

Gruppo storico di Bolzano, nato nel 1846 e specializzato nei prodotti di abbigliamento e attrezzature per sport alpini, da circa un decennio ha deciso di puntare fortemente sulla sostenibilità ambientale. Per farlo ha creato un gruppo di lavoro interno dedicato proprio alla Corporate Social Responsibility, che sta lavorando su più fronti.

La riduzione dei perfluorocarburi (si tratta di composti sintetici molto impiegati nell’abbigliamento sportivo) con un impatto dannoso sull’ambiente: l’azienda ha, per esempio, deciso di non utilizzare fluorocarburi nel 65% della sua produzione. Inoltre, ha puntato sul riutilizzo, trasformando i materiali di scarto delle divise di sci in cinture e altri accessori, e sul riciclo di vecchi appendiabiti, che diventano oggetti di design grazie alla collaborazione con l’Università di Bologna.

2. Burwood Brickworks e i carrelli di bottiglie riciclate

Nato a Melbourne, in Australia, il Burwood Birckworks è il centro commerciale più sostenibile del Pianeta, secondo una classifica di Living Future Institute.

A partire dall’utilizzo dell’acqua, che viene riciclata nell’edificio per il sistema di raffreddamento o per l’irrigazione dell’orto sul tetto, aperto ai visitatori che possono coltivare liberamente verdure e mangiarle. L’elettricità necessaria arriva da pannelli solari e da centri di energia pulita, situati nei pressi della struttura. Nel parcheggio esterno sono installate stazioni di ricarica per auto elettriche. Oltre a soluzioni davvero originali: come il carrello della spesa fatto di bottiglie di latte riciclate.

3. Flowe e la better being economy

Apri un conto via app in otto minuti, ottieni una carta in legno certificato e pianti un albero nella regione del Pèten in Guatemala. Questo e tanto altro è Flowe, la startup guidata da Ivan Mazzoleni, che opera all’interno di Banca Mediolanum, il gruppo guidato da Massimo Doris.

L’app fintech, pensata per attrarre i giovanissimi, ambisce a creare un nuovo mercato unendo finanza, educazione, sostenibilità e gaming. Grazie a partnership con altre startup, consente di tracciare l’impatto economico generato dai propri consumi, contribuire alla riforestazione del Pianeta, finanziare progetti idrici in villaggi bisognosi.

“Abbiamo creato un ecosistema, una better being economy, dove l’individuo impara ad avere uno stile di vita più sostenibile, a vivere in armonia con gli altri e con la natura. Il nome stesso del brand e il pittogramma riconducono gli esseri umani a una goccia d’acqua, unica ma parte di un flusso”, spiega Mazzoleni nel giorno della presentazione della startup al Campus Mediolanum, alla presenza del già citato Doris, e di Oscar di Montigny, Chief Innovation, Sustainability & Value Strategy Officer di Banca Mediolanum.

Di Montigny evidenzia nel suo intervento come “Flowe non vuole essere un’azienda, ma una piattaforma, un ecosistema, che aiuta i suoi utenti ad avere consapevolezza dell’impatto dei loro comportamenti sugli altri e sull’ambiente. E sulla base di questa consapevolezza possono migliorarsi continuamente”.

Per coinvolgere un pubblico di giovanissimi, Flowe ha attinto dal linguaggio del gaming. Gli utenti, sulla base di alcune azioni virtuose, ottengono delle gemme, cioè dei punti premio, che possono poi convertire per comprare gift card su Amazon, Decathlon, Media World.

“Rispetto ai competitor abbiamo costruito una dimensione comunitaria, un senso di appartenenza forte che va ben oltre il mondo finanziario. Oggi abbiamo già 15mila utenti sulla piattaforma”, conclude Massimo Doris.

4. Loop e il ritorno del fattorino del latte

“Abbiamo chiesto alle aziende di considerare il packaging come un asset e non come un costo”, spiega a Fast Company, Tom Szaky, imprenditore del New Jersey, fondatore di Loop, specializzata nell’ideazione di packaging riutilizzabili.

Il concetto è un po’ simile a quello del “fattorino del latte” che portava la bevanda in bottiglie di vetro riciclabili direttamente dietro la porta di casa. Il cliente usa il prodotto in un packaging originale e alla fine, quando l’ha consumato, chiama Loop che va a ritirare gratuitamente la confezione, pronta per essere riutilizzata.

L’iniziativa ha già visto l’adesione di brand come Procter & Gamble, Unilever, Mars, Nestlé, PepsiCo e Coca-Cola, tra gli altri.

brand activism case study

5. Refurbed rigenera dispositivi elettronici

Innovazione e sviluppo tecnologico devono vivere in totale armonia con la natura. Questo è il credo di Kilian Kaminski, austriaco, ideatore di Refurbed, piattaforma che si occupa di rigenerare e rivendere dispositivi elettronici.

I vecchi telefoni sono riparati, testati, reimballati e rimessi in vendita. Ex Amazon, Kilian ha iniziato sviluppando un programma di vendita per prodotti rigenerati, internamente al gruppo di Jeff Bezos. Ma poi ha compreso che il colosso non aveva interesse a investire nel settore. Allora ha scelto di “mettersi in proprio”.

I numeri gli hanno dato ragione: in tre anni, l’azienda ha superato i 100 mila clienti.

Non solo eCommerce, il Gruppo Campari compra Champagne Lallier per 21,8 milioni

  • L’operazione, volta ad ampliare la gamma dei prodotti “premium” nel canale dei punti vendita rafforza la presenza di Campari in terra di Francia.
  • L’investimento sembra piacere anche agli azionisti che, attraverso una frenetica attività di compravendita, hanno portato ad un aumento del titolo in Borsa, tutt’ora in crescita ( + 1,80 % rispetto al mese scorso).
  • L’acquisizione di questo “gioiello” enologico, è il terzo colpo messo a segno dal Gruppo Campari nel primo trimestre 2020, oltre a quello della startup italiana Tannico.

Lo scorso 17 aprile Campari aveva avviato una trattativa con la francese SARL FICOMA, holding familiare di Francis Tribaut, per l’acquisizione di una partecipazione dell’80% e, nel medio termine, della totalità del capitale azionario di SARL Champagne Lallier.

L’accordo è stato siglato il 5 maggio, con un esborso di 21,8 milioni di euro da parte della società milanese.

champagne

Campari conquista la Francia e il titolo vola in Borsa

L’operazione, volta ad ampliare la gamma dei prodotti “premium” nel canale dei punti vendita on-premise (ritenuto strategico per le attività di brand building), rafforza la presenza di Campari in terra di Francia, dov’è da poco presente con una propria struttura commerciale.

E l’investimento sembra piacere anche agli azionisti che, attraverso una frenetica attività di compravendita, hanno portato ad un aumento del titolo in Borsa, tutt’ora in crescita.

champagne lallier campari

Lallier, un brand storico

A rendere così appetibile il brand Lallier, oltre che la buona reputazione, è anche la sua grande storicità. La Maison infatti, nasce nel 1906 ad Aÿ, per volere di René Lallier e sua moglie, figlia di importanti vigneron francesi. Sono gli anni dell’ascesa per questo straordinario terroir, riconosciuto e classificato nel 1936 come Village “Gran Cru” in Champagne.

Passa il tempo, ed è il turno di René james Lallier – nipote del fondatore – che, deciso a rivoluzionare l’intera linea di produzione, modernizza gli impianti e le cantine, ormai vetuste.

Anziano, René James Lallier, cede l’attività al suo enologo di fiducia, l’allora giovane Francis Tribaut, che ancora oggi riveste il ruolo di managing director all’interno della società, e continua a dispensare preziosi consigli, forte di una solida esperienza, tra etichette classiche ed esclusive, di cui l’ “Ouvrage” rappresenta la punta di diamante.

Lo Champagne Lallier conserva il proprio posto nell’Olimpo delle bollicine, con una produzione che non supera le 400.000 bottiglie, fedele al celebre motto “less is more”, per un fatturato attorno ai 20 milioni di euro.

LEGGI ANCHE: Campari acquisisce il 49% di Tannico per puntare sull’eCommerce

borsa campari

La terza mossa di Campari

L’acquisizione di questo “gioiello” enologico, è il terzo colpo messo a segno dal Gruppo Campari, prima di quella di Tannico, nel primo trimestre 2020, assieme all’acquisto del distributore francese  Baron Philippe de Rothschild France Distribution (Rfd) (per 54,6 milioni di euro) e alla joint-venture con la Ct Spirits Japan.

La scelta di uno Champagne, può sembrare lontana dalla logica Campari, focalizzata soprattutto sui superalcolici – che garantiscono un ritorno di gran lunga superiore a quello del vino -, ma in realtà è motivata da ben due elementi: in primo luogo dalla volontà di aumentare la propria quota di mercato in Francia e, in secondo luogo dal fatto che lo Champagne è considerato un prodotto di lusso, capace di fidelizzare il consumatore al marchio.

Il Gruppo Campari continua dunque, a passo veloce, la marcia conquistatrice in Europa, fagocitando icone alcoliche di forte appeal, che porteranno non solo ad una diversificazione dell’offerta, ma anche ad una maggiore copertura del mercato, e quindi ad un ruolo sempre più rilevante nel commercio mondiale degli spirits e non.

Nasce #ImparaConTikTok, il programma che unisce apprendimento e divertimento

  • Su TikTok è in arrivo un programma a lungo termine che riunisce esperti, associazioni, educatori, creator con abilità e competenze differenti per creare un ecosistema di contenuti di taglio educativo.
  • Dallo sport alla cucina, dall’arte al lifestyle, dai tutorial ai life hack, i contenuti didattici hanno già totalizzato oltre 225 milioni di visualizzazioni solo in Italia.
  • Gallerie degli Uffizi, Unione Nazionale Consumatori, i celebri chef Bruno Barbieri e Damiano Carrara, l’associazione no-profit Diversity tra i primi partner.

La piattaforma per video brevi da dispositivi mobili si evolve, andando ad ampliare e diversificare i suoi contenuti con video di taglio educativo e didattico, che si  affiancano a quelli di intrattenimento.

La costante condivisione e infusione di conoscenze ha visto un considerevole aumento in piattaforma, specialmente nell’ultimo periodo, conseguenza della naturale evoluzione di TikTok che ha rivelato la sua potenzialità, diventando una sorta di enciclopedia virtuale da tenere comodamente nel palmo della mano, rendendo l’apprendimento accessibile e sfruttando al contempo l’incredibile creatività dei suoi utenti.

Nasce così il programma #ImparaConTikTok, volto a divulgare i video didattici, dalla letteratura allo sport, dalla musica al lifestyle, dalla cucina ai viaggi, fino alle questioni sociali. Sono, infatti, innumerevoli i contenuti condivisi dai creator che coprono una vasta gamma di categorie, tanto che il tag ufficiale conta già oltre 225 milioni di visualizzazioni e nell’ultimo periodo è tra i hashtag più popolari su TikTok.

Chi ha già aderito al programma di TikTok

Un cambio significativo di direzione per TikTok, come ha commentato anche Rich Waterworth, TikTok General Manager EU: “Fin dal suo lancio, nel 2018, TikTok è rapidamente diventata una destinazione di riferimento per l’intrattenimento in video pillole brevi. Ora, il nostro obiettivo è costruire su questa eredità, riunendo sulla stessa piattaforma divertimento e apprendimento, offrendo così alla nostra community un ecosistema ricco e diversificato di contenuti”.

In Italia, tra i primi ad aver accolto con entusiasmo l’iniziativa:

  • le Gallerie degli Uffizi di Firenze (@uffizigalleries), primo e unico museo italiano a partecipare alla Settimana dei Musei su TikTok con una diretta streaming, che avvicina all’arte con i suoi video ricchi d’inventiva e spiccato senso dell’umorismo anche le generazioni più giovani.
  • L’Unione Nazionale Consumatori (@massimilianodona) che proprio in questi giorni con #cucinasenzasprechi sta favorendo la conoscenza del tema dello spreco alimentare su TikTok.
  • L’associazione no-profit Diversity, presieduta da Francesca Vecchioni, che attraverso i video di TikTok promuoverà la valenza positiva della diversità, una concezione del mondo che valorizzi appieno l’importanza delle differenze e della molteplicità, patrimonio prezioso per tutti e tutte.

Si aggiungono anche alcune delle celeb più popolari su TikTok che già realizzano i contenuti didattici nel proprio stile personale ed inconfondibile, come gli chef Bruno Barbieri e Damiano Carrara.

LEGGI ANCHE: 10 brand da seguire su TikTok per trovare l’ispirazione

Tra i creator più amati e rappresentati di #ImparaConTikTok c’è Aurora Cavallo, meglio nota come @cooker.girl: soli 18 anni, ma una passione travolgente per il mondo della cucina condivisa in brevi pillole da 60 secondi che le hanno permesso di avere un seguito di oltre 150 mila follower in pochi mesi.

Marco Martinelli, @marcoilgiallino, scienziato e cantante, rende la scienza e la chimica semplice e accattivante, mostrando curiosità e semplici esperimenti da rifare a casa.

Sulla piattaforma trovano spazio anche contenuti volti all’insegnamento e alla scoperta delle lingue straniere: le porte della Cina e della cultura cinese si spalancano con i video di Liz (@lizsupermais), mentre sono Norma (@normasteaching) e The Cool Professor (@thecoolprofessor) a svelare i segreti dell’inglese.

Lucia Andreoli (@luciaandreoli), invece, trasforma stoffe e vecchi tessuti in splendidi abiti:così anche il cucito viene riscoperto diventando la più social e affascinante delle materie.

“Vorremmo che le persone arrivassero su TikTok non solo per il divertimento, ma per imparare qualcosa di nuovo, acquisire una nuova abilità o semplicemente essere ispirati a fare qualcosa di nuovo, che non avevano mai fatto prima”, aggiunge Rich Waterworth.

Black Lives Matter anche in pubblicità o ci sono ancora brand in odore di nostalgia?

Black Lives Matter, brand e pubblicità: chi è pronto a cambiare (e chi no)

  • Nel momento in cui le proteste infiammano gli Stati Uniti e il mondo intero, nell’occhio del ciclone sono finiti anche noti brand.
  • Aunt Jemina, Uncle Ben e Cream of Wheat da sempre utilizzano “testimonial” afroamericani stereotipati.
  • Queste immagini sorridenti e compiacenti servirono agli albori dei marchi per edulcorare la realtà della schiavitù.

 

Nel momento in cui sto scrivendo questo post, sui social ha trovato terra fertile una nuova ondata di sgomento: HBO Max ritira “Via col Vento” – momentaneamente e per permettere l’inserimento un disclaimer che sia in grado di contestualizzare l’epoca storica nel quale è ambientato il film (che probabilmente verrà fatto da un esperto di storia e cultura afroamericana) –  un classicone della filmografia mondiale.

La decisione del broadcaster è dovuta all’impatto globale che hanno avuto l’insensato omicidio di George Floyd e le manifestazioni mondiali nate in seno al movimento attivista internazionale Black Lives Matter (movimento che non nasce dall’omicidio Floyd ma in risposta all’assoluzione dell’assassino di Trayvon Martin, vi rimando al sito ufficiale dell’associazione per conoscerne meglio la storia).

LEGGI ANCHE: Il revisionismo ai tempi dello storytelling e le scelte dei Brand sugli errori del passato.

Sotto accusa anche le opere d’arte: primo bersaglio diverse statue di schiavisti e coloni che sono state abbattute negli U.S.A. (anche quella di Cristoforo Colombo) e nuovi bersagli in tutto il mondo. A Milano viene messa in discussione (e imbrattata) la statua di Indro Montanelli, ubicata nel parco stesso che porta il suo nome, mentre a Londra pare abbiano già messo sotto teca protettiva quella di Winston Churchill in attesa delle prossime manifestazioni.

Ma mentre il dibattito verte su censura vs atto obbligato, il problema razziale nella cultura e nell’intrattenimento si esaurisce qui?

Personalmente ritengo che la storia non vada né revisionata né cancellata; sarà banale ma da lei si può solo imparare e migliorare, ma per farlo bisogna conoscerla. E l’intento di questo post non è quello di sposare uno schieramento ma fare luce proprio sulla storia di tre particolari loghi.

Alla fine la pubblicità è anche cultura, quella in cui nasce e quella che crea.

black lives matter

Cosa succede nella comunicazione dei brand?

Nei giorni scorsi molti brand, nazionali, internazionali, grandi o piccoli hanno preso posizione soprattutto sui social, dove (spesso senza contesto e slegati da qualsiasi narrazione di marca) sono state pubblicate immagini completamente nere, a sostegno della protesta.

E mentre la catena di supermercati svizzera Migros ritira dagli scaffali i “Moretti”, c’è anche chi con la “nostalgia” e sulla mitizzazione decontestualizzata dei suoi testimonial, soprattutto sugli scaffali dei mass market, continua a contribuire alla consistenza di alcuni brand.

LEGGI ANCHE: Politicizzare un Brand: istruzioni per l’uso

C’è chi cambia e chi no: da Land O’Lake ad Aunt Jemina

Black Lives Matter anche in pubblicità o ci sono ancora brand in odore di nostalgia?


Il brand Land O’Lakes ha scelto di eliminare la donna nativa americana che offre del burro dal suo logo, segnando la fine di una testimonial controversa con quasi 100 anni di storia alle spalle, eliminando una “testimonial scomoda”, soprattutto alla luce della sempre maggiore presa di coscienza da parte del pubblico.

Ma quelli che probabilmente sono gli esempi più eclatanti di testimonial che potrebbero (o dovrebbero?) essere discussi sono tre: Aunt Jemina, Cream of Wheat e Uncle Ben, brand creati in un anfratto della storia, tra la Guerra Civile americana e il Civil Right Act.

Scott vs. Sandford: quando stereotipo e discriminazione nascono in un’aula di tribunale

Facciamo un passo indietro: perché questi tre brand dovrebbero essere incriminati, perché utilizzano testimonial di colore? No, è perché hanno pescato a piene mani negli stereotipi razziali, tutto in regola e con il pieno favore della legge.

Secondo un post pubblicato nel blog dello Smithsonian National Museum of African American History and Culture, l’incentivo all’utilizzo di figure caricaturali nella cultura popolare a danno della comunità afroamericana (inclusa la Mami interpretata da Hattie McDaniel e della quale Aunt Jemina è un’omologa), affonda le sue radici nelle aule di un tribunale.

Gli stereotipi sugli afroamericani sarebbero infatti cresciuti dopo la decisione – nel 1857 – del giudice della Corte Suprema Roger B. Taney, che nel caso “Dred Scott vs. Jhon F.A. Sandford”, sentenziò che le persone di origine africana non fossero cittadini statunitensi e non avessero diritto di adire a un tribunale federale.

La storia di Aunt Jemina

Ieri, , stando a quanto riportato da Usa Today, la Quacker Oats, proprietaria del brand, ha ritirato dal mercato il logo che – per sua stessa ammissione – rappresenta uno stereotipo razzista.

Black Lives Matter anche in pubblicità o ci sono ancora brand in odore di nostalgia?

“Zia Jemina” è una vera e propria istituzione in America che nasce dalla tradizione orale, e che è stata resa popolare dagli spettacoli per menestrelli dopo la Guerra Civile.

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Marilyn Kern-Foxworth nel suo libro “Aunt Jemina, Uncle Ben and Rastus, Black in advertising, Yesterday, Today and Tomorrow”, scrive proprio che uno dei soci fondatori di Aunt Jemina ne sentì la storia da un menestrello nel 1889.

Vista la sua data di nascita possiamo dire che questo è il capostipite dei tre brand dei quali vogliamo parlare, e quello con il seguito più interessante: come si diceva qualche riga più in lato, Aunt Jemina rappresenta lo stereotipo della governante-nutrice di colore, la stessa Mami di Via col Vento.

Il personaggio venne interpretato per la prima volta nel 1890 da Nancy Green, che il Brand descriveva come una “narratrice, una cuoca e una lavoratrice”, sorvolando sul fatto che fosse nata schiava nel Kentucky del 1834.

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Successivamente il ruolo venne affidato ad altre donne: Anna Robinson, il cui retroscena è poco chiaro ma pare che il brand dichiarò che dopo aver viaggiato negli Stati Uniti in lungo e in largo fosse stata i grado di acquistare una casa da 22 camere (ha fatto i soldi insomma), a cui seguirono altre donne per poi arrivare all’attrice Aylene Lewis, che veste i panni di Aunt Jemina in un ristorante del Brand a Disneyland dove “serve” frittelle e “posa” per le foto con gli ospiti.

…E Mrs. Butterworth’s?

Mrs. Butterworth's

Strano, è anche lei una governante, tenera, sorridente e di colore. Ed anche lei è immortalata su una bottiglia di sciroppo per pancake, di un brand facente parte del colosso CPG Unilever che lo acquistò nel 1961 e più recentemente passata sotto il controllo di Conagra.

Interpellati pochi mesi fa da AdWeek, in una mail di risposta Dan Skinner – responsabile della comunicazione del brand – scriveva: “Non abbiamo mai discusso della razza, della religione o dell’etnia di Mrs. Butterworth’s, se non per dire che è materna e conosciuta in tutto il mondo per il suo delizioso sciroppo”. (Nel momento in cui questo post è stato redatto pare che anche Mrs. Butterworth’s sarà ritirato dal mercato o subirà un rebranding).

Cream of Wheat

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Passarono pochi anni dalla nascita di Aunt Jemina quando un brand di cereali, Cream of Wheat, iniziò a usare un’immagine molto simile per sponsorizzare il suo prodotto.

In un post del 2013, Kirsten Delegard co-founder  del Mapping Prejudice Project presso l’Università del Minnesota, dichiara che Emery Mapes, il fondatore di Cream of Wheat, disegnò la sua confezione scegliendo come modello un ex schiavo, “Rastus”, fondamentale per il successo di questo prodotto.

Black Lives Matter anche in pubblicità o ci sono ancora brand in odore di nostalgia? cream of wheat

Ma dell’immagine controversa utilizzata da Cream of Wheat ne parlò, in un saggio del 2000, anche David Pilgrim – professore di Sociologia alla Ferris State University – nel quale afferma che Mapes, ex tipografo, trovò l’immagine di un cuoco nero in un vecchio album. Solo negli anni ’20 del secolo scorso, Mapes diede 5 dollari ad un cameriere di colore perché posasse per il suo logo.

Lo Chef di Cream of Wheat è sicuramente la rappresentazione stereotipata più longeva di quello che viene chiamato “lo Zio Tom”, risalente al romanzo del 1852 La capanna dello Zio Tom.

Molto interessante quello che lo Smithsonian scrive in merito:

Lo stereotipo dello Zio Tom ha una natura sottomessa, obbediente e in cerca della costante approvazione bianca.

Nel suo saggio Pilgrim aggiunge che la caricatura di Tom, come quella di Mami, nasce nel periodo pre-bellico in difesa della schiavitù.

Come potrebbe essere sbagliata la schiavitù – sostennero i suoi sostenitori – se i servi neri, i maschi (Tom) e le femmine (Mami), se sono così felici e leali? – David Pilgrim

Ed è proprio questo il punto fondamentale, quello a cui dobbiamo puntare non è il revisionismo odierno ma quello che è stato fatto in passato per “rendere più piacevole”, appianare il disgusto, di fronte ad uno degli atti peggiori compiuti dall’umanità.

Uncle Ben

Black Lives Matter anche in pubblicità o ci sono ancora brand in odore di nostalgia?

Secondo il brand, il nome “Uncle Ben” venne adottato nel 1946, solo quattro anni dopo che Forrest Mars – figlio di Frank Mars, il magnate americano che fondò l’omonima compagnia – acquistò i diritti per un riso parboiled facile da cucinare.

Sul sito ufficiale “il nome dello zio Ben deriva da un contadino nero texano, conosciuto appunto come Zio Ben, che coltivava riso così bene che la gente lo rese uno standard d’eccellenza. Il signore così orgoglioso e dignitoso che ha impersonificato i nostri prodotti era un amato Chef e cameriere di Chicago che si chiamava Frank Brown”.

Anche in questo caso, la storia però dipinge un quadro nettamente diverso: Ronald LF Davis, professore alla California State University, Northridge, nel suo articolo “Racial Etiquette: The Racial Customs and Rules of Racial Behaviour in Jim Crow America”, fa notare come gli uomini di colore fossero chiamati “Boy”, “Uncle” e “Old Man” per “indicarne l’inferiorità durante l’era di Jim Crow”, periodo di segregazione e discriminazione seguito alla Guerra Civile e che perdurò fino al Civil Right Act del 1964.

Oltre al naming, il New York Times sottolinea che la raffigurazione di Uncle Ben, munito di papillon evocava i servi e i facchini dei pullman, tutti uomini afroamericani, alcuni di loro ex schiavi, che servirono i passeggeri bianchi sui vagoni ferroviari dal 1860 al 1960.

Digital Hubs, l’evento gratuito per scoprire l’evoluzione del banking

La digitalizzazione pervade ormai ogni settore e i mercati, così come le tecnologie, sono in continua evoluzione. Per restare al passo è necessario continuare a informarsi e arrivare per primi a conoscere l’innovazione lì dove avviene.

Venerdì 19 giugno, ad esempio, illimity farà il punto durante il suo evento sul tema della digitalizzazione e sul suo nuovo modello Open Plaform.

Ad appena 9 mesi dal lancio sul mercato illimitybank.com – la banca digitale diretta di illimity – avrai la possibilità di conoscere una novità assoluta per il settore: gli illimity Hubs.

Una banca che va oltre se stessa e si apre fino a diventare una piattaforma cross industry, che mette al centro le persone con un innovativo modello di collaborazione, sviluppato in piena ottica open banking ma anche open platform.

Potrai seguire il debutto dal vivo, con due partner di eccellenza, entrambi con DNA tecnologico: MiMoto, first mover nello sharing di scooter elettrici ha rivoluzionato il concetto di mobilità urbana e sostenibile, e Fitbit, azienda che aiuta le persone a condurre una vita più sana e attiva offrendo dati, ispirazione e consigli per raggiungere obiettivi di forma fisica per il benessere.

Prenota il tuo posto per seguire l’evento in streaming di illimity, venerdì 19 giugno alle ore 14.00

illimity Hubs per una nuova user experience

Si tratta di una vera novità, perché con gli illimity Hubs, la banca vuole andare oltre il tradizionale modello di partnership in un’ottica cross industry finalizzata ad anticipare e rispondere in modo sempre più efficace alle esigenze dei clienti attraverso una user experience unica e integrata, che, per la prima volta, inizia e termina all’interno della piattaforma di illimitybank.com.

All’interno degli illimity Hubs, infatti, è possibile utilizzare le funzionalità offerte dai partner attraverso l’integrazione nella piattaforma di illimitybank.com e attivare servizi sinergici con l’operatività bancaria.

Un esempio? Si può usare la possibilità di creare progetti di spesa connessi alla misurazione dei passi fatti e registrati attraverso Fitbit con l’obiettivo di raggiungere la somma necessaria a realizzare i propri sogni o compiere determinati acquisti.

Oppure, integrando l’app di MiMoto, si può prenotare uno scooter con rapidità grazie alla funzione di Geomapping, ottenere la nota spese dei propri viaggi e avere una carta di debito elettronica personalizzata MiMoto.

Inoltre, grazie ai sistemi evoluti di data analysis e di intelligenza artificiale, vengono forniti suggerimenti personalizzati che combinano l’attività del cliente con i suoi consumi e abitudini quotidiane.

Dalla banca diretta fully digital a un ecosistema evoluto

Gli illimity Hubs disponibili dal 16 giugno e inizialmente riservati ai clienti dei partner che apriranno un nuovo conto illimity, saranno disponibili per tutti i clienti della banca a partire da luglio.

“In piena logica open banking, abbiamo creato un’unica piattaforma che consente ai clienti di accedere alle app di partner d’eccellenza non finanziari in un ecosistema evoluto sia in termini di offerta sia di user experience interconnessa. Grazie al debutto degli illimity Hubs, la banca diretta fully digital di illimity, dimostra ancora una volta di saper andare oltre ridefinendo le frontiere del banking e mettendo al centro il cliente e la sua quotidianità”, ha commentato Carlo Panella, Head of Direct Banking and Chief Digital Operations Officer di illimity.

Per saperne di più sull’evoluzione del banking e su illimity Hubs, prenota il tuo posto per seguire l’evento gratuito in streaming che si terrà il prossimo 19 giugno alle ore 14.00.