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connected tv

Come le Connected TV stanno cambiando il settore della pubblicità televisiva

Così come il cambiamento dei gusti e delle abitudini dei consumatori è da sempre il punto di partenza del marketing, intento a monitorare e anticipare le innovazioni della società, allo stesso modo il terremoto che sta per avvenire nell’ambito della pubblicità televisiva non può certo passare inosservato agli occhi dei marketer.

La diffusione della televisione ha rappresentato uno step importante nella nostra cultura, è entrata a far parte dell’ambiente domestico, e come sottolineato dal sociologo Joshua Meyrowitz, ha svolto il compito di far entrare la società esterna all’interno delle case, diventando un grande potenziale da sfruttare per la pubblicità.

Dal 1941, anno del primo spot televisivo, l’industria pubblicitaria della tv è stata inarrestabile e in continua crescita, fino ad ora, momento nel quale lotta per mantenere il proprio posto privilegiato accanto ai media digitali.

connected tv CTV

La diffusione delle Connected TV

La televisione rimane a tutt’oggi il device più utilizzato, seppur con delle sostanziali differenze di fruizione da parte del pubblico, che mostra necessità e gusti diversi rispetto al passato.

Accanto al termine di tv generalista si sente ora sempre più parlare delle connected tv.

Quali sono le differenze?

  • La tv lineare, la cosiddetta televisione tradizionale, permette allo spettatore di guardare un programma nel momento in cui viene trasmesso, o di registrarlo per visualizzarlo in un secondo momento;
  • la connected tv (CTV), è un dispositivo che consente alla tv di connettersi ad Internet per visualizzare contenuti video in streaming. Il dispositivo può essere interno, come nel caso delle Smart Tv (già predisposte per la distribuzione di contenuti video streaming), o esterno, ad esempio le console di gioco come Xbox, Playstation, o dispositivi come Apple Tv, Roku).
    La CTV non è dunque una sostituzione del precedente media, ma un’evoluzione dello stesso, a sottolineare la continua validità del concetto di “Remediation” coniato da Jay David Bolter e Richard Grusin, nato da una definizione di Marshall McLuhan, il contenuto di un medium è sempre un altro medium.
    I media interagiscono continuamente tra loro, per cui un media non viene soppiantato da una nuova tecnologia ma si adatta a nuovi formati, proprio come accade nel passaggio dai media analogici a digitali;
  • l’over the top (OTT) è invece il meccanismo di distribuzione dei contenuti video tramite i meccanismi di CTV. I contenuti vengono distribuiti online in modalità streaming gratuiti grazie alla pubblicità, come nel caso di Youtube, o in modalità video on demand (VOD), tramite abbonamento, come nel caso delle piattaforme Netflix, Amazon Prime, e così via.

streaming media players

A partire dallo scorso anno, ed in particolare in questi primi mesi del 2021, stiamo assistendo ad un boom dello sviluppo dei dispositivi CTV e dei meccanismi OTT, complice anche la pandemia, che ci ha costretti a restare in casa e ad occupare anche quella parte di tempo libero che generalmente avremmo trascorso all’aperto.

Si tende a privilegiare la scelta del contenuto, rispetto ad una fruizione passiva.

Se la tv tradizionale è vista come un’abitudine, la CTV è definibile come una scelta, effettuata con consapevolezza dal consumatore, che esige per questo un contenuto originale, di qualità, che consenta un’esperienza personalizzata e non più lineare.

Siamo più lontani dalla “Teoria del proiettile magico” degli anni ’40, che considera la comunicazione del media come un processo diretto di stimolo-risposta, in grado di colpire la massa passiva, che reagirà nella stessa maniera. Oggi sappiamo che il pubblico è tutt’altro che inerme, e gli studi di marketing sono concentrati proprio sull’analisi delle differenze del target.

adoption of connected tv devices

Secondo la ricerca di Parks Associates, nel dicembre 2020 il 56% delle famiglie statunitensi possedeva una smart Tv, e il 43% un lettore multimediale, in aumento rispettivamente del 50% e 39% rispetto al terzo trimestre dell’anno precedente.

La pubblicità del futuro sarà sulle CTV

Storicamente, la televisione detiene la quota dominante della spesa pubblicitaria, iniziata nel 1940 con le concessioni di licenze della Federal Communication in Usa alle varie stazioni televisive, dando il via a quello che è poi diventato il colosso dell’industria pubblicitaria.

Con le nuove tecnologie digitali lo scenario va però modificandosi: oggi il pubblico consuma una più ampia alternativa di contenuti, cosa che gli operatori del marketing non possono ignorare. Sulla base dei dati Oracle ID Graph in USA, ogni consumatore utilizza fino a 6 diversi device, anche per una questione lavorativa, accentuata ancora una volta dalla situazione pandemica.

La ricerca pubblicata da SpotX a Luglio 2020 evidenzia che nel Regno Unito e in Italia il 60% degli spettatori guarda tv connessa almeno una volta al mese, e in Spagna il 56% dichiara di guardarla regolarmente.

La stessa ricerca sottolinea inoltre che in Italia 86% degli spettatori ha un’età compresa tra 18-24 anni, ma il trend sembra in crescita anche tra i soggetti di maggiore età, considerando l’accelerazione massiccia dei media digitali causato nell’ultimo anno dal lockdown dovuto al Covid-19, che ci ha reso tutti un po’ più connessi.

Diminuisce dunque il numero di consumatori che fruiscono della pubblicità tradizionale, secondo un sondaggio IAB Europe Attitudes to digital video advertising, le tv connesse sono la chiave per la pubblicità del futuro.

I sistemi CTV e i meccanismi OTT stanno portando ad un minor numero di sottoscrizioni degli abbonamenti via cavo, definito come il fenomeno “cord-cutting”, entro il 2023 si prevede un aumento degli abbonati OTT da 133 milioni del 2019 fino a 159 milioni.

La pubblicità televisiva rimane sempre un ottimo mercato, ma bisogna lavorare per innovarla: utilizzando i dati del pubblico connesso è possibile indirizzare i messaggi pubblicitari solo agli interessati. Il mercato tv della pubblicità tradizionale si restringe per lasciare spazio a quella del digitale, un mercato ancora giovane e da esplorare.

Con le CTV, gli advertiser hanno la possibilità di rivolgersi in modo personale e più coinvolgente nei confronti dei telespettatori, di adattare il messaggio pubblicitario al pubblico e sfruttare quindi la possibilità di ottenere un maggior ritorno sulla spesa pubblicitaria stessa.

Se l’advertisement della tv tradizionale si riferisce alla massa perché non prevede un lavoro a monte di profilazione del target, la pubblicità delle tv connesse parte proprio dalla capacità di analizzare e comprendere il target, grazie ai dati ottenuti dalla rete.

Se partiamo dal presupposto che il pubblico connesso è più attivo rispetto alla massa tradizionale, dobbiamo presupporre che sarà anche più attento ai messaggi pubblicitari: di solito si guardano i contenuti OTT in modo più attento, senza distrazioni, come invece spesso accade con i contenuti della tv generalista, soprattutto nei momenti in cui viene trasmesso l’annuncio pubblicitario.

I brand individuano ora la possibilità di interagire con il pubblico al momento giusto.

La pubblicità sulle CTV viene indicata come il futuro della pubblicità televisiva, la naturale evoluzione di quella tradizionale, in quanto risulta essere mainstream, fruibile da un pubblico più ampio, anche in considerazione del fatto che può migliorare l’aspetto social dell’utente, consentendo la nascita di conversazioni online sulle stesse.

Favorisce il coinvolgimento con il brand ma anche tra gli utenti stessi, e sappiamo bene che il passaparola online positivo è la migliore arma che un’azienda possa avere dalla sua parte.

linear tv

Come cogliere questa opportunità

Ad avvantaggiarsi di questo trend in crescita saranno senza dubbio, oltre i fornitori di intrattenimento (Netflix è diventato un colosso che sta conquistando il panorama tv), anche i produttori di hardware.

Secondo i dati degli analisti di IHS Markit, negli ultimi tre anni l’acquisto di dispositivi connessi e degli adattatori per supporti digitali ha avuto una costante crescita. La chiave del successo, probabilmente, è la collaborazione, anche a livello europeo, tra produttori hardware ed emittenti, al fine di condividere costi, tecnologie, e dati del target, realizzando in tal modo una maggiore trasparenza.

Come realizzare una campagna pubblicitaria vincente sulle CTV

Per alcuni aspetti le tv connesse appaiono simili alle televisioni tradizionali, per tale motivo la costruzione di una campagna può rispettare, almeno in partenza, alcuni punti salienti, ai quali si aggiungono elementi particolari, tenendo presente che la CTV advertising è pensata essenzialmente per lo schermo televisivo:

  • Determinare l’obiettivo di marketing è il primo fondamentale passo. Per farlo è opportuno seguire dei criteri che ci aiutino a visualizzarlo con chiarezza: ogni obiettivo deve indicare espressamente ciò che ci si aspetta di ottenere; deve essere misurabile per permettere di valutare la campagna stessa; deve essere rilevante, cioè correlato direttamente alla funzione principale dell’azienda; e deve rispettare un limite di tempo per il suo raggiungimento.
  • Determinare il target di riferimento è elemento prioritario di ogni attività di marketing, individuare il giusto segmento di mercato permette di incrementare le vendite in modo sostanzioso. Nello specifico, la connessione Internet permette di raggiungere un audience curated di massa, estremamente dettagliato. Altrettanto fondamentale è mantenere un attento monitoraggio del comportamento online/offline del pubblico di riferimento.
  • Raccontare una storia avvincente, trovare la propria voce e continuare con lo stesso tono lungo l’intero periodo della campagna, perché la coerenza è la caratteristica necessaria per costruire la fiducia nel cliente. Il posizionamento del brand va mantenuto nel tempo, possono innovarsi le tattiche a breve termine ma non le strategie di lungo termine, come spiegano Al Ries e Jack Trout, coniatori dell’idea stessa del positioning.
  • Scoprire come coinvolgere il pubblico, in quanto molti stanno abbandonando la tv lineare proprio perché alla ricerca di un maggiore coinvolgimento. A tal fine è necessario creare video di alta qualità, espressi in una varietà linguistica tale da permettere una visione globale.
  • Misurare come il pubblico reagisce e interagisce con gli elementi della campagna, tramite le metriche. Se non si conosce l’esatto rendimento della campagna non si è in grado di apportare miglioramenti e sviluppi per il futuro. Potrebbe risultare utile, ad esempio, ottimizzare il canale, o la piattaforma, o migliorare la creatività, o ancora modificare il pubblico stesso.
    Tra le principali metriche standard di misurazione troviamo il numero di clic per annuncio e il numero di conversazioni generate; quelle avanzate riguardano l’analisi del traffico non valido (generato da bot), la visibilità (se l’annuncio viene visualizzato e per quanto tempo), e l’analisi del ROI (return of investiment) sulle vendite.

Per creare una buona campagna pubblicitaria occorre farsi due domande puntuali:

  • Quali dispositivo copre la tua misurazione?
  • Riesci ad individuare esattamente il traffico umano e il traffico non valido?
    Non ha senso misurare l’impatto di un annuncio su un bot, è necessario assicurarsi che raggiunga persone reali. Solo a quel punto sarà utile misurare la quantità di persone che ha guardato l’annuncio e il totale del numero di ore della visualizzazione

Il ruolo degli advertiser

Nella vasta giungla di possibilità offerte dalla pubblicità connessa, il marketer dovrà prestare particolare attenzione al termine della sicurezza, relativa al proprio brand e al consumatore.

In primis, sarà necessario monitorare che il proprio brand pubblicizzato non compaia associato ad altri contenuti definiti indesiderati che potrebbero influenzare negativamente gli utenti e di conseguenza ledere l’immagine del marchio stesso.

In secondo luogo, occorrerà prestare particolare premura nella difesa della privacy dei consumatori. Per molti utenti della grande rete, infatti, l’idea che i propri comportamenti online vengano studiati dalle aziende è ancora fonte di reale preoccupazione.

Sebbene un ricerca di Magnite abbia dimostrato che il 77% degli spettatori di CTV advertisement ha poi intrapreso materialmente un’azione tangibile successivamente alla fruizione del messaggio pubblicitario, bisogna tenere presente che l’utilizzo delle tv connesse, anche se in crescita, avviene comunque senza abbandonare definitivamente la tv tradizionale, quindi è opportuno che gli advertiser continuino a prestare attenzione ad entrambi i settori.

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Come fare per proteggere il marchio del tuo eCommerce

Nella serie di articoli di LegalBlink sulle tematiche legali del mondo eCommerce, questa volta parliamo di marchi e della loro tutela.

Internet è uno strumento in grado di fornire molta visibilità a un brand. Tuttavia, tale visibilità espone maggiormente il brand al rischio che questo possa essere utilizzato illegittimamente da terzi.

Il marchio costituisce un patrimonio aziendale. Infatti, è uno strumento comunicativo fortissimo, in grado di permettere alle persone di distinguere prodotti e servizi e di esprimere i valori che contraddistinguono un brand.

Un imprenditore digitale non può correre il rischio che questo importante elemento venga utilizzato illegittimamente da terzi, per questo motivo è fondamentale che effettui la Registrazione del marchio. La registrazione garantisce al titolare un uso esclusivo dello stesso, tutelandolo dalle contraffazioni.

Di seguito analizzeremo che caratteristiche deve avere un marchio per poter essere registrato e come effettuare una registrazione.

LEGGI ANCHE: Vendita B2B e B2C, le differenze che devi conoscere per il tuo eCommerce

Cosà può essere definito “Marchio”

Il marchio in un eCommerce è un elemento in grado di contraddistinguere i prodotti o i servizi forniti da un eCommerce rispetto a quelli forniti da un sito concorrente.

shopping online

Può essere registrato come marchio qualsiasi segno in grado di:

  • distinguere i prodotti o i servizi di un eCommerce da quelli di un concorrente;
  • essere rappresentato graficamente.

L’art. 7 del Codice della Proprietà Industriale (c.p.i) effettua un elenco dei segni idonei a essere registrati come marchi, ovvero:

tutti i segni, in particolare le parole, compresi i nomi di persone, i disegni, le lettere, le cifre, i suoni, la forma del prodotto o della confezione di esso, le combinazioni o le tonalità cromatiche”.

Quindi, i marchi che possono essere registrati come marchi d’impresa sono i seguenti:

  • Marchio denominativo: il marchio costituito esclusivamente da parole, lettere, cifre o altri caratteri tipografici standard. Le parole, che costituiscono un marchio denominativo possono avere un significato o essere di fantasia (si pensi al marchio “Rolex”);
  • Marchio figurativo: il marchio si compone di elementi grafici, un’immagine o un logo (un esempio noto è la mela della “Apple”). L’elemento grafico può essere combinato anche con una parte testuale (es. “Barilla”).
  • Marchio di forma: alcune volte la funzione distintiva è individuabile nella forma del prodotto o nella sua confezione (es. bottiglia della “Fanta”). Tuttavia, per poter essere registrata come marchio tale forma dovrà possedere una mera funzione distintiva e non una connotazione tecnica o artistica.
  • Marchio di colore: il marchio può essere costituito esclusivamente da un colore o una combinazione di colori (un esempio il colore “Blu Tiffany”).
  • Marchio di suono: il marchio costituito da una melodia, da un motivetto musicale o da una sequenza di suoni, come ad esempio il suono caratterizzante l’avvio del sistema operativo “Windows”.
  • Marchio olfattivo: il marchio costituito da una fragranza (es. profumo di erba tagliata per la vendita di palline da tennis).

I marchi che più comunemente sono oggetto di registrazione negli eCommerce sono i marchi denominativi e figurativi.

Requisiti che il marchio deve avere per poter essere registrato

Il marchio per poter essere oggetto d registrazione deve possedere le seguenti caratteristiche:

  • Novità

Il marchio non può essere definito nuovo se esso è identico o simile a altri marchi già registrati in precedenza per contraddistinguere prodotti o servizi identici o affini a quelli che vorresti vendere nel tuo eCommerce.

Inoltre, il marchio notorio (marchio noto al pubblico che gode dello stato di rinomanza), oltre a non poter essere utilizzato da terzi per contraddistinguere prodotti e/o servizi identici o affini, non può esser utilizzato da terzi per contraddistinguere anche prodotti e/o servizi non affini (es. non è possibile utilizzare il marchio Coca-Cola per vendere giocattoli).

Tali principi sono definiti all’interno dell’art. 12 c.p.i.

  • Capacità distintiva

La capacità distintiva è disciplinata nell’art. 13 c.p.i., il quale afferma che questa caratteristica viene a mancare quando i marchi siano costituiti esclusivamente da segni o parole divenuti di uso comune (es. Lusso, Extra) o nel caso siano costituiti esclusivamente da denominazioni descrittive dei prodotti o dei servizi venduti, un esempio un eCommerce che vende scarpe non può utilizzare il marchio “Scarpe”.

Attenzione! Per poter avere un marchio con una forte capacità distintiva e che garantisca una tutela nei confronti di terzi, è importante evitare un segno che abbia collegamenti concettuali tra marchio e prodotti e/o servizi ad esso associati.

La registrazione di un marchio debole, ovvero con una correlazione tra il marchio e prodotto e/o servizio, non può impedire ad un competitor l’utilizzo di quel segno.

Per finalità di marketing, potrebbe verificarsi la necessità di registrare un marchio debole. Con il tempo e con l’utilizzo del marchio, esso potrebbe acquistare capacità distintiva, come è avvenuto per esempio al marchio “EstaTHE” o “Lemon Soda”.

  • Liceità e verità del segno

Ai sensi dell’art. 14 c.p.i., i marchi non possono essere contrari alla legge, all’ordine pubblico e al buon costume (un esempio non è possibile registrare come marchio il termine “Mafia”).

I marchi, inoltre, non possono essere decettivi, ovvero in grado di trarre in inganno il pubblico in relazione alla provenienza geografica, la natura e la qualità dei prodotti venduti (es. non è possibile registrare il marchio cotonella per contraddistinguere prodotti che non hanno, nella loro composizione, del cotone).

Consulenza di un esperto e ricerca di anteriorità

Se si desidera registrare un marchio è importante rivolgersi a un consulente esperto. Un esperto è infatti in grado di verificare se la registrazione di un marchio può essere effettuata o meno e se sussiste il rischio che la registrazione possa essere oggetto di contestazione da parte di soggetti titolari di un diritto anteriore.

In primo luogo, è infatti estremamente importante verificare se il marchio ha effettivamente tutti i requisiti sopra enunciati. La presenza di tali requisiti è infatti indispensabile per effettuare la registrazione del marchio del tuo eCommerce e perché essa vada a buon fine.

Il requisito che necessita di un esame particolarmente approfondito è quello della novità. Per verificare che non siano stati registrati marchi uguali o simili al marchio al tuo è importante effettuare una ricerca di anteriorità.

Tale ricerca deve essere effettuata consultando varie banche dati. A titolo esemplificativo la banca dati dell’UIBM, del EUIPO e di TMview.

Tale ricerca permette di individuare se sono già stati registrati marchi uguali o affini al marchio che vorresti registrare e se tale marchio è utilizzato per contraddistinguere prodotti e/o servizi identici o affini a quelli che vorresti vendere nel tuo eCommerce.

Questa ricerca, quindi, permette di verificare che il marchio abbia il requisito della novità e se esso può essere oggetto di registrazione.

Come registrare un marchio

L’esclusività del marchio, derivante dalla registrazione, ha una valenza territoriale.

Per questo motivo è importante stabilire il territorio in cui si ha intenzione di operare nell’eCommerce, e nel quale si desidera tutelare il proprio marchio.

La registrazione può essere effettuata presso:

  • UIBM (Uffizio Italiano Brevetti e Marchi), in questo caso il marchio sarà tutelato solo in Italia
  • EUIPO (Ufficio dell’Unione europea per la proprietà intellettuale), il quale consente la registrazione di un marchio dell’Unione Europea con valenza in tutti i paesi dell’UE
  • Ufficio nazionale, effettua la registrazione del marchio in un determinato Stato, la registrazione avrà valenza nello Stato in oggetto (es. se si desidera registrare il marchio in Cina è possibile rivolgersi al Cina Trademark Office)
  • WIPO (Organizzazione mondiale per la proprietà intellettuale), ufficio dove è possibile richiedere l’estensione internazionale di un marchio. In questo caso è possibile estendere la tutela di un marchio già registrato ad altri paesi che devono essere specificamente indicati.

Un ulteriore elemento da definire è il settore merceologico in cui s’intende operare. La registrazione di un marchio deve essere realizzata in relazione ad una classe, la quale ricomprende determinati prodotti o servizi.

A livello internazionale si prende come riferimento la Classificazione di Nizza, costituita da innumerevoli classi merceologiche che contraddistinguono prodotti e servizi. L’uso esclusivo è tutelato solo per la vendita dei prodotti o servizi della classe/i oggetto di registrazione. Quindi due marchi simili possono coesistere qualora i prodotti o i servizi ad essi corrispondenti non siano affini.

Attenzione! Una volta effettuata la registrazione del marchio per determinate classi non sarà più possibile estendere quella registrazione per altre classi. Sarà quindi necessario effettuare una nuova registrazione.  Nel caso tu abbia intenzione, nel prossimo futuro, di espandere il tuo eCommerce ad altre classi merceologiche potrebbe essere conveniente effettuare un’unica registrazione ricomprendendo tutte le classi di tuo interesse.

Tutela del dominio

Un ulteriore beneficio che apporta la registrazione del marchio, utile specialmente per chi detiene un eCommerce, è la possibilità di tutelare il proprio nome a dominio.

L’art. 22 del c.p.i. a tal riguardo enuncia quanto segue:

È vietato adottare come ditta, denominazione o ragione sociale, insegna e nome a dominio di un sito usato nell’attivita’ economica o altro segno distintivo un segno uguale o simile all’altrui marchio”

Da ciò ne deriva che in titolare di un marchio registrato può tutelare il dominio del suo eCommerce tramite l’applicazione delle norme sui segni distintivi.

Il nome a dominio viene quindi considerato un vero e proprio segno distintivo meritevole di tutela. L’utilizzo di un nome a dominio, da parte di un terzo, uguale o simile al marchio registrato può trarre in confusione il pubblico sull’effettiva provenienza di quei prodotti o servizi da un eCommerce piuttosto che da un altro.

Mediante la registrazione del marchio anche il dominio riceve tutela. Infatti, qualora un terzo decidesse di registrare un nome a dominio uguale o simile al tuo, preventivamente registrato, potrai pretendere la cessazione del suo utilizzo o la sua riassegnazione.

Conclusioni

In marchio costituisce un importante asset per ogni eCommerce.

Il marchio è l’elemento che permette di:

  • distinguere i prodotti o servizi forniti da un eCommerce
  • rammentare al cliente determinate caratteristiche e qualità dei prodotti venduti nell’eCommerce
  • trasmettere un messaggio ed esprimere i valori che contraddistinguono l’eCommerce

La tutela del marchio è fondamentale se desideri vendere i tuoi prodotti o servizi in un eCommerce.

La registrazione ti garantisce l’uso esclusivo dello stesso. In questo modo avrai gli strumenti e la tutela per poter contestare l’utilizzo illegittimo del tuo marchio da parte di un competitor.

La mancata registrazione di un marchio potrebbe costituire un rischio e non garantire tutela in caso di contraffazione.

digital divide

Digital divide: perché la scarsa digitalizzazione non è legata all’età

Il dibattito e l’attenzione mediatica sul tema delle “Nuove Generazioni” si sono palesati dall’innesco portato dalla velocissima evoluzione tecnologica degli ultimi anni che ha posto l’attenzione su come il “nativo digitale” si sia trovato ad affrontare l’apprendimento della realtà in maniera totalmente differente, conseguentemente a comportamenti sociali e relazioni fortemente modificati rispetto all’approccio più “analogico” delle generazioni precedenti.

Sembra incredibile come il termine “digitale” (dall’inglese “cifra”, in riferimento a un sistema a base dieci, come le dita delle due mani) abbia la sua radice etimologica nel latino “dito”, quindi qualcosa che dovremmo percepire con tangibilità, a fronte invece di un significato che nel virtuale perde il suo senso di contatto fisico, se non appunto per mezzo delle dita che posiamo sugli schermi dei nostri dispositivi.

Giovani e adulti insieme per un nuovo mindset tecnologico

Parlare oggi di digital divide, significa sottolineare non solo l’accesso alla connessione e ai device tecnologici, ma anche le differenze di valori, modelli cognitivi, stili di relazione e modelli di apprendimento tra “nativi” e “immigrati” digitali, rappresentati dalle generazioni precedenti (in particolare Boomers e X-Gen).

Sebbene queste diversità tra generazioni siano sempre esistite, oggi sono più rilevanti per la velocità esponenziale del progresso tecnologico (la digital transformation) e l’allungamento della vita media.

Quando l’attenzione si pone sugli attori che partecipano attivamente o meno all’evoluzione delle tecnologie e alla loro comprensione, il pensiero non può che andare verso la storica definizione di Apocalittici e Integrati di Umberto Eco: ognuno di noi può riconoscere quale sia il comportamento istintivo che abbiamo nei confronti di una nuova tecnologia che al suo avvento modifica usi, costumi e quotidianità consolidate, soprattutto in questo periodo storico dove la ricerca e l’innovazione ci avvicinano continuamente a nuovi manufatti o esperienze.

Declinando il concetto sul piano generazionale (e fatte le dovute eccezioni – non tutti i giovani sono “early adopters”, e non tutti gli anziani sono “laggards”, riprendendo il modello di diffusione dell’innovazione di Everett Rogers) è abbastanza condiviso nell’immaginario collettivo che nei confronti delle nuove tecnologie si possa attribuire agli adulti/senior un sentimento in prima battuta tendenzialmente più critico di fronte a nuovi strumenti digitali, di contro ad uno più aperto e “naturale” da parte della gioventù.

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Digital skills ibride tra abilità e maturità digitale

Il tema del digitale ha sommerso letteralmente le agende manageriali e del business da diversi anni (il termine Industry 4.0 è stato coniato nel 2013!) e ancora di più ha reso improcrastinabile la trasformazione digitale di prodotti, processi e persone con l’acceleramento “fotonico” innescato dalla pandemia.

Per conoscere quali siano gli ambiti su cui giovani e adulti possano allenarsi o scambiare conoscenza, o buone pratiche, per migliorare il livello di padronanza della tecnologia come mezzo di lavoro e di comunicazione interpersonale, è forse utile fare chiarezza sul tema delle competenze digitali.

La difficoltà, in questo caso, è orientarsi nei tanti framework che hanno provato a destreggiarsi sul tema delle skills utili per essere al passo con la trasformazione tecnologica e, soprattutto, con l’informazione e le relazioni esercitate con gli strumenti del mondo virtuale.

E il terreno è non poco tortuoso: dal DigComp oggi nella sua versione 2.1 e ai paradigmi di rilevazione del DESI (Digital Economy and Society Index), della Commissione Europea, alla Web Literacy di Mozilla, alle numerose classificazioni disegnate dalle società di consulenza con i cosiddetti “Digital Maturity Models”, dalle associazioni che fanno educazione digitale con i loro modelli “open source” e così via.

Sicuramente, le vicende di attualità dell’home/remote working hanno portato maggiore consapevolezza sul fatto che la trasformazione digitale non è rappresentata solamente dall’adozione di strumenti o piattaforme più potenti o, banalmente, dalla conoscenza degli aspetti tecnici di un software, o di un nuovo device digitale, bensì dalle capacità di mostrare un mindset aperto e duttile all’arrivo di un nuovo mezzo tecnologico, e contemporaneamente quella di adattarlo al contesto e all’uso che se ne deve fare.

Su questo è estremamente rilevante la distinzione sistematizzata tempo fa da Francesco Derchi e Giulio Xhaet tra maturità digitale e abilità digitale.

Nella prima, si tratta di nutrire la consapevolezza e il cambio di mindset:

  • conoscere e riconoscere i contesti informativi e saperli interpretare;
  • identificare le peculiarità di un contenuto digitale (e di uno reale);
  • capire le implicazioni che hanno i dati nel lavoro e nel business;
  • saper esercitare l’ascolto e la relazione positiva anche online;
  • avere una mentalità collaborativa;
  • conoscere le basi della cybersecurity;
  • interiorizzare gli aspetti del benessere digitale e i rischi dell’esposizione alla iper-connessione.

Nella seconda, si tratta di declinare in forma pratica queste consapevolezze o queste attitudini:

  • organizzare le informazioni e saperle selezionare (fake news e debunking);
  • sviluppare contenuti in forme cross-mediali;
  • leggere i dati con strumenti specifici di analisi;
  • interagire e collaborare efficacemente e con empatia online;
  • navigare e interagire sui social media in sicurezza;
  • praticare in maniera consapevole il digital detox.

Il cambio di mentalità può essere ovviamente differente a livello generazionale, sebbene queste abilità siano valide per tutte le età che si rapportano al mezzo digitale.

Per un giovane, potrebbe significare il raggiungimento di un maggior senso critico sugli strumenti che (in teoria o nell’immaginario collettivo) sa già usare con naturalezza, mentre per un adulto significherà integrare il critical thinking acquisito con l’esperienza di vita con la padronanza pratica delle app, dei tools e degli strumenti correlati (o semplicemente averne coscienza e viverli con meno resistenza a priori, oppure addentrarvisi con pazienza e proattività di apprendimento).

Quante di queste cose potrebbero essere un terreno di scambio reciproco intergenerazionale?

Soprattutto i temi del digital wellbeing e dell’approccio “analogico” e critico all’information overload dei social media potrebbero diventare il nuovo scenario di hybrid digital skill, dove il digitale e il tecnologico potrà essere sempre più inteso come strumento e non come fine, ma soprattutto ben equilibrato con la relazione umana e della vita reale.

Solitamente. in letteratura la relazione che l’individuo ha con la tecnologia si identifica o come “determinismo tecnologico”, dove ogni mutamento sociale sarebbe determinato da un cambiamento nei modi di comunicare connessi alle tecnologie, più che nei contenuti stessi, oppure del “costruzionismo sociale della tecnologia”, nel quale la tecnologia è conseguenza dei processi sociali.

Probabilmente, la lente più opportuna da utilizzare è una formula intermedia e “ibrida” di co-produzione, dove non è la società a plasmare le tecnologie, e non sono le tecnologie a determinare la società: piuttosto società e tecnologie si influenzano e modificano a vicenda, in un processo di coevoluzione.

Così come l’incrocio di codici e saperi e di interdisciplinarietà è il valore aggiunto delle nuove skill del futuro – anche rispetto agli scenari timorosi dell’algocrazia e del dominio delle Intelligenze Artificiali, immaginare la commistione di approcci e mindset culturali intergenerazionali può risultare la soluzione maggiormente strategica oltre che più “sana”.

Gli antidoti generazionali alla Hustle Culture e alla tossicità digitale

Il significato del termine “Analogico”, oggi acquisisce nel parlare comune un’accezione demodé, oppure sembra fare riferimento a qualcosa di lento e malfunzionante: in realtà la sua definizione sta per qualcosa di “non numerico, o non digitale, detto di strumento di misurazione che fornisce misure in maniera non direttamente numerica e anche qualifica di tali misure” (Treccani). Quindi un principio qualitativo opposto ad uno espressamente numerico – magari binario.

Se ci viene facile affibbiare il termine “analogico” alle generazioni più adulte, perpetrando un po’ di ageismo, forse dovremmo fare i conti con lo scenario che ci circonda, dove “veloce” è sinonimo di efficiente, di performante e di positivo.

Viviamo l’era delle distrazioni digitali e della società del “tutto e subito”: secondo il report “Digital 2021: Global Overview Report”, nonostante i cambiamenti significativi nei comportamenti digitali dovuti al COVID-19, le persone dicono che trascorrono circa la stessa quantità di tempo ogni giorno sui social media oggi come hanno fatto in questo periodo l’anno scorso.

Tuttavia, i dati GWI mostrano che la media giornaliera è aumentata di oltre mezz’ora negli ultimi 5 anni. In totale, l’utente medio di Internet ora trascorre quasi 7 ore al giorno utilizzando Internet su tutti i dispositivi, equivalenti a più di 48 ore a settimana online: due giorni interi su una settimana di sette giorni.

Supponendo che una persona media dorma tra le 7 e le 8 ore al giorno, ciò significa che ora trascorriamo mediamente circa il 42% della nostra vita da svegli online e che trascorriamo quasi lo stesso tempo a usare Internet che a dormire.

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Il vero problema del rapporto col digitale di questa epoca non è solo nella quantità di tempo che dedichiamo al “virtuale”, ma soprattutto gli effetti che questo comporta.

Come ricorda continuamente Alessio Carciofi nelle sue indagini sul digital wellbeing, possiamo permetterci il lusso di dimenticare ed esercitare la memoria perché la tecnologia lo fa per noi e viviamo l’era delle distrazioni digitali in piena dipendenza da notifiche. Siamo tutti più o meno consapevoli che la grande risorsa a cui aneliamo costantemente ormai è l’attenzione.

Già diversi anni fa, secondo uno studio di Harvard, le persone trascorrevano il 46,9 per cento delle loro ore di veglia pensando a qualcosa di diverso da quello che stanno facendo, e questo “vagabondaggio mentale” dovuto all’uso tossico degli smartphone e della digitalità (vd. anche il binge watching) ci rende anche piuttosto infelici e distaccati dalla realtà.

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La causa non è solo nelle dinamiche di interazione che le notifiche digitali comportano, attivando meccanismi di rinforzo e sprigionamento di dopamina, in perfetto stile “slot machine”.

La progettazione dei prodotti e del business digitale si focalizza sul restituire continuamente il piacere della notifica e il suo rinforzo, contemporaneamente, è consapevole che le persone sono immerse in una realtà complessa e piena di distrazioni, per cui è perennemente in atto una “guerra” per catturare l’attenzione delle persone. E i sistemi elaborati dalle aziende con le strategie di marketing evoluto attuale, pensate per elaborare prodotti che alimentano continuamente la nostra fame di gratificazione istantanea, si abbinano ad una cultura effimera della ricerca del successo e alla valorizzazione narcisistica dell’immagine, che inevitabilmente ci porta perennemente a sentirci a disagio e non “all’altezza” nella nostra vita quotidiana.

La battaglia culturale che porta avanti Raffaele Gaito da qualche anno per innescare consapevolezza sul valore del controllo personale del tempo, sull’importanza dell’innamoramento verso il processo e la sperimentazione, è la chiave di volta.

La sua ultima pubblicazione “L’arte della pazienza. Come essere perseverante in un mondo frenetico” è un saggio dai contenuti ormai irrinunciabili per cambiare prospettiva sulla res digitale, in particolare per quanto riguarda il paradigma della “Hustle Culture”, che letteralmente ci esorta a spingere forsennatamente nel lavoro e nella quotidianità, verso obiettivi spesso irrealizzabili e a stipare continuamente cose da fare in agende dense di appuntamenti.

Raffaele spiega con i dati delle ricerche, con gli aneddoti storici di personaggi famosi e con il suo vissuto da imprenditore digitale, un metodo utile per il mondo del lavoro, del business e della vita personale, ma soprattutto sfata molti miti dietro l’immagine edulcorata del “successo” degli influencer, sul valore del fallimento (anche quello lento, mediterraneo, non necessariamente il “fail fast” di californiana memoria) e sulla pazienza, intesa anche come costanza e capacità di fare analisi critica e qualitativa.

Un approccio diremmo “analogico”, nel suo pieno significato di leggere la realtà anche con le lenti qualitative e non solo quantitative sui risultati di breve termine del “pochi, maledetti e subito”; come forse ha trasmesso nella cultura aziendale la disciplina del Finance e del Controlling, spesso univocamente focalizzato sulle chiusure dei quarter e non sulla meta o sulle persone che lavorano a quegli obiettivi.

Con il remote working, inoltre, si lavora di più e ci si affatica di più, e forse solo oggi, in condizioni estreme, stiamo scoprendo quanto la cultura frenetica e workaholic dei ruggenti decenni precedenti abbia reso disequilibrate le nostre vite professionali e personali. Senza distinzione di età.

Il dialogo intergenerazionale per ripensare il digitale

Parlare di digitalità allora, non significa più parlare di giovani come “smanettoni” o “social media dipendenti”, né di boomer come negazionisti tecnologici. L’esperienza del digitale è ormai così immersiva che non serve classificarla come questione per le nuove o le vecchie generazioni.

Si tratta di identificare quali necessità, in campo tecnologico, possano essere scambiate considerando sia per i giovani, sia per gli adulti, la capacità di suscitare per entrambi un mindset dinamico che insegni a guardare le opportunità esistenti nelle sfide che pone l’innovazione tecnologica, ammettendo però le debolezze e le “in-capacità” del tutto umane, migliorando con i feedback continui e la focalizzazione sui processi anziché solo sui risultati.

Ad esempio, le persone adulte hanno la tendenza ad interpretare i social network come fonti informative a cui forniscono una fiducia e una credibilità molto elevata (un po’ come “lo hanno detto in TV” di qualche tempo fa).

Avendo imparato ad utilizzarli successivamente, non riescono a “governarli” nella loro totalità e il loro utilizzo diventa, quasi, un gioco forza tra piattaforma e utente. Le generazioni Y e Z, invece, riescono forse ad avere un quadro più completo del luogo digitale dove si trovano, percependo come fonte non il social network in generale, ma la pagina o l’utente che pubblica il contenuto, sebbene rimanga anche per loro la difficoltà a muoversi tra le numerosissime fonti e stimoli che provengono da un mondo social che si dirige verso la saturazione.

Premettendo che è urgente e più che necessario che la formazione legata alle digital skill sia materia scolastica, se non addirittura una “patente”, che possa essere assegnata a grandi e piccoli per utilizzare consciamente gli strumenti e vivere in maniera consapevole la propria cittadinanza digitale, per generare l’incontro generazionale sul terreno della tecnologia, allora, potrebbe essere utile individuare quali contenuti possano essere scambiati nel reverse mentoring bidirezionale che giovani e adulti possono trasmettersi l’un l’altro:

  • il valore analogico del networking reale, la cybersecurity e il digital detox, ad esempio, potrebbero essere i driver che gli adulti sono in grado di trasmettere alle nuovissime generazioni
  • mentre la social netiquette, la conoscenza di tools e “tricks” digitali, e forse anche il coding, possono essere topic che i giovani possono insegnare ai senior, in azienda e a casa.

Per tutti, senza distinzioni di età, l’esigenza di essere istruiti sul terreno delle fake news e del debunking affinché anche i valori culturali, civici e politici non vengano storpiati dalle dinamiche (ormai potremmo dire immorali), del clickbait e delle “filter bubbles”, che non permettono di certo un dialogo aperto e trasparente tra generazioni.

Fastly down

Internet Down: Amazon, Spotify e centinaia di altri siti sono irraggiungibili

Tantissimi siti e servizi non sono accessibili o stanno registrando rallentamenti, tra cui Reddit, Spotify, Twitch, Stack Overflow, GitHub, gov.uk, Hulu, HBO Max, Quora, PayPal, Vimeo, Shopify, Stripe.

In down anche i portali di news come CNN, The Guardian, The New York Times, BBC e Financial Times.

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La causa sarebbe un guasto a Fastly, un popolare provider CDN, secondo un product manager del Financial Times. Fastly ha confermato di avere dei problemi al momento: si tratterebbe di una global CDN disruption che riguarderebbe tutto il mondo.

Stiamo indagando sul potenziale impatto sulle prestazioni dei nostri servizi CDN“, ha dichiarato l’azienda, per poi confermare che il problema è stato indentificato e che sarà presto implementata una soluzione.

down detector

DownDetector, che monitora le prestazioni dei siti web e delle applicazioni web seguendo le segnalazioni di rallentamenti e stop sui social media, ha rivelato l’enorme portata dei problemi. Più di 4.000 persone hanno contemporaneamente segnalato problemi di accesso ad Amazon, secondo i dati del servizio.

Nel frattempo, 3.500 persone hanno affermato di non riuscire a visitare Twitch e quasi 10.000 hanno lamentato problemi di accesso a Reddit, ogni minuto.

Cosa sono le CDN

Le CDN sono una parte fondamentale dell’infrastruttura internet. Queste aziende gestiscono reti globali di server per migliorare le prestazioni e l’accessibilità dei servizi web. Le CDN agiscono come server proxy e mettono in cache alcuni dati a disposizione dell’utente finale.

Per esempio, un contenuto multimediale è spesso memorizzato nella cache di un server CDN locale in modo che non debba essere recuperato sul server originale ogni volta che un utente carica una pagina web.

Nel corso del tempo, i CDN hanno iniziato ad aggiungere altre caratteristiche, come il bilanciamento del carico, la protezione DDoS, i firewall delle applicazioni web e diverse caratteristiche di sicurezza.

I CDN popolari includono Fastly, Cloudflare, CloudFront su Amazon Web Services e Akamai.

Fastly, in particolare, è abbastanza popolare: l’azienda è diventata pubblica nel 2019 e le azioni Fastly sono attualmente scambiate a 48,06 dollari, in calo del 5,21% rispetto al prezzo di chiusura di ieri.

Il problema di oggi non si limita a un data center in particolare: Fastly l’ha definita una “interruzione CDN globale” e sembra che stia colpendo la rete della società a livello mondiale.

 

barbara carfagna a N-Conference

Gli algoritmi ci privano della libertà? Intervista a Barbara Carfagna

Nel viaggio alla scoperta delle aziende e delle persone Unbreakable, che sono state in grado di reinventarsi e superare le difficoltà grazie alla tecnologia, Mirko Pallera, CEO e founder di Ninja, ha incontrato Barbara Carfagna, giornalista, conduttrice e autrice Rai, conosciuta la grande pubblico anche per la trasmissione “Codice, la vita è digitale“.

Durante la chiacchierata, Barbara ha raccontato a Mirko degli inizi della sua carriera e delle prime collaborazioni importanti, ma anche di chi e che cosa l’ha ispirata a diventare giornalista televisiva.

Ha anche svelato la sua personale formula per essere Unbreakable, che non passa per forza attraverso un percorso stabilito da seguire pedissequamente; piuttosto, dalla capacità di cambiare rotta per non infrangersi.

Mi sono fatta un’idea“, ha detto Barbara, “che non bisogna necessariamente avere le idee così chiare e stabilire un percorso immutabile da seguire. Siamo in un’epoca in cui, di fatto, molto è nella capacità di cambiare rotta. Bisogna sapere dove si vuole andare, ma poi il percorso può essere ricostruito a posteriori. Questo è un modo anche per non infrangersi“.

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In occasione di N-Conference, il Business Visionary Event targato Ninja, trasmesso online il 27 e 28 maggio dagli studi di Fandango Club, abbiamo incontrato ancora Barbara (che ha tenuto il Keynote “Il Codice della vita Digitale”) e le abbiamo fatto qualche domanda sulla sua visione delle tecnologie nel mondo attuale (e per il futuro) e sull’approccio europeo ai nuovi sistemi di controllo dei dati biometrici.

Secondo te, oggi ha ancora senso fare una netta distinzione tra “vita reale” e “vita digitale”?

No, secondo me non ha senso fare questa distinzione netta, perché negli ambienti connessi, quelli che il filosofo Luciano Floridi chiama “infosfera”, in realtà noi viviamo già onlife, cioè eternamente connessi. Con il 5G avremo anche una simultaneità tra ciò che accade nel reale e ciò che accade online e, soprattutto, ogni cosa che accade nel virtuale avrà un effetto immediato sul reale e ciò che accade nel reale avrà effetto sulla vita reale.

Possiamo dire che siamo un po’ esseri “anfibi”, che vivono a metà e costantemente in una dimensione dentro e fuori internet.

Quando arriverà il 6G, che ingloberà internet negli oggetti ed eliminare visori e interfacce, vivremo totalmente immersi nell’onlife.

intervista a barbara carfagna

L’Unione Europea si sta muovendo per regolamentare con accuratezza l’uso dell’intelligenza artificiale e del video controllo. Credi che sia un limite al progresso o è un aspetto positivo?

Penso che, per ora, possa essere considerata una cosa positiva. Basti vedere cosa sta accadendo in Cina con il social credit.

È come se fosse un gioco a punti: si nasce, per esempio, con mille punti e poi, man mano che si commettono degli atti, che possono essere anche solo sporcare per terra, riconosciuti da una webcam, il sistema automaticamente scala questi punti.

Ovviamente si parla di gettare una carta a terra fino ad arrivare al punteggio massimo se si uccide qualcuno, ma nel mezzo si perdono alcuni vantaggi sociali, compresa la possibilità di viaggiare. Diventa molto difficile, non so neanche se sia possibile, recuperare questi punti.

Quando si arriva a esaurire i punti, la pena è la disconnessione, che è vista come l’ergastolo perché, se viviamo nell’infosfera, e siamo eternamente onlife, essere disconnessi significa essere fuori dal mondo e dalla società.

Anche in tanti altri posti del mondo, il riconoscimento facciale può essere utilizzato per obiettivi commerciali molti spinti o anche di indirizzamento dei comportamenti, e questo non è visto dalle nostre democrazie e dalla cultura europea come un qualcosa di democratico, perché sono tutti procedimenti che avvengono in maniera poco consapevole e poco visibile.

Penso quindi che la strada intrapresa dall’Europa sia corretta, per il momento. Bisogna certamente cercare di limitare le tecnologie come il riconoscimento facciale ad alcuni casi in cui è davvero utile, come nella lotta alla criminalità, per esempio nell’individuazione dei ricercati.

Come fare per “tenere il buono e non buttare via tutto”? Questo è un problema che ancora nessuno è riuscito a risolvere.

LEGGI ANCHE: Viaggio nella scuola che prepara i nativi digitali al futuro con il coding e la stampa 3D

Cosa si intende per “datacrazia”? E che impatto ha il fenomeno per l’umanità?

Datacrazia è un termine che ha inventato il sociologo Derrick De Kerckhove, e può essere un fenomeno positivo se riusciamo a immettere concetti democratici nel digitale.

Per esempio, come ha fatto l’Europa, con la creazione del pacchetto di regole che comprende il Digital Markets Act, il Digital Services Act, Gaia X, come bacino di dati dei cittadini europei, seppur estratti da big tech straniere, e la GDPR, che ci hanno già “copiato” in diversi parti del mondo.

In questo senso, possiamo creare un mercato e una libera circolazione dei dati positiva per le industrie e per le aziende, per il valore che viene ridistribuito rispetto alla centralizzazione delle big tech che lo detengono in toto.

Invece, la Datacrazia può essere una dittatura se noi otteniamo dei sistemi che ci tolgono la libertà, un po’ come quello cinese sul social credit e un po’ come quello delle big tech che possiedono tutti i dati e che magari orientano i nostri comportamenti senza la nostra consapevolezza.

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la fine dei cookie di terze parti

Cookieless: possibili soluzioni per evitare la catastrofe

Per anni, il marketing digitale si è sviluppato prepotentemente attorno alla possibilità e all’abilità di tracciare il comportamento degli utenti attraverso le loro azioni online.

Gusti, preferenze ed abitudini di acquisto, sono diventate il pane quotidiano di un mondo fortemente basato sui dati.

E da tutto ciò le aziende hanno tratto importanti vantaggi, presentando offerte e comunicazioni sempre più mirate e cucite sull’utente.

Cosa succederebbe se in futuro tutto questo non fosse più possibile? C’è una buona e una cattiva notizia, ma iniziamo da quest’ultima: quel futuro è già oggi.

La bella notizia? Al contrario di quanto si possa pensare, non tutto è perduto.

Cosa sono i cookie?

Dovremmo già conoscerli approfonditamente, ma un ripasso ci sta.

Come definito da PCMag, un cookie è una leggerissima stringa di testo, dal peso inferiore ai 4kb, che può essere conservata temporaneamente o permanentemente nel pc dell’utente.

La sua utilità? “Riconoscere l’utente” e ricordare le sue abitudini più ricorrenti o le ultime attività durante le sessioni di navigazione o fruizione dei siti.

Per esempio, durante una sessione di acquisto su un eCommerce, nel caso in cui l’utente dovesse switchare verso un altro sito e poi ritornare sul carrello, la piattaforma lo riconoscerebbe mostrandogli i prodotti visualizzati in precedenza.

Esistono due tipi predominanti di cookie installati su un sito web: i cookie di prima parte, creati direttamente dal sito o dalla piattaforma che si sta visitando per migliorare la user experience, e i cookie di terze parti, appartenenti cioè ad altri siti o piattaforme (Facebook e Google, ad esempio), usati per individuare le abitudini e le caratteristiche dell’utente e aiutare il sito web o la piattaforma in attività di analisi e di marketing.

È semplice comprendere come i dati tracciati da quest’ultima tipologia di cookie non rimangano isolati alla semplice fruizione del sito visitato, ma entrino a far parte di un complesso ecosistema in grado di intrecciare sempre più dati per delineare le caratteristiche dell’utente allo scopo di facilitare il suo targeting nelle strategie legate alle sponsorizzazioni online.

L’evoluzione delle tematiche legate al GDPR ha permesso di prendere sempre maggior consapevolezza rispetto ad una variabile importantissima nell’equilibrio di questo ecosistema: la privacy delle persone.

Infatti, soprattutto nell’ultimo periodo, stiamo assistendo ad una serie di novità da parte dei principali attori del mondo digital, sempre più indirizzati a mantenere saldi i principi della privacy.

È il caso di Mozilla e Apple che hanno deciso di bloccare per primi i cookie di terze parti sui propri browser (Firefox e Safari).

Proprio riguardo Apple, la bomba per tutta la categoria di marketer legati al mondo digitale è scoppiata poco più di un mese fa con l’arrivo dell’aggiornamento iOS 14.5.

Un mondo senza cookie

L’uscita del nuovo update per iPhone ha segnato un momento fondamentale nel business dell’advertising e del tracciamento online.

Fra le funzioni di questa release, una delle più importanti è l’App Tracking Transparency che introduce il consenso esplicito da parte degli utenti per permettere alle app di poter effettuare azioni di tracciamento con finalità pubblicitarie.

Cosa significa questo? Che di default un’app non può più tracciare il comportamento e le azioni svolte dall’utente al suo interno per fini pubblicitari, a meno che non sia l’utente stesso ad autorizzarlo.

Tutto ciò diminuisce, quindi, sensibilmente la mole di dati che permette di caratterizzare le abitudini di ogni utente per proporre ads sempre più performanti verso il target di riferimento, rendendo le campagne più instabili.

Ma non è tutto. Google ha annunciato che, a partire dal 2022, anche il suo browser Chrome non supporterà più cookie di terze parti, mettendo al centro una filosofia “Privacy first”.

È lo stesso colosso di Mountain View a stimare la perdita in revenue derivante dal blocco dei cookie di terze parti.

Attraverso un esperimento condotto disabilitando i cookie di terze parti su alcuni utenti, ha riscontrato che la revenue media per i top 500 publisher di Google Ad Manager si abbasserà del 52%, con punte anche del 75% per alcuni di loro.

 

 

Un risultato che desta più di qualche preoccupazione.

Quali sono le soluzioni a questa catastrofe? Ecco la bella notizia

Già nei giorni precedenti l’arrivo di queste novità, sono emerse soluzioni più o meno “eleganti”.

Un esempio è quello del CAID: la soluzione della China Advertising Association, resa nota da AdExchanger, per aggirare l’App Tracking Transparency attraverso lo sfruttamento delle impronte digitali.

Allo stesso modo Google ha annunciato che utilizzerà il metodo FLoC (Federated Learning of Cohorts), spostando l’attenzione dal singolo utente ad un cluster formato da un largo gruppo di persone con simili interessi. Sebbene questa soluzione non sia analitica quanto quello a cui siamo stati abituati fino ad oggi, può segnare una preliminare soluzione al problema.

Ma non è tutto qui. Anche la Marketing Automation, se ben utilizzata, può essere sfruttata in tal senso. Certo, il punto di partenza resta sempre quello di veicolare il messaggio giusto all’utente giusto ma, attraverso l’analisi delle attività degli stessi sul proprio sito internet e portale, è possibile delineare il comportamento di ogni utente, assegnargli un punteggio e comunicare in maniera mirata e con alti risultati.

E qui nasce un’evoluzione dalla semplice piattaforma CRM (Customer Relationship Management) verso i più moderni CDP (Customer Data Platform) in grado di incrociare tutte i dati forniti e di sessione.

In questo caso, in un mondo senza cookie di terze parti, saranno altre due tipologie di dati al centro dell’interesse dei marketers del futuro: i First-party data e i Zero-party data.

I primi altro non sono che i cookie di prima parte attraverso i quali i proprietari dei siti possono tirar fuori tutte le analisi relative alle pagine visitate, quelle di maggiore interesse, i pulsanti premuti, i download ed altri dati di questo tipo.

Il report MarketingCharts ha messo in luce come il 52% delle aziende intervistate sia interessata a far fronte a questi cambiamenti proprio attraverso l’utilizzo di First-party data.

 

 

I Zero-party data, invece, sono i dati esplicitamente forniti dagli utenti per usufruire dei servizi messi a disposizione dall’azienda. Sono i classici dati forniti attraverso un form di iscrizione oppure richiesti al momento della sottoscrizione di una fidelity card o di un acquisto.

Perché quindi la Marketing Automation può rivelarsi un valido aiuto?

Come riportato dall’indagine di SalesManago, utilizzando una tecnologia basata sui dati come la Customer Data Platform, i professionisti del marketing possono sfruttare i dati di parte zero per estrarre informazioni che possono aiutarli a fornire una personalizzazione 1 a 1 (con l’aiuto dei dati di prima parte) e quindi ad arricchire l’esperienza del cliente.

I dati vengono raccolti da numerose fonti, puliti e combinati per creare un unico profilo utente. Questi dati strutturati vengono poi condivisi con altri sistemi di marketing oltre a poter generare azioni automatiche verso gli utenti.

In generale, però, l’epilogo sulla coesistenza di tecnologia e trattamento dei dati è ben lontano da un punto finale.

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Greenpeace, KLO e Burger King: i migliori annunci stampa di maggio

Molte delle campagne online in questo periodo fanno riferimento alla ripartenza: si torna a viaggiare, magari accompagnati da suggestive note che rendono più magica l’atmosfera in auto; si torna a incontrare le persone care, ai meeting di lavoro e, forse con un po’ di timore, a confrontarsi con gli spazi affollati.

Nessuno di noi è impressionato da annunci “banali”: siamo più colpiti quando il messaggio ci raggiunge e ci provoca emozioni come entusiasmo e allegria, ma anche come smarrimento o con la classica sensazione del “pugno nello stomaco“.

Forte, fortissima è, in questo caso, la potenza delle immagini: il successo di un annuncio stampa sta tutto lì, nel riuscire a catturare la nostra attenzione con un accostamento vincente di rappresentazioni grafiche e parole. E quando la creatività esplode, non possiamo fare a meno di fermarci a osservarla.

Ecco la nostra selezione di annunci stampa del mese di maggio, raccolti in giro per il mondo proprio per voi.

LEGGI ANCHE: Greenpeace, Colgate e McDonald’s: i migliori annunci stampa di aprile

KLO – Pump up the horses

Visual molto accattivante per la campagna di KLO, gestore di oltre 60 stazioni di servizio per il rifornimento in Ucraina. La campagna strizza l’occhio agli amanti della forma fisica: come noi amiamo un corpo atletico e muscoloso, così possiamo “pompare i cavalli” del nostro veicolo con il carburante adeguato.

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klo oil campaign 04Advertising Agency: Michurin creative agency, Kyiv, Ukraine
Creative Production Agency: Looma

Burger King – Feeling uncomfortable?

Che sensazioni ti suscita l’idea di trovarvi in mezzo alla folla? Beh, se ti senti a disagio, è perfettamente normale, secondo la campagna spagnola di Burger King.

Le foto degli annunci stampa sono, per fortuna, di qualche tempo fa: oggi, per assaggiare il miglior panino della città ed evitare l’affollamento, è sufficiente ordinare comodamente dall’auto.

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Advertising Agency: DAVID Madrid, Spain
Global CCO & Partner: Pancho Cassis
Global COO: Sylvia Panico
Executive Creative Director: André Toledo, Saulo Rocha, Edgard Gianesi
Creative Director: Fred Bosch, Rogério Chaves, Fabrício Pretto
Copywriter: Guilherme Pinheiro, Tito Rocha
Art Director: Pedro Sattin
Account: Luiza Prata Carvalho, Carolina Vieira, Lucila Mengide, Rafael Giorgino, Juliana Chediac
Media: Márcia Mendoça, Felipe Braga, Renata Oliveira
Strategic Manager: Patricia Urgoiti
Producer: Diego Baltazar

Greenpeace – Save My Soul

La campagna di Greenpeace diffusa in Austria mostra il grande, grandissimo potere che si nasconde dietro un dito. Si può combattere contro l’estinzione delle specie, e lasciare il segno, contribuendo con un semplice SMS.

Gli animali in pericolo ci ameranno per questo.

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Advertising Agency: DDB Wien, Vienna, Austria
Executive Creative Director: Thomas Tatzl
Executive Creative Director: Andreas Spielvogel
Creative Director: Babette Brunner
Art Director: Marina Mrvka
Copywriter: Jakob Paulnsteiner

Océano FM – Music Drives You

Nonostante i progressi nel campo delle vetture driverless, guidare è ancora una delle attività manuali più frequentemente associate alla libertà, al cambiamento, all’avventura e al viaggio.

E, come ogni avventura che si rispetti, ha bisogno della sua colonna sonora. La campagna di Océano FM in Uruguay utilizza alcuni famosissimi volti del panorama musicale mondiale come compagni di viaggio per i nostri spostamenti.

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Advertising Agency: Amén, Montevideo, Uruguay
Ccd: Nacho Vallejo
Cd: Mathias Gamarra
Cd: Carolina Gelfont
Copywriter: Rodrigo Gastan
Art Direction: Felipe Garat
Producer: Mikaela Corengia
Photography: Eugin Cöre
Chief Planner: Milena Guillot
Head Accounts: Joaquina Iribarren
Accounts: Lucia Mainardi

OYO Hotels & Homes – Every Jab Bridges The Gap

Uno dei settori più colpiti dalle restrizioni è, senza dubbio, quello dell’hospitality.

L’annuncio di OYO Hotels è un invito alla vaccinazione, così da riprendere più velocemente a incontrare le persone che amiamo e da cui siamo dovuti rimanere a distanza, ma anche i colleghi di lavoro per far ripartire gli affari. Ogni vaccinazione “ci avvicina” agli altri.

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Copywriter: Jatin Sangwan
Art Director: Tanushree Majumder
Creative Director: Rajat Agarwal
Copywriter: Satabisha Bhaumik
Creative Head: Prateek Suri
Copy Lead: Anissha Majumder
Global Brand Head: Mayur Hola

Quang Ngo Dinh

Perché la connessione a banda larga è vitale per l’economia e per la ripresa economica

N-Conference, il Business Visionary Event targato Ninja, ha celebrato le Unbreakable Companies, aziende e persone capaci di sopravvivere alla crisi grazie alla voglia di innovare e guardare oltre le difficoltà.

L’evento è stato trasmesso in diretta il 27 e il 28 maggio 2021 dagli studi di Fandango Club Creators.

Al centro dell’evento sono state quelle realtà in grado di reinventarsi, esplorando nuovi modi di stare sul mercato. Ma è stata anche l’occasione di conoscere e imparare da chi è in grado di trasformare gli ostacoli in opportunità e agire fuori dagli schemi per dominare il futuro.

La prima parte della prima giornata è stata dedicata a contenuti verticali sulla Technology, powered by TIM, per scoprire insieme le nuove opportunità dell’AI e del Machine Learning per il business, il Martech e l’Automazione dei processi di vendita e customer support, e familiarizzare con parole chiave del “futuro presente”, come Blockchain, Cryptocurrency, AR & VR.

Quang Ngo Dinh, VP Consumer Market TIM, ha partecipato a N-Conference con uno speech dal titolo “Gigabit Society & Smartlife, l’eredità della pandemia sulle abitudini quotidiane“, durante il quale ha analizzato come la pandemia abbia stravolto per sempre le abitudini quotidiane, ridefinendo i confini tra lavoro, studio e vita privata, dallo smart working alla didattica a distanza fino al tempo libero.

Quang Ngo Dinh

Per noi è stata l’occasione perfetta per intercettarlo e fargli qualche domanda sulle potenzialità della connessione come fattore abilitante di altre tecnologie.

LEGGI ANCHE: N-Conference: agenda e ospiti delle due giornate del Business Visionary Event

Secondo te, come avremmo vissuto questo periodo di restrizioni senza il digitale e la possibilità di rimanere in contatto attraverso le connessioni?

Difficile dirlo, perché ormai il digitale fa parte delle nostre vite, ma ho paura che questo periodo sarebbe stato molto simile alla grandi epidemie del passato.

Invece, questo è stato sicuramente un periodo molto difficile per tutti, ma il digitale ha consentito alle persone di portare avanti molti aspetti della propria vita: lavorare, studiare, rimanere in contatto con i parenti e magari ricevere assistenza medica a distanza, grazie alla connessione. E abbiamo avuto la possibilità di non abbandonare anche aspetti più ludici, come guardare film e serie tv in streaming, acquistare oggetti online, fare la spesa. Insomma, gesti quotidiani che sarebbero stati totalmente impossibili senza la connessione.

In qualche modo, il digitale ci ha aiutato a continuare a vivere in un contesto molto difficile.

realtà virtuale

Dal tuo punto di vista, quali sono le tecnologie che il 5G sarà in grado di abilitare, e cosa possiamo aspettarci per dopo?

Il 5G abilita certamente settori più tecnologici, come l’immersive gaming, che consente di giocare in modo più immersivo con esperienze tutte nuove, e come l’e-health, con la possibilità di eseguire interventi chirurgici a distanza.

Ma impatta anche su settori considerati più tradizionali, come il manufactoring e l’agriculture, perché grazie al 5G si possono applicare tecnologie che rivoluzionano settori che tecnologicamente sono più indietro. Tutto questo è già realtà, come la guida da remoto e altre tecnologie in fase di sperimentazione.

Per il futuro, è molto difficile immaginare cosa accadrà: può essere rischioso azzardare delle previsioni. Basti pensare a cosa è successo con il 3G, prima, (chi si sarebbe aspettato prodotti come l’iPhone e l’ecosistema delle app?) e il 4G, poi, con innovazioni come YouTube e i Social Media che hanno abilitato tutto il mondo a sfruttare tecnologie che neppure immaginavamo.

È un po’ il bello di ogni salto tecnologico.

In che modo una connessione veloce può diventare un fattore abilitante per altre tecnologie, ma soprattutto per la ripartenza economica del Paese?

La connessione è ormai vitale per l’economia e anche per la ripresa economica.

Intanto perché mette in contatto aziende, imprese e persone, ma soprattutto digitalizza processi, fa nascere nuovi modelli di business, nuovi modelli di intrattenimento e, se vogliamo, nuovi modelli di vita.

Ormai è quindi una necessità a cui non si può rinunciare, un bene primario quanto l’acqua e l’elettricità. La connessione digitale a banda larga è ormai essenziale per noi, per la nostra impresa, per il nostro Paese, per tutto il mondo.

Brand Purpose

Cosa e quanto rischia la tua azienda senza un purpose chiaro

Il problema dei grandi modelli teorici (a maggior ragione quelli che parlano di purpose) è che spesso vengono bollati nelle aziende come non applicabili.

Si tratta di framework anche molto ambiziosi, che puntano a rivoluzionare l’organizzazione aziendale entrando in flussi precisi, come l’acquisizione del cliente o l’impatto che la produzione ha sull’ambiente, ma che il più delle volte si scontrano con la necessità dei board di giustificare agli azionisti il perché di certe scelte, e soprattutto i risultati economici delle stesse.

Questa tacita resistenza, che coinvolge un po’ tutte le grandi sfide che il ventunesimo secolo ci sta prospettando, vale per quei tentativi di entrare in sistemi ingessati e rassicuranti che si sono stabilizzati con forza nel secolo scorso, e che non sembrano essere influenzabili da fattori seppure evidenti: basti pensare al dibattito sulla trasformazione che si sta subendo (e non guidando) nell’organizzazione del lavoro, che in un anno è stata totalmente messa in discussione dall’esplosione della pandemia da SARS-CoV-2.

In quanti, oggi, possono sostenere che il lavoro da remoto non possa funzionare o che non sia necessaria una revisione nelle normali policy di gestione del personale, nobilitando il work-life balance?

Eppure, molte aziende ancora si muovono con poca disinvoltura in una logica di resistenza al cambiamento piuttosto marcata.

Probabilmente in molti ancora tendono a negare una necessità di rimettere al centro dell’agenda la ridiscussione dei modelli precostituiti.

La necessità di assolvere un ruolo (attraverso un purpose)

Come in ogni fase di trasformazione, la pandemia ha avviato un processo di revisione totale di molti aspetti che è appena cominciato. Gli effetti che l’esperienza ha lasciato nelle società di tutto il mondo sono tangibili e irreversibili.

Al di là dei cambiamenti cui abbiamo assistito in ambito eCommerce (prevedibili visto le restrizioni), le evidenze che abbiamo raccolto riguardano una mutazione nella stessa idea di consumo da parte delle persone, più vicina a un concetto di community che non di individualità.

È dello scorso anno una dichiarazione molto interessante, a questo proposito, di David Morrisey, Director of Strategy di Camp + King: 

“Supponendo che la posta in gioco di base del valore, della disponibilità e della convenienza sia soddisfatta, i consumatori possono utilizzare un nuovo quadro quando decidono tra i marchi: fai del bene per me/noi, fai del bene alla tua gente, fai del bene al mondo.”.

Si noti quel “me/noi”.

Il consumo di prodotto è sempre stata una faccenda intima e personale: acquisto un prodotto perché va bene alle mie esigenze, tutt’al più a quelle dei miei cari. Oggi, quel “noi”, indica un passaggio di stato in cui la sfera personale si estende alla comunità che accoglie l’individuo, e si estende a tutto il pianeta.

Un approccio più consapevole e “umanista”, in continuità con l’evoluzione che stiamo vivendo che vede la persona al centro di tutti i processi di marketing. 

Secondo il rapporto “2020 Global Marketing Trends -Bringing authenticity to our digital age” realizzato da Deloitte UK, “proprio come le persone si aspettano che i marchi li trattino come esseri umani e non solo come transazioni, così essi si aspettano che i marchi agiscano in modo più umano”, muovendosi “con uno scopo attorno cui agire che possa fargli guadagnare lealtà, coerenza e rilevanza nella vita dei consumatori.”

purpose report - deloitte

Un approccio più umano, appunto, dove anche la tanto citata relazione fra individuo e azienda assume la forma di un rapporto fra due esseri emotivamente coinvolti, che vivono la produzione e il consumo di beni e servizi come azioni volte al bene singolare e collettivo, e non come un semplice gesto opportunistico che estragga valore da uno scambio di valuta.

Ciò porta una personalizzazione nel rapporto, che al di là del veicolare una customer experience che sappia deliziare il palato del consumatore, permette una maggior memorabilità della marca: a confermalo è il rapporto di Accenture Making it personal, che già nel 2018 sottolineava la necessità di personalizzare al massimo l’esperienza dell’utente allo scopo di rafforzarne l’impianto relazionale.

make it personal - accenture report

L’umanizzazione dei rapporti fra brand e consumatore è anche altro: parliamo di un evidente passaggio di stato del modo di concepire il ruolo delle aziende e anche il “perché” esse agiscano.

In una relazione che si fonda sempre di più su presupposti dove a essere centrali sono il “noi” e una visione meno “profittevole”, è chiaro che a diventare centrali diventano i fattori che “umanizzano” i brand: ed ecco rispuntare il purpose, come elemento differenziante e unificante.

Questo elemento differenziante e unificante permette lo sviluppo a livello relazionale di un percorso comune che deve condurre a un traguardo più alto, in cui ritrovarsi per uno scopo comune, innalzando la ragione per cui ci si incontra (lo scambio fra un bene o un servizio e della moneta).

Alcuni numeri per spiegare il fenomeno: secondo Forbes circa il 90% dei consumatori è più propenso a supportare le brand che dichiarano apertamente di avere uno scopo, un purpose.

Sempre secondo la rivista americana, oltre il 70% dei consumatori Millenial e GenZer preferisce marche con cui si identifica, o che, in altre parole, siano di ispirazione, perché in esse rivede ciò in cui crede.

Il principio di identificazione diventa decisivo per permettere alle persone di comprendere se ciò che i marchi fanno sia di loro gusto: una leva che si può trovare nella scelta delle amicizie, o meno poeticamente, nei partiti politici.

La scelta di un prodotto è percepita, a livello individuale, come espressione di un comportamento sociale, e come tale viene trattata: una forma di gestualità atta a rafforzare il ruolo sociale della marca e il suo impatto sulla comunità. 

Ciò che agli inizi del millennio avevamo imparato a conoscere come “sostenibilità”, con tutti gli annessi e connessi del caso, da aspetto nobilitante (ma non certo decisivo nel definire un’azienda) oggi diventa fattore indispensabile e non più derogabile. Se le aziende non agiscono secondo logiche sostenibili, semplicemente, vengono progressivamente ignorate dai consumatori a favore dei competitor.

Chiaro che la keyword “sostenibilità” si associa al tema ambientale, nonostante se ne parli anche in ambito società: e, tornando al discorso pandemia, il nostro rapporto con l’ecosistema terreste e l’inquinamento è decisamente cambiato durante la crisi del coronavirus.

Secondo una ricerca condotta dall’Institute for Business Value (IBV) pubblicata nel 2020, il 54% dei consumatori è disposto ad acquistare prodotti e servizi da marche che sono sostenibili e si accreditano come responsabili nei confronti dell’ambiente. 

Sustainability at a turning point

Source: Institute for Business Value

Questo vale anche per i talenti (e quindi per una delle aree più strategiche delle imprese, le HR): il 71% dei lavoratori sostiene di preferire aziende attente alla sostenibilità ambientale.

Il 48% degli intervistati (ben 14.000 adulti provenienti da nove paesi) è pronto addirittura ad accettare una retribuzione inferiore, se offerta da un’azienda attenta al proprio impatto ecologico.

Il punto di vista delle aziende

17 milioni di video. 159 paesi. 10 miliardi di views, e infine 220 milioni di dollari raccolti: sono i risultati dell’Ice Bucket Challenge, la sfida a colpi di secchi d’acqua gelata lanciata per raccogliere fondi contro la SLA che conquistò tutto il mondo nel 2014.

Dietro a quest’iniziativa c’era Porter Novelli, agenzia operante nel mondo delle PR dal 1972. 

L’Ice Bucket Challenge fu una delle prime iniziative a mostrare come, se uniti da un principio unificante, le persone possono generare collettivamente valore.

In un report pubblicato lo scorso agosto sul tema, la Porter Novelli ha sottolineato in che misura l’importanza in una chiara purpose venga osservata e compresa da chi le aziende le guida: uno dei dati più indicativi è che oggi 9 leader aziendali su 10 credono che, se guidate da uno scopo, i brand abbiano un vantaggio competitivo nel mercato.

purpose benefits

Segno che anche le prime linee, executive in testa, stanno prendendo coscienza che non c’è solo un aspetto nobilitante quando si lavora secondo un purpose: il cosiddetto purpose-driven business può diventare importante anche per i fatturati.

L’85% degli intervistati, infatti, sostiene come le aziende che si muovano secondo questa visione più “ideale” riescano a generare profitti: in che modo?

Il 99% ritiene che il risultato sia possibile grazie al miglioramento della reputazione, al miglioramento del processo di reclutamento e gestione delle risorse umane (95%), con l’aumento della fiducia dei consumatori (93%), e della loro lealtà nei confronti della brand (93%), oltre che a un aumento sensibile nella propensione alla raccomandazione e alle azioni di advocacy (92%).

I vantaggi finanziari, quindi, si evidenziano da subito dalla capacità non solo di attrarre clienti, ma anche di tenerli legati a sé: una delle difficoltà maggiori che si sono registrate a maggior ragione in questi ultimi 18 mesi è stata proprio rimediare a una generale ridiscussione del concetto di lealtà verso i brand, dato che, ad esempio, secondo lo State of Consumer Behaviour il 48.7% dei consumatori, durante la pandemia, ha rimpiazzato prodotti che abitualmente acquistava nei punti vendita fisici con alternative trovate online.

comportamenti d'acquisto

Considerato che le tendenze spingono verso un consumatore meno fedele e più propenso al cambiamento, la scoperta di nuovi canali di approvvigionamento di beni e servizi è un coefficiente di difficoltà in più da considerare: per questa ragione, farsi preferire per motivi che scavalcano i vantaggi empirici come prezzo o velocità di ricezione, diventa decisivo.

Basta darsi un proposito per affermarsi sul mercato? È sufficiente scegliere una delle tante battaglie sociali per riuscire a farsi preferire dai consumatori?

Ovviamente no. Il Purpose, con la P maiuscola, è parte integrante della brand identity di una marca e non può certo definito sulla base di improvvise quanto improvvide scelte.

La necessità principale è quella di valorizzare il proprio carattere e metterlo a sistema nello sviluppo di quella che, secondo l’approccio riconducibile allo Storytelling Management, è riconducibile alla definizione di piattaforma narrativa.

Scegliere, infatti, per quale nobile scopo muoversi, come muoversi, prendendo posizione nei confronti delle grandi sfide che l’umanità (e non solo il mercato) sta affrontando, è una scelta equivalente a cambiare modello di business: una direzione da prendere strategicamente e con consapevolezza, avendo ben chiaro che il rischio è infrangere le relazioni con il proprio target.

Lucrezia Gialli - Terna

Un futuro alimentato da energia pulita, con Open Innovation e analisi predittive

La transizione energetica è una delle grandi sfide del mondo di oggi e identifica il passaggio da una società dipendente da fonti energetiche non rinnovabili, soprattutto fossili, ad una alimentata da energie rinnovabili più pulite.

Un tema centrale non solo nei piani europei dell’Agenda 2030, ma oggi anche nel PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) del governo italiano.

Se notevoli progressi nella transizione verso un futuro energetico a basse emissioni di carbonio sono stati già compiuti, grazie a fattori economici e alla pressione sociale, saranno sempre di più le nuove tecnologie a offrire risposte fondamentali per completare questo cambiamento.

Decarbonizzare il sistema energetico non è l’unica risposta a questo bisogno mondiale. Sarà necessario anche aumentare l’efficienza energetica, identificare nuove priorità di investimento, implementare nuove tecnologie, adeguarsi alle nuove situazioni di mercato.

Per saperne di più sul tema e scoprire in che modo il nostro Paese si muove già in questa direzione abbiamo interpellato Terna, il più grande operatore indipendente di reti per la trasmissione di energia in Europa, nonché gestore della rete elettrica nazionale, cioè il soggetto che trasmette materialmente l’energia elettrica, e si posiziona a metà tra il produttore e il distributore.

Esercita quindi il ruolo di regista e abilitatore della transizione energetica per realizzare un nuovo modello di sviluppo basato sulle fonti rinnovabili, rispettoso dell’ambiente.

Sostenibilità, innovazione e competenze distintive sono alla base della filosofia aziendale, con l’ambizioso obiettivo di garantire alle prossime generazioni un futuro alimentato da energia pulita, accessibile e senza emissioni inquinanti.

Oltre a gestire le attività di pianificazione, sviluppo e manutenzione della rete, Terna garantisce il bilanciamento, la sicurezza e la qualità del servizio elettrico. In qualità di System Operator, infatti, Terna è titolare del servizio di dispacciamento nel sistema elettrico nazionale: garantisce cioè, istante per istante, che l’energia richiesta dai consumatori (famiglie e aziende) sia sempre in equilibrio con l’energia prodotta.

Per affermare il ruolo di regista e abilitatore della transizione energetica, Terna ha presentato un piano industriale quinquennale da quasi 9 miliardi di investimenti. Tra i pilastri del Piano “Driving Energy” – che è anche il claim scelto per portare avanti le attività nei prossimi anni – c’è l’innovazione.

Lucrezia Gialli lavora nella direzione Innovation e Market Solutions di Terna e, si occupa, in particolare, di Open Innovation. Ha curato una serie di progetti tra cui la collaborazione con la startup AIM, una nuova soluzione che permette di diagnosticare lo stato di salute di alcuni strumenti molto importanti per una efficiente distribuzione dell’energia.

Abbiamo fatto qualche domanda a Lucrezia sull’importanza di creare collegamenti tra le imprese e le realtà innovative e sul futuro dell’energia sostenibile nel Paese.

Lucrezia Gialli Terna

L’Open Innovation per la creazione di nuovi modelli di business

Per raggiungere l’obiettivo della sostenibilità attraverso l’innovazione Terna ha scelto la strada dell’Open Innovation.

La sfida quotidiana di Lucrezia è quella di creare un ponte tra l’azienda e l’ecosistema esterno, quindi mondo startup, università, centri di ricerca e gli altri stakeholder, cercando di applicare quello che in azienda chiamano modello “as a service”, cioè mettersi al servizio del business per scovare soluzioni innovative che possano portare valore all’azienda.

«In Terna adottiamo un modello di innovazione aperto, inclusivo, distribuito e concreto – ci racconta Lucrezia. Aperto perché l’Open Innovation prevede un’apertura verso le altre realtà dell’innovazione, come le startup, le università e i centri di ricerca. Inclusivo e distribuito, perché, in un’ottica di diffusione della cultura dell’innovazione, vogliamo coinvolgere tutti coloro che sono in azienda e non solo chi si occupa direttamente di innovazione. Il modello è inoltre concreto, perché non si limita a cercare soluzioni innovative, ma permette di realizzare i progetti che abbiamo individuato».

Tra le iniziative di Open Innovation portate avanti da Terna nell’ambito della sostenibilità, c’è la “Call for Innovation Advanced Materials for Sustainability”, da cui sono nati diversi progetti che oggi si stanno concretizzando, come la costruzione di edifici di Terna con materiali sostenibili e di economia circolare.

Un altro programma cardine nel processo di innovazione di Terna è Next Energy, promosso con la collaborazione di Fondazione Cariplo e Cariplo Factory, volto a individuare progetti innovativi nel settore energetico puntando proprio sulla sostenibilità e sui rapporti tra rete elettrica e territorio.

Puntare sulle startup consente di creare nuove opportunità di business, ma per capire davvero il senso di questa collaborazione è necessaria una premessa: il processo di innovazione deve essere bi-direzionale. Da un lato la direzione azienda/ecosistema, che partendo dalle esigenze di impresa porta avanti attività di scouting volte a ricercare soluzioni e società che possano soddisfare le necessità delle aziende, arrivando a sviluppare dei proof of concept o dei progetti di innovazione.

Dall’altro lato, c’è la via che va dall’ecosistema esterno di innovazione verso l’azienda. Terna parte dai trend emergenti e ne valuta la loro potenziale applicabilità rispetto al proprio business. È soprattutto in questo ambito che il contributo delle startup può fare davvero la differenza e creare valore, proponendo soluzioni innovative, o che sono state già sviluppate in settori diversi da quello energetico. «Le startup sono snelle, versatili e innovative. Grazie a queste caratteristiche, possono riuscire ad adeguare queste soluzioni al nostro business, creando opportunità inesplorate fino a quel momento», ci spiega Lucrezia.

«Questo approccio si riflette nel nostro modello di innovazione dei progetti, il modello 70-20-10. Il 70% delle attività si riferisce ad innovazioni incrementali, che vanno ad ottimizzare processi e soluzioni interne rispondendo a bisogni presenti. In questo caso cerchiamo “soluzioni pronte” e ciò riflette lo schema azienda-ecosistema che va dai bisogni
allo scouting. Le altre due dimensioni del modello di innovazione, del 20% e del 10%, sono le cosiddette innovazioni adiacenti e disruptive, per ricercare soluzioni che superino quelle
tradizionali al momento disponibili o, addirittura, che possano rispondere a bisogni futuri o meno conosciuti, che non abbiamo ancora individuato come tali. ».

In sintesi, le startup sono catalizzatori di innovazione e l’incontro tra queste e grandi realtà come Terna è di mutuo beneficio perché va a creare opportunità da entrambe le parti.

Con le startup verso un’energia più sostenibile

Uno degli ultimi progetti di Terna è quello che vede protagonista proprio la startup AIM – Artificial Intelligence Monitoring S.r.l. – e abbiamo chiesto a Lucrezia di spiegarcelo più nel dettaglio.

«È un progetto a cui sono molto affezionata, nato nell’ambito della quarta edizione del programma Next Energy, finalizzata a valorizzare e sostenere la crescita di team di innovatori o startup che proponevano progetti innovativi sul tema “Un ruolo guida nella transizione energetica”. Il programma si articola in tre call, Call for Talent, Call for Ideas e Call for Growth che vanno a coinvolgere, rispettivamente, attori diversi: neolaureati, team di innovatori e società più mature.

Al momento della candidatura, AIM era infatti composto da un team di innovatori: 4 studenti dell’Università Federico II di Napoli. Non si trattava di una startup già costituita.

Ho avuto l’opportunità di essere il mentor di questi quattro ragazzi e di accompagnarli nel loro percorso di empowerment insieme ai miei colleghi Claudio Serafino, Responsabile Misure e Prove e PM del progetto, e Marino Sforna, Responsabile Rischi Mercato e Sistema Elettrico».

trasformatore Terna 01

«Insieme abbiamo declinato questo use case e, al termine del percorso di empowerment, visto il nostro interesse a portare avanti il progetto, il team ha deciso di costituirsi in società così da avviare la sperimentazione con Terna.

Per me questo è stato un grande motivo di orgoglio, intanto perché è un progetto in cui ho creduto fin dall’inizio, ma anche perché mi ha fatto comprendere quanto sia importante l’innovazione per la nostra azienda che la incoraggia sia internamente sia esternamente. Vorrei sottolineare, inoltre, che su questo progetto hanno lavorato persone dislocate in luoghi molto distanti tra loro: io sono basata a Roma, i colleghi tra Torino e Milano e i ragazzi della startup sono di Napoli. Nell’anno della pandemia è stato necessario un grande impegno per rendere concreto questo progetto».

Il progetto in sé ha l’obiettivo di sviluppare una metodologia e un applicativo software per l’analisi delle vibrazioni emesse dai trasformatori durante il funzionamento.

I due pilastri fondamentali per Terna sono gli asset e le persone. Terna ha più di 74.700 km di linee, circa 890 stazioni elettriche, oltre 740 trasformatori. Ecco quindi che risulta davvero molto importante la diagnostica su questo tipo di macchine.

«Naturalmente, abbiamo da sempre sviluppato metodi di diagnosi, principalmente basati su misure elettriche, oppure di natura chimica. Oggi, questi approcci, sono integrati da una
nuova metodologia di natura meccanica che si basa sullo studio delle vibrazioni e del loro evolvere nel tempo. Con questo innovativo progetto, possiamo effettuare la diagnostica con la macchina in esercizio», sottolinea ancora Lucrezia Gialli.

In questo momento è in corso la sperimentazione che consente di rilevare i dati dal campo e svolgere una serie di analisi.

Terna trasformatore 02

Oggi poter intervenire in modo predittivo sulle infrastrutture può rivelarsi un importante vantaggio. In particolare, Terna effettua prevalentemente manutenzione preventiva, su questo tipo di macchine, che rivestono un’importanza fondamentale per l’esercizio della rete elettrica.

In tale ambito, l’intelligenza artificiale ha permesso di fare un salto tecnologico perché ha consentito di integrare i dati rilevati dalla sensoristica già presente sulle stazioni elettriche di Terna, con la capacità di riconoscere i cambiamenti nei comportamenti degli asset in caso di potenziali anomalie.

«Intelligenza artificiale, robotica e IoT, sono tre dei trend emergenti per il futuro del sistema energetico italiano che abbiamo mappato, insieme a molti altri, all’interno dei quattro cluster tecnologici su cui, ad oggi, concentriamo le nostre attività di innovazione, che sono Digital, Advanced Materials, Energy Tech e Robotics».