Cosa e quanto rischia la tua azienda senza un purpose chiaro
Il problema dei grandi modelli teorici (a maggior ragione quelli che parlano di purpose) è che spesso vengono bollati nelle aziende come non applicabili.
Si tratta di framework anche molto ambiziosi, che puntano a rivoluzionare l’organizzazione aziendale entrando in flussi precisi, come l’acquisizione del cliente o l’impatto che la produzione ha sull’ambiente, ma che il più delle volte si scontrano con la necessità dei board di giustificare agli azionisti il perché di certe scelte, e soprattutto i risultati economici delle stesse.
Questa tacita resistenza, che coinvolge un po’ tutte le grandi sfide che il ventunesimo secolo ci sta prospettando, vale per quei tentativi di entrare in sistemi ingessati e rassicuranti che si sono stabilizzati con forza nel secolo scorso, e che non sembrano essere influenzabili da fattori seppure evidenti: basti pensare al dibattito sulla trasformazione che si sta subendo (e non guidando) nell’organizzazione del lavoro, che in un anno è stata totalmente messa in discussione dall’esplosione della pandemia da SARS-CoV-2.
In quanti, oggi, possono sostenere che il lavoro da remoto non possa funzionare o che non sia necessaria una revisione nelle normali policy di gestione del personale, nobilitando il work-life balance?
Eppure, molte aziende ancora si muovono con poca disinvoltura in una logica di resistenza al cambiamento piuttosto marcata.
Probabilmente in molti ancora tendono a negare una necessità di rimettere al centro dell’agenda la ridiscussione dei modelli precostituiti.
La necessità di assolvere un ruolo (attraverso un purpose)
Come in ogni fase di trasformazione, la pandemia ha avviato un processo di revisione totale di molti aspetti che è appena cominciato. Gli effetti che l’esperienza ha lasciato nelle società di tutto il mondo sono tangibili e irreversibili.
Al di là dei cambiamenti cui abbiamo assistito in ambito eCommerce (prevedibili visto le restrizioni), le evidenze che abbiamo raccolto riguardano una mutazione nella stessa idea di consumo da parte delle persone, più vicina a un concetto di community che non di individualità.
È dello scorso anno una dichiarazione molto interessante, a questo proposito, di David Morrisey, Director of Strategy di Camp + King:
“Supponendo che la posta in gioco di base del valore, della disponibilità e della convenienza sia soddisfatta, i consumatori possono utilizzare un nuovo quadro quando decidono tra i marchi: fai del bene per me/noi, fai del bene alla tua gente, fai del bene al mondo.”.
Si noti quel “me/noi”.
Il consumo di prodotto è sempre stata una faccenda intima e personale: acquisto un prodotto perché va bene alle mie esigenze, tutt’al più a quelle dei miei cari. Oggi, quel “noi”, indica un passaggio di stato in cui la sfera personale si estende alla comunità che accoglie l’individuo, e si estende a tutto il pianeta.
Un approccio più consapevole e “umanista”, in continuità con l’evoluzione che stiamo vivendo che vede la persona al centro di tutti i processi di marketing.
Secondo il rapporto “2020 Global Marketing Trends -Bringing authenticity to our digital age” realizzato da Deloitte UK, “proprio come le persone si aspettano che i marchi li trattino come esseri umani e non solo come transazioni, così essi si aspettano che i marchi agiscano in modo più umano”, muovendosi “con uno scopo attorno cui agire che possa fargli guadagnare lealtà, coerenza e rilevanza nella vita dei consumatori.”
Un approccio più umano, appunto, dove anche la tanto citata relazione fra individuo e azienda assume la forma di un rapporto fra due esseri emotivamente coinvolti, che vivono la produzione e il consumo di beni e servizi come azioni volte al bene singolare e collettivo, e non come un semplice gesto opportunistico che estragga valore da uno scambio di valuta.
Ciò porta una personalizzazione nel rapporto, che al di là del veicolare una customer experience che sappia deliziare il palato del consumatore, permette una maggior memorabilità della marca: a confermalo è il rapporto di Accenture Making it personal, che già nel 2018 sottolineava la necessità di personalizzare al massimo l’esperienza dell’utente allo scopo di rafforzarne l’impianto relazionale.
L’umanizzazione dei rapporti fra brand e consumatore è anche altro: parliamo di un evidente passaggio di stato del modo di concepire il ruolo delle aziende e anche il “perché” esse agiscano.
In una relazione che si fonda sempre di più su presupposti dove a essere centrali sono il “noi” e una visione meno “profittevole”, è chiaro che a diventare centrali diventano i fattori che “umanizzano” i brand: ed ecco rispuntare il purpose, come elemento differenziante e unificante.
Questo elemento differenziante e unificante permette lo sviluppo a livello relazionale di un percorso comune che deve condurre a un traguardo più alto, in cui ritrovarsi per uno scopo comune, innalzando la ragione per cui ci si incontra (lo scambio fra un bene o un servizio e della moneta).
Alcuni numeri per spiegare il fenomeno: secondo Forbes circa il 90% dei consumatori è più propenso a supportare le brand che dichiarano apertamente di avere uno scopo, un purpose.
Sempre secondo la rivista americana, oltre il 70% dei consumatori Millenial e GenZer preferisce marche con cui si identifica, o che, in altre parole, siano di ispirazione, perché in esse rivede ciò in cui crede.
Il principio di identificazione diventa decisivo per permettere alle persone di comprendere se ciò che i marchi fanno sia di loro gusto: una leva che si può trovare nella scelta delle amicizie, o meno poeticamente, nei partiti politici.
La scelta di un prodotto è percepita, a livello individuale, come espressione di un comportamento sociale, e come tale viene trattata: una forma di gestualità atta a rafforzare il ruolo sociale della marca e il suo impatto sulla comunità.
Ciò che agli inizi del millennio avevamo imparato a conoscere come “sostenibilità”, con tutti gli annessi e connessi del caso, da aspetto nobilitante (ma non certo decisivo nel definire un’azienda) oggi diventa fattore indispensabile e non più derogabile. Se le aziende non agiscono secondo logiche sostenibili, semplicemente, vengono progressivamente ignorate dai consumatori a favore dei competitor.
Chiaro che la keyword “sostenibilità” si associa al tema ambientale, nonostante se ne parli anche in ambito società: e, tornando al discorso pandemia, il nostro rapporto con l’ecosistema terreste e l’inquinamento è decisamente cambiato durante la crisi del coronavirus.
Secondo una ricerca condotta dall’Institute for Business Value (IBV) pubblicata nel 2020, il 54% dei consumatori è disposto ad acquistare prodotti e servizi da marche che sono sostenibili e si accreditano come responsabili nei confronti dell’ambiente.
Source: Institute for Business Value
Questo vale anche per i talenti (e quindi per una delle aree più strategiche delle imprese, le HR): il 71% dei lavoratori sostiene di preferire aziende attente alla sostenibilità ambientale.
Il 48% degli intervistati (ben 14.000 adulti provenienti da nove paesi) è pronto addirittura ad accettare una retribuzione inferiore, se offerta da un’azienda attenta al proprio impatto ecologico.
Il punto di vista delle aziende
17 milioni di video. 159 paesi. 10 miliardi di views, e infine 220 milioni di dollari raccolti: sono i risultati dell’Ice Bucket Challenge, la sfida a colpi di secchi d’acqua gelata lanciata per raccogliere fondi contro la SLA che conquistò tutto il mondo nel 2014.
Dietro a quest’iniziativa c’era Porter Novelli, agenzia operante nel mondo delle PR dal 1972.
L’Ice Bucket Challenge fu una delle prime iniziative a mostrare come, se uniti da un principio unificante, le persone possono generare collettivamente valore.
In un report pubblicato lo scorso agosto sul tema, la Porter Novelli ha sottolineato in che misura l’importanza in una chiara purpose venga osservata e compresa da chi le aziende le guida: uno dei dati più indicativi è che oggi 9 leader aziendali su 10 credono che, se guidate da uno scopo, i brand abbiano un vantaggio competitivo nel mercato.
Segno che anche le prime linee, executive in testa, stanno prendendo coscienza che non c’è solo un aspetto nobilitante quando si lavora secondo un purpose: il cosiddetto purpose-driven business può diventare importante anche per i fatturati.
L’85% degli intervistati, infatti, sostiene come le aziende che si muovano secondo questa visione più “ideale” riescano a generare profitti: in che modo?
Il 99% ritiene che il risultato sia possibile grazie al miglioramento della reputazione, al miglioramento del processo di reclutamento e gestione delle risorse umane (95%), con l’aumento della fiducia dei consumatori (93%), e della loro lealtà nei confronti della brand (93%), oltre che a un aumento sensibile nella propensione alla raccomandazione e alle azioni di advocacy (92%).
I vantaggi finanziari, quindi, si evidenziano da subito dalla capacità non solo di attrarre clienti, ma anche di tenerli legati a sé: una delle difficoltà maggiori che si sono registrate a maggior ragione in questi ultimi 18 mesi è stata proprio rimediare a una generale ridiscussione del concetto di lealtà verso i brand, dato che, ad esempio, secondo lo State of Consumer Behaviour il 48.7% dei consumatori, durante la pandemia, ha rimpiazzato prodotti che abitualmente acquistava nei punti vendita fisici con alternative trovate online.
Considerato che le tendenze spingono verso un consumatore meno fedele e più propenso al cambiamento, la scoperta di nuovi canali di approvvigionamento di beni e servizi è un coefficiente di difficoltà in più da considerare: per questa ragione, farsi preferire per motivi che scavalcano i vantaggi empirici come prezzo o velocità di ricezione, diventa decisivo.
Basta darsi un proposito per affermarsi sul mercato? È sufficiente scegliere una delle tante battaglie sociali per riuscire a farsi preferire dai consumatori?
Ovviamente no. Il Purpose, con la P maiuscola, è parte integrante della brand identity di una marca e non può certo definito sulla base di improvvise quanto improvvide scelte.
La necessità principale è quella di valorizzare il proprio carattere e metterlo a sistema nello sviluppo di quella che, secondo l’approccio riconducibile allo Storytelling Management, è riconducibile alla definizione di piattaforma narrativa.
Scegliere, infatti, per quale nobile scopo muoversi, come muoversi, prendendo posizione nei confronti delle grandi sfide che l’umanità (e non solo il mercato) sta affrontando, è una scelta equivalente a cambiare modello di business: una direzione da prendere strategicamente e con consapevolezza, avendo ben chiaro che il rischio è infrangere le relazioni con il proprio target.