Questo è stato di certo un anno particolare soprattutto per chi lavora nel mondo del web. Sono tante le novità che i content creator stanno sperimentando e l’ultima notizia, oggi, arriva proprio da YouTube.
Di cosa si tratta? YouTube sta facendo un esperimento che sembra essere passato pressoché in sordina ma che ha riscontrato un discreto successo.
Il servizio sta implementando una modifica che renderà privato il conteggio dei “Non mi piace” in tutti i video.
Quello che sappiamo è che il pulsante dei dislike resterà ancora visibile, ma il numero dei “Non mi piace” potrà essere visualizzato solo da chi ha caricato il video sul proprio canale. Il conteggio quindi non sarà disponibile per il resto degli spettatori.
Una mossa per arginare l’intolleranza dilagante nel web?
È lecito chiedersi se questa mossa è stata pensata per cercare di limitare l’odio dilagante che ormai affolla il mondo del web.
Il marchio di proprietà di Google è consapevole che alcune persone hanno utilizzato il pulsante dei “Non mi piace” per prendere decisioni sulla visualizzazione di un certo contenuto, ma hanno ritenuto che i conteggi segreti avrebbero aiutato meglio tutta la community in generale.
I content creator alle prime armi o che comunque non vantano grandi numeri, sono più spesso presi di mira da vere e proprie crociate d’odio gratuito, ha affermato YouTube. Questo test si è rivelato utile per ridurre tali molestie.
La mossa creerà teoricamente uno spazio “inclusivo e rispettoso” in cui i videomaker hanno maggiori possibilità di successo e si sentiranno al sicuro e più tutelati.
Nascondere al pubblico i “Non mi piace” funzionerà?
Ovviamente non abbiamo alcuna garanzia che questa ultima trovata sarà utile a tutti gli utenti, o che comunque non indurrà i soliti molestatori a trovare alternative per infastidire i creator.
Tuttavia, non possiamo negare che magari questo gesto potrebbe scoraggiare gli abusi di chi utilizza il pulsante “Non mi piace” con leggerezza, per non parlare di tutti coloro che sperano di far offuscare e censurare i video che si scontrano con le proprie opinioni.
Una cosa è certa, il web è nato come un posto libero e nessuno dovrebbe minare il modo di essere e di esprimersi dell’altro, soprattutto con cattiveria gratuita.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2021/11/youtube-toglie-i-non-mi-piace.jpg539958Mariagrazia Repolahttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngMariagrazia Repola2021-11-11 12:51:172021-11-12 12:20:45Addio “Non mi piace”: YouTube ne nasconderà il numero in tutti i video
La tecnologia sta cambiando la vita delle persone, in tutti gli aspetti. Le digital skill sono ormai richieste e necessarie in ogni aspetto del quotidiano, dal modo di comunicare a quello di vivere e, soprattutto, a quello di lavorare.
Di conseguenza, aumenta anche il numero e il tenore delle sfide da affrontare, per il Paese e per il singolo, per rimanere competitivi sul piano internazionale e all’interno del mondo del lavoro.
Le tecnologie digitali possono dare molte risposte e fornire soluzioni adeguate ad affrontare queste sfide, incentivando la competitività attraverso l’innovazione e traducendole in opportunità grazie al miglioramento del livello di istruzione e la creazione di nuovi posti di lavoro.
La pandemia di Covid-19 ha reso la digitalizzazione una componente essenziale, sia per la ripresa economica, sia per l’implementazione dei sistemi sanitari e di assistenza dell’eurozona: transizione tecnologica, promozione di tecnologie abilitanti e rinnovamento del sistema sanitario in chiave digitale sono ormai priorità assolute.
L’Italia e le Digital Skill
A che punto è l’Italia rispetto agli altri Paesi dell’Unione Europea? Per comprendere l’attuale posizionamento nello scenario internazionale possiamo utilizzare un indicatore sintetico della Commissione Europea che, a partire dal 2014, monitora i progressi degli stati membri in tema di digitalizzazione, in modo da favorire la comparazione tra essi. Si tratta del Digital Economic Society Index (DESI).
Nel report vengono prese in considerazione diversi aspetti della digitalizzazione, ma anche riguardo alle digital skill dei cittadini:
utilizzo di servizi Internet
capitale umano
connettività
integrazione della tecnologia digitale
servizi pubblici digitali
In tutti i comparti si evidenzia un trend crescente, ma con evidenti differenze tra le diverse zone europee.
L’impegno dell’Unione Europea in tal senso è chiaro: l’obiettivo è creare uno spazio digitale sicuro per le cittadini e le imprese. Aspetto da non sottovalutare è che questo spazio sia assolutamente inclusivo e accessibile a tutti.
Per raggiungere il traguardo, sarà necessario transitare in una trasformazione digitale che tuteli i diritti fondamentali e la sicurezza dei cittadini. La proposta di strategia della Commissione Europea mette in primo piano le competenze e l’istruzione digitali, sottolineando la necessità di rafforzare la “sovranità digitale” dell’Europa.
La proposta è articolata intorno a quattro settori:
competenze;
impresa;
pubblica amministrazione;
infrastrutture.
Tra il 2015 e il 2020, l’incremento dei livelli analizzati nel report DESI è stato del 36%. I Paesi che hanno fatto registrare una maggiore crescita sono Ungheria (49%) e Polonia. Seguono poi Italia (45%) e Irlanda (44%).
Il dato è certamente positivo, ma non fa che sottolineare quanto la crescita di posizione riguardi soprattutto i Paesi in cui il grado di digitalizzazione era più basso (Italia compresa). Pur posizionandosi nella parte bassa della classifica, l’introduzione dei sistemi e della tecnologia digitale ha permesso alle realtà “più in ritardo” di recuperare, almeno parzialmente, il gap con i paesi che si attestano alle prime posizioni.
Sull’indicatore della connettività, Danimarca, Svezia e Lussemburgo registrano il punteggio più alto. L’Italia ha recuperato ben otto posizioni rispetto all’indagine del 2018, pur rimanendo nella posizione bassa della classifica, al 18esimo posto.
Per quanto riguarda il capitale umano, troviamo sul podio Finlandia, Svezia ed Estonia, mentre noi siamo (ahimè) fanalino di coda della classifica. In tutti i Paesi parte dell’indagine, comunque, viene evidenziato un consistente gender gap: solo uno specialista Ict su sei è donna, segno che acquisire digital skill è tanto importante per il mondo maschile quanto per quello femminile.
Anche per l’utilizzo dei servizi Internet, l’Italia occupa un poco dignitoso terz’ultimo posto, senza alcun miglioramento rispetto 2018.
Recuperiamo invece una posizione rispetto al 2018 sull’integrazione della tecnologia digitale, posizionandosi al 25esimo posto.
Il quadro generale
In generale, possiamo renderci conto di un complessivo miglioramento nella digitalizzazione europea, che conferma però il divario netto tra i paesi nordici ad alti livelli di digitalizzazione e il resto dell’Europa. Le persone di alcuni Paesi possono contare su digital skill più ampie e questo è un vantaggio non indifferente.
La strada per recuperare il gap digitale è senza dubbio ancora molto lunga e richiede l’intervento massiccio dei singoli stati per produrre un cambiamento sostanziale. Anche se la pandemia ha certamente spinto nella direzione della conversione digitale per moltissime attività economiche, c’è ancora molto da fare.
Tuttavia, con l’introduzione del Piano nazionale di ripresa e resilienza, l’Italia sembra sulla buona strada.
Non c’è più tempo, è ora di invertire la rotta
La resilienza è una delle capacità più importanti quando si affrontano le avversità e si cerca di riprendersi. Lo sconvolgimento della vita lavorativa che tutti abbiamo vissuto nell’ultimo anno sta aggiungendo una nuova dimensione al valore di questa capacità.
Secondo Tatiana Kolovou, membro di facoltà della Kellogg School of Business, la resilienza è “la capacità di non cedere sotto pressione anche se non ci si sente tranquilli e fiduciosi, di essere in grado di sostenere l’energia durante compiti altamente impegnativi e di essere in grado di riprendersi rapidamente e rimbalzare alla posizione di partenza, anche quando si sta vivendo una battuta d’arresto”.
Oggi però la resilienza ci permette di fare qualcosa in più: questa qualità, infatti, può aiutarci non solo a rimbalzare indietro, ma anche a rimbalzare in avanti, aiutandoci a trarre il positivo da esperienze che sembrano intrinsecamente stressanti.
Perché parliamo di Digital Skill e Resilienza Digitale
Da una ricerca di Boston Consulting Group commissionata da Google risulta che le aziende maggiormente mature dal punto di vista digitale ottengono mediamente un aumento di revenue del 18% e riducono del 29% i costi aziendali, con un crescita delle proprie quote del mercato doppia rispetto alle aziende simili ma meno digitalizzate.
Uno degli elementi della maturità digitale della aziende è la capacità di assicurarsi nuove skill e risorse. Skill specialistiche e un team agile in grado di fare e fallire velocemente sono fondamentale per il successo aziendali.
In questo scenario c’è un’assoluta necessità di reskilling e upskilling e per questo anche il Governo italiano ha stanziato l’importante cifra di 40,29 miliardi euro per la transizione digitale.
1 miliardo di persone, infatti, devono reskillarsi entro il 2030.
Con la pandemia si è toccato il massimo livello di disoccupazione con il 7,2% e con l’80% dei lavoratori che affrontano insicurezze sul proprio posto di lavoro (licenziamenti, taglio delle ore). Chi rischia di più sono i lavoratori con minore livello di istruzione e sprovvisti di Digital Skill e per questo la pandemia rischia di aumentare le disuguaglianze già esistenti: servono competenze digitali avanzate come quelle nel marketing digitale per rispondere a questo rischio.
Le competenze per essere resilienti
Quando parliamo di competenze avanzate ci riferiamo alle capacità e competenze tecniche che permettono oggi ad una azienda di essere presente sui mercati attraverso strumenti e piattaforme digitali avanzate.
Ci riferiamo alla capacità di lavorare e collaborare da remoto, all’utilizzo di eCommerce, marketplace, piattaforme di delivery, strumenti di marketing e comunicazione digitali, di indicizzazione sui motori di ricerca, social advertising, strumenti di marketing automation, di analisi dei dati, così come della capacità di strutturare esperienze di consumo su piattaforme digitali basate sull’usabilità ma anche sul rispetto della privacy e della sicurezza.
Oggi servono, insomma, esperti di privacy e diritto online, di web analytics, di segmentazione dei pubblici, media strategist, esperti di paid media, di creazione di contenuti, di ottimizzazione delle conversioni, esperti di user interface, designer di user experience, di dati e di tecnologie applicate al marketing.
Infine, nel breve e nel medio termine nuove tecnologie modificheranno gli scenari e serviranno ancora nuove competenze, pensiamo al web 3.0 abilitato dalla blockchain, al metaverso, alla realtà virtuale e aumentata o alla mixed reality. Nuovi mondi e mercati digitali che necessiteranno di nuovi architetti, designer, rappresentanti, venditori, commercianti, animatori, programmatori, marketer specializzati.
Non possiamo permetterci che questa occasione venga sprecata.
Il Piano Ninja di Ripresa e Resilienza Digitale
Fino al 3 dicembre 2021 potrai avere formazione, informazione e networking gratis, grazie all’impegno di Ninja nel dare il suo contributo alla rinascita del Paese. Tre ingredienti fondamentali per alimentare la tua resilienza e quella di tante aziende italiane.
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https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2021/11/digitalizzazione-italia-digital-skill.jpg536957Fabio Casciabancahttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngFabio Casciabanca2021-11-11 11:56:162021-11-15 11:15:41Così non va: l'Italia ancora fanalino di coda in Europa per Digital Skill
Il CEO di Tesla Elon Musk ha venduto quasi 5 miliardi di dollari in azioni Tesla, secondo i documenti finanziari appena pubblicati. Possiede però ancora più di 166 milioni di azioni.
Il suo trust ha venduto più di 3,5 milioni di azioni per un valore di oltre 3,88 miliardi di dollari in una raffica di scambi effettuati martedì e mercoledì. Queste transazioni non sono state contrassegnate come 10b5, il che significa che non erano vendite programmate.
I documenti hanno mostrato che Musk sta vendendo un blocco separato di azioni Tesla attraverso un piano programmato dal 14 settembre di quest’anno. Queste vendite ammontano a più di 930.000 azioni per un valore di oltre 1,1 miliardi di dollari.
Il sondaggio sulle azioni Tesla e il crollo in borsa
Prima che il piano di vendita fosse reso pubblico, Musk aveva chiesto ai suoi 62,5 milioni di follower su Twitter di votare in un sondaggio informale, dicendo loro che il loro voto avrebbe determinato il futuro delle sue partecipazioni in Tesla.
I documenti rivelano che, in effetti, era già a conoscenza che alcune delle sue azioni erano destinate alla vendita in questa settimana.
Much is made lately of unrealized gains being a means of tax avoidance, so I propose selling 10% of my Tesla stock.
Dopo il sondaggio su Twitter, le azioni di Tesla sono crollate più del 15% tra lunedì e martedì, prima di rimbalzare del 4% mercoledì. Il limite del 10% per cento delle azioni di cui si parla nel sondaggio è ancora molto lontano: Musk dovrebbe dar via ancora circa 17 milioni di azioni per arrivarci.
Le vendite aggiuntive di azioni non erano quindi previste e forniscono a Musk notevoli riserve di denaro, dato che la sua ricchezza è in gran parte legata proprio alle sue partecipazioni in Tesla e SpaceX.
Musk ha infatti più di 20 milioni di ulteriori stock option che scadranno ad agosto del prossimo anno.
Il CEO di Tesla è la persona più ricca del mondo, con un patrimonio di quasi 300 miliardi di dollari.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2021/11/azioni-Tesla.jpg538957Fabio Casciabancahttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngFabio Casciabanca2021-11-11 07:54:342021-11-11 17:49:51Elon Musk ha venduto circa 5 miliardi di dollari di azioni Tesla
I giovani non ci stanno più e vogliono lasciare il lavoro.
Non ci stanno a trascorrere i weekend a recuperare i task che non sono riusciti a svolgere nella settimana lavorativa. Dicono “no” agli straordinari e alla produttività a ogni costo, anche rimettendoci la salute mentale.
In un articolo del New York Times che è diventato virale la scorsa settimana, la ricercatrice Emma Goldberg ha esplorato come i millennial abbiano “paura” dei lavoratori della Generazione Z, che stanno spingendo per una nuova, audace richiesta di condizioni migliori sul posto di lavoro per raggiungere un giusto equilibrio tra ufficio e vita privata.
Può sembrare un cliché, ma da sempre le generazioni più giovani si sentono meno vincolate all’impiego e alle responsabilità e sono, mediamente, più facilmente disposte a lasciare il proprio lavoro per lanciarsi in nuove avventure professionali, ma la generazione Z, soprattutto dopo la pandemia, sta portando questo concetto all’estremo.
Ad agosto, uno studio di Personal Capital e The Harris Poll ha scoperto che due terzi degli americani intervistati erano desiderosi di cambiare lavoro. tra i più giovani, la percentuale arrivava addirittura al 91%, più di qualsiasi altra generazione.
Quali sarebbero queste “assurde richieste” dei ventenni che si approcciano al mondo del lavoro? Meno mansioni, una valutazione del lavoro svolto basata sui risultati e non sulle ore trascorse in ufficio, maggiore flessibilità di orario.
È un netto contrasto con le giornate strutturate e sovraccariche di lavoro a cui sono abituati i millennials, ossessionati dal lavoro.
Shana Blackwell, lavorava come magazziniere notturno in Walmart . Quando si è licenziata, ha usato il sistema di interfono del negozio per dirlo a tutti nell’edificio.
Blackwell, allora 19enne, aveva raggiunto un punto di rottura a causa del suo lavoro estenuante e fisicamente impegnativo. Aveva presentato delle lamentele a Walmart ma senza alcun risultato.
All’inizio era pronta a licenziarsi “secondo le regole” ma nessuno era disponibile ad ascoltarla. Così, il suo lungo annuncio si è concluso con “”Fan**** ai manager, fan**** a questa azienda, fan**** a questa posizione … Mi licenzio, ca***!“.
Il movimento globale fa parte di quello che Erika Rodriguez ha chiamato “slow-up” in un recente pezzo di opinione per il Guardian, riferendosi a un cambiamento permanente nel rallentare la produttività con lo scopo di separare nettamente il lavoro dalla vita privata.
Questa intenzione potrebbe tradursi nella volontà di prendersi pause non previste dagli orari di lavoro o rispondere alle email solo in determinati giorni della settimana, e la cosa spaventa molto i loro capi millennial, perché sembrano essere tutti d’accordo e compatti sulla questione.
Il fenomeno è probabilmente strettamente legato agli eventi degli ultimi due anni: secondo lo psicologo organizzativo Anthony Klotz, che ha coniato il termine “La Grande Dimissione”, vivere in un momento storico tanto condizionato da una pandemia globale ha spinto le persone a porsi delle domande esistenziali, oltre ad aver permesso alle persone, volenti o nolenti, di allontanarsi dai luoghi di lavoro e sperimentare altri modelli di vita.
Licenziarsi è un trend
Il CEO di LinkedIn Ryan Roslansky ha dichiarato in una recente intervista al Time che non dovremmo tanto parlare di “Grande Dimissione” quanto di “Grande Rimpasto”, per ciò che riguarda i lavoratori più giovani.
Il suo team ha monitorato la percentuale di membri di LinkedIn che hanno cambiato lavoro in base al profilo e ha scoperto che le transizioni di lavoro sono aumentate del 54% rispetto all’anno precedente. Le transizioni di lavoro della Gen Z sono invece aumentate dell’80% .
Ha avvertito le aziende a valutare attentamente la nuova situazione: “I vostri dipendenti a livello globale stanno ripensando non solo al modo in cui lavorano, ma anche al perché lavorano e cosa vogliono fare delle loro carriere e delle loro vite“, ha detto per poi concludere “Questo rimescolamento di talenti molto probabilmente continuerà per un altro anno o due, ma credo che alla fine si stabilizzerà“.
La Gen Z è felice di lasciare il lavoro e lo dice su TikTok
Certamente il “job-hopping” ha degli aspetti positivi, perché motiva i giovani a cercare nuove opportunità e permette di capire cosa davvero si vuole ottenere: lasciare il lavoro e puntare a una vita lavorativa più flessibile permette infatti di estendere i propri orizzonti e avere uno sguardo più ampio sul futuro.
Di solito, le uniche persone informate su un licenziamento sono chi lo lascia, il capo e un rappresentante delle risorse umane.
Ma con un numero record di lavoratori che si sono decisi a lasciare il lavoro durante la pandemia, le persone hanno reso pubbliche sempre più spesso le loro storie in modo che tutti potessero vederlo e condividerlo.
La Gen Z non è per niente timida nel diffondere la notizia del licenziamento, anzi, incoraggia l’addio a ruoli tossici nello stesso modo in cui siamo stati abituati noi millennial a celebrava un nuovo lavoro come un grande traguardo.
Sono compatti e fanno squadra contro un mondo del lavoro opprimente: su TikTok i giovani postano video allegri e festosi dopo aver lasciato il lavoro. E la cosa velocemente è diventata un trend.
Che rischia di rimodellare completamente il mondo del lavoro.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2021/11/lasciare-il-lavoro-tiktok.jpg540960Fabio Casciabancahttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngFabio Casciabanca2021-11-09 10:00:222021-12-29 15:42:27Lasciare il lavoro è virale: la Gen Z festeggia il licenziamento sui social
Per parlare di Squid Game quasi non servirebbe fare un’introduzione e spiegare di cosa parleremo in questo articolo.
Ma noi la facciamo ugualmente perché vogliamo che sia chiaro a tutti la portata di questo fenomeno di massa, diviso tra serie Tv e viralità social.
Stiamo parlando dell’ultima serie di successo di Netflix. Anzi, per essere più precisi riportiamo le parole di Ted Sarandos, co-CEO di Netflix: “C’è un’ottima possibilità che sia il nostro più grande spettacolo di sempre“. Questa dichiarazione ci fa capire subito la portata mondiale di Squid Game.
Dietro ad ogni vittoria o sconfitta ci sono tante dinamiche e sarebbe banale ricondurre il tutto ad un’unica motivazione.
Si rischierebbe di banalizzare il tutto. Proveremo a sottolineare alcuni aspetti interessanti, che diversificano Squid Game da altre serie di successo e capirne il motivo.
Il primo aspetto è sicuramente la lingua: questa è una serie Sud Coreana ma ad oggi è al numero 1 anche negli Stati Uniti e Inghilterra.
In Italia, per esempio, non c’è il doppiaggio ma solo i sottotitoli. Una barriera che non ha di certo scoraggiato il pubblico italiano che ha comunque premiato questa serie.
Non è di certo la prima serie tv in lingua originale non americana/inglese, ma di sicuro quella più di successo.
Citiamo alcuni esempio come “Lupin“, in francese, “Money Heist“, originariamente in spagnolo (entrambe ottimi successi) e Unorthodox girata in Yiddish.
Altra particolarità, oltre alla lingua originale, c’è sicuramente la trama sulla quale è basata la storia: una serie di giochi infantili che terminano tutto con l’eliminazione fisica dei concorrenti che non raggiungono il traguardo.
Una tematica trasversale anche per età: il pubblico più “adulto” rivive i giochi dell’infanzia con una componente splatter importante, mentre i più giovani lo vivono come un proseguimento dei videogames.
Gaming e serie TV
“Ci sono giovani adolescenti che lo guardano nei videogiochi come Roblox e Minecraft, e ci sono millennial che lo guardano a casa e Gen Xers che ne sentono parlare, e vogliono guardarlo“ affermaJulia Alexander, Senior Strategy Analyst per Parrot Analytics. “Se dicono, ipoteticamente, che 80 milioni di famiglie lo hanno guardato nei primi 28 giorni, è abbastanza preciso come dato“.
Siamo davanti ad una serie tv che è riuscita ad intercettare un pubblico variegato puntando su diversi aspetti e caratteristiche che stanno bene insieme. Gaming, giochi di ruolo, violenza, brutalità e pathos.
Per capire la portata di questo fenomeno basta leggere i dati che ci arrivano dai social network. L’interrelazione tra serie tv e social in questo caso è la riprova di come il Buzz Marketing sia un’arma difficile da controllare, ma potentissima.
Un po’ di numeri: su TikTok, per esempio, #SquidGame è stato visto più di 22,8 miliardi di volte.
Un dato, questo, che sottolinea ancora una volta l’età del pubblico intercettato da questa serie: un pubblico giovanissimo (a volte anche al di sotto dei dieci anni, come testimoniano alcune maestre elementari) guarda Squid Game e poi ci gioca sui social preferiti come Tik Tok.
Questi ragazzi lo fanno utilizzando e commentando Meme, lanciando challenge, vedendo video e reel.
Un esempio è la ragazza che canta “mugunghwa kochi pieotsumnid”, che si traduce approssimativamente in “Luce rossa, luce verde 1, 2, 3!”, utilizzato per oltre 420.000 video sulla piattaforma, molti dei quali mostrano come le persone vincerebbero o perderebbero al gioco.
Un percorso, serie tv – social, che viene fatto anche dal pubblico adulto su Twitter dove l’hashtag #squidgame è stato in tendenza per diverse settimane con meme, mini video e altri contenuti.
Tra meme e real time marketing
Su Facebook la viralità di Squid Game la si potrebbe misurare in Meme, utilizzati e creati da migliaia di utenti e pagine.
Un vero e proprio buzz che ripercorre, con dimensioni mondiali, quelli che è accaduto in Italia con la serie Amazon “LOL” dove la vera pubblicità al programma comico non è arrivata dai canali ufficiali Amazon ma attraverso il famoso “So Lillo” pronunciato da Lillo di Lillo e Greg.
Oltre al fattore Meme bisogna sottolineare, in questo caso, anche tutto il percorso utilizzato da diversi brand nello sfruttare il Real Time Marketing.
In sintesi è avvenuto proprio questo. Squid Game ha successo, si parla sui social della serie tv coreana (e su questo Twitter rimane essere un termometro assolutamente efficace), i brand sfruttano la popolarità di Squid Game per fare interazione, Squid Game a sua volta sfrutta la visibilità data dai brand e dalle loro interazioni.
È un circolo vizioso e virtuoso, difficile da iniziare, che una volta partito assicura visibilità, viralità e interazioni.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2021/10/squid-game.jpg6361135Riccardo Angelo Colabattistahttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngRiccardo Angelo Colabattista2021-11-08 14:15:522021-11-08 15:08:31I numeri social del successo di Squid Game (e perché è diventata virale)
Immagina di dover organizzare un matrimonio con 500 invitati.
Hai preparato una valanga di inviti alla cerimonia e al ricevimento, ciascuno con la sua busta linda e le sue minuziose decorazioni.
Sei già nell’ufficio postale pronto a spedire, con il bigliettino in mano e, davanti a te, l’impiegata ti attende sorridente.
In quel preciso istante ti accorgi di non avere a portata di mano gli indirizzi degli invitati.
A quel punto, vai nel panico.
Ovviamente, si tratta solo di una situazione a titolo di esempio, ma è uno scenario molto simile a quello che si prospetta per il futuro della pubblicità digitale.
I messaggi promozionali sono pronti sui nastri di partenza, ma le aziende si accorgono di non aver modo per farli arrivare al target corretto.
“I nostri prospect riceveranno la nostra sponsorizzazione?”, “Quanti di loro hanno visualizzato il messaggio?”, “Riceveremo una risposta?”.
Questo è il dilemma che dovranno affrontare molti editori e inserzionisti nei prossimi mesi.
La chiamano Addressability Era e a tanti incute più timore del Capitano Willard di Apocalypse Now o di una scena di Squid Game.
I marketer si affannano a reinventare il modo in cui identificare e raggiungere uno specifico target pubblicitario attraverso il web.
I giganti del digitale, Google e Apple tra i principali player, puntano ad adottare un approccio più attento alla privacy e ai dati dei consumatori, spingendo chi si occupa di pubblicità online a far fronte alla dismissione dei cookie di terze parti.
Facciamo chiarezza.
Il meccanismo con cui inserzionisti ed editori comprano e vendono spazi pubblicitari è automatizzato e si basa su aste sviluppate attraverso i dati elaborati da una piattaforma che incrocia domanda e offerta.
È il Programmatic Advertising Exchange.
L’offerta è quella di spazi pubblicitari messi a disposizione dalle piattaforme degli editori (SSP – Supply Side Platform). La domanda è relativa alle inserzioni pubblicitarie che aziende e marketer devono allocare (DSP – Demand Side Platform).
Il Programmatic Advertising – e in particolare il retargeting – dipende fortemente dai cookie di terze parti.
Ad oggi, su Safari e su Firefox l’impostazione di default del livello di privacy prevede già il blocco dei cookie di terza parte.
Google Chrome si accinge a disabilitarli dal 2023 con l’applicazione della Privacy Sandbox, aggiornamento che segnerà un cambiamento radicale nel modo di fare advertising online.
Ma non è ancora arrivato il momento di suonare la Cavalcata delle Valchirie di Wagner e far salire in volo gli elicotteri: il cambiamento fa meno paura perché viene percepito come un’opportunità per offrire al consumatore 4.0 soluzioni di ingaggio multiple e multichannel.
Che cos’è l’Addressability e perché è così importante
L’Addressability è la capacità di identificare e raggiungere persone specifiche attraverso una campagna pubblicitaria.
Una audience “addressed” è quella che puoi chiaramente tracciare e identificare attraverso dati univoci, come l’indirizzo email.
L’addressability è importante perché consente a un’azienda di capire come e dove coinvolgere il proprio pubblico di destinazione: con dati chiari su come specifiche persone interagiscono con le proprie campagne, l’azienda è in grado di creare segmenti di pubblico targettizzato, messaggi altamente personalizzati e lanciare campagne mirate che generano alto coinvolgimento e revenue.
La capacità di identificare le caratteristiche di un singolo consumatore è un’arma estremamente potente presente nell’arsenale della pubblicità digitale.
Stabilire una comprensione di come gli inserzionisti utilizzano i vari dispositivi mobili e interagiscono online attraverso una miriade di canali e piattaforme, significa che i brand possono raggiungere il pubblico con la messaggistica giusta, al momento giusto.
Esattamente ciò che serve per far funzionare una campagna di digital marketing.
Il percorso verso l’addressability può presentarsi complesso, ma è un cambiamento che i professionisti del marketing devono abbracciare per non restare indietro in vista dell’imminente scomparsa dei cookie di terze parti.
Dal mercato arrivano chiari segnali che gli inserzionisti stanno già facendo progressi.
Una ricerca svolta nel Regno Unito nel terzo trimestre del 2021 da Criteo, azienda global specializzata nell’Open Internet applicato al digital marketing, ha evidenziato che il 45% dei marketer con capacità di spesa nel digital marketing si sentiva confuso, stressato e arrabbiato quando ha scoperto la notizia.
È comprensibile: si tratta di un grande cambio nel settore del digital advertising.
Tuttavia, si prevede che quasi la metà degli inserzionisti e delle agenzie marketing (47%) spenderà di più per una maggiore identificazione del pubblico e in addressability nel 2021 rispetto al 2020. Esattamente la metà (50%) prevede di mantenere invariati i livelli di spesa. Solo il 3% ha dichiarato che spenderà meno.
La strada è tracciata.
Se i brand devono ottimizzare il ROI e gli editori massimizzare il rendimento, allora l’addressability deve essere generata e gestita in maniera solida per garantire l’integrità dei dati su cui sono pianificate le campagne.
Le complessità dell’Addressability
Prima di Internet, le aziende semplicemente creavano mailing list e raggiungevano le persone tramite messaggi di Direct Email Marketing. Sapevano dove stava andando il messaggio e a chi veniva recapitato.
Oggi che pubblicità e advertising si sono spostati online, l’addressability è diventata più complessa: le aziende ricercano soluzioni di tracciamento diverse, spesso integrate tra più canali – i cookie di terze parti sono l’esempio più eclatante – per tracciare i clienti su siti web, blog, forum e altre piattaforme.
Sebbene questo abbia permesso loro di scalare meglio le loro inserzioni, è stata generata una mole impressionante di dati poco strutturati e un pubblico in gran parte anonimo, difficile da poter approcciare su altri canali.
Con la scomparsa dei cookie di terze parti, le aziende sono costrette a ripensare l’addressability e a nuovi modi di identificare il proprio pubblico.
Ma c’è una buona notizia: ora marketer e aziende possono riprendere il controllo dei propri dati e comprendere meglio i propri clienti. Hanno solo bisogno delle giuste soluzioni per affrontare questo grande cambiamento.
L’idea di raggiungere il consumatore sbagliato con un messaggio che non fa per lui è l’incubo di qualsiasi marketer coscienzioso.
Quando un editore e un marketer uniscono le forze, sono in grado di dar vita ad un efficace sistema di addressability e abbinare inequivocabilmente un consumatore specifico a una proposta commerciale altamente convincente.
In poche parole, se un consumatore utilizza il proprio indirizzo email per accedere al sito Web di un retailer e lo utilizza anche per accedere ai contenuti premium di un editore, quell’indirizzo e-mail verifica l’identità univoca dell’utente, confermando che è la stessa persona a navigare su entrambe le piattaforme.
Ma i dati proprietari abbinati possono essere un concetto che trascende gli accordi del singolo inserzionista-editore.
Oggi c’è una crescente disponibilità ad accedere a fasce di dati altamente scalabili tramite collaborazioni tra publisher. Si tratta di piattaforme che agiscono sui propri dati e danno agli inserzionisti l’accesso a vasti pool di dati proprietari.
Questo approccio unificato non solo arricchisce le fonti di dati, ma consente anche all’industria editoriale (e pubblicitaria) di bypassare l’oligopolio eretto dai giganti del Tech nei propri walled garden virtuali.
In pratica, è come presentarsi a un party prima di Google, Facebook e Amazon.
Le soluzioni di Addressability già disponibili
Come detto, Google ha dato alle aziende un preavviso di due anni prima di rimuovere i cookie di terze parti dal suo browser Chrome, mentre Safari e Firefox avevano già disabilitato i cookie di terze parti sui propri browser.
Ora, molte piattaforme sono al lavoro per sviluppare soluzioni di addressability. Quando i cookie di terze parti non esisteranno più, marketer e inserzionisti non rimarranno persi nel vasto oceano dell’online advertising senza una scialuppa di salvataggio.
Grazie allaCommerce Media Platform, Criteo offre una tecnologia che combina dati e intelligence per guidare i consumatori lungo il percorso di acquisto e supportare i marketer a ottenere migliori risultati di business.
Un’offerta imponente che colloca Criteo in una posizione privilegiata all’interno del panorama “addressable”, dove un First-Party Media Network ospita più di 25.000 brand, retailer e editori da tutto il mondo.
Uno strumento efficace per attivare il più grande insieme globale di dati commerce.
Il futuro dell’adv è Wide Open
La pubblicità contestuale è tornata in auge come principale metodo per raggiungere risultati di business significativi senza i compianti third-party cookie. Annunci rilevanti, focalizzati su un contenuto “cucinato” appositamente per la persona specifica che lo consumerà.
La personalizzazione degli annunci si basa sui segnali contestuali di una pagina Web e sarà sempre più la normalità tra gli inserzionisti, i quali potranno utilizzare anche i segnali del commerce dei loro dati first-party.
La pubblicità contestuale offre soluzioni per raggiungere specifiche audience con un occhio di riguardo alla privacy dei dati e la possibilità di affiancarla a nuove tecnologie come machine learning e intelligenza artificiale, rendono lo strumento ancora più potente.
Sovrapposizione di audience inferiore all’1% e fino al 90% di traffico che reindirizza ai siti web affiliati con campagne contestuali. Il tutto mantenendo i KPI in linea con le altre campagne mid-funnelche l’azienda ha in attivo.
Per quanto riguarda la pubblicità fondata su risultati tracciabili, l’addressability è la via Wide Open nel futuro dell’adv.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2021/11/Addressability-Era-2.jpg10801920Ninja Partnerhttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngNinja Partner2021-11-08 11:50:572021-11-08 11:51:04Perché l’Addressability è il futuro dell’Advertising Online
Ogni azienda conosce perfettamente se stessa e cosa offre. Parla dei suoi prodotti e servizi, li mostra, ne conosce pregi e difetti. Purtroppo, però, spesso ha un punto di vista incentrato su di sé e non sempre è consapevole di come il proprio brand viene percepito dai consumatori.
Seth Godin ha definito il brand come un insieme di “aspettative, ricordi, storie e relazioni” che guidano la decisione di scegliere una particolare azienda, prodotto o servizio. Quindi è chiaro che la percezione è alla base della scelta di acquistare un brand rispetto a un altro.
Indipendentemente da cosa un’azienda comunica, quello che le persone pensano e dicono su quel brand, sarà la reale percezione.
YouGov permette proprio di capire cosa i consumatori pensano e di misurare in modo affidabile e continuativo la percezione di migliaia di brand, grazie alle milioni di interviste online che vengono effettuate annualmente su panel proprietario.
Cosa si aspettano le persone da un brand? YouGov è una finestra sul mondo
YouGov è una società internazionale attiva nel campo delle ricerche di mercato e analisi dati con sede anche in Italia. La mission dell’azienda è quella di creare una community online globale, in cui persone e organizzazioni commerciali e culturali condividano informazioni su quello in cui credono, sui loro comportamenti e sull’opinione che hanno delle aziende.
Grazie all’esperienza nella ricerca unita a questa mole di dati raccolta in tutto il mondo, YouGov è in grado di sviluppare e offrire tecnologie e metodologie che consentano un processo decisionale più collaborativo. Quali sono quindi i servizi messi a disposizione per le aziende che vogliono conoscere come vengono percepite dai consumatori?
Cosa offre YouGov alle aziende
Le soluzioni YouGov coprono 2 grandi aree:
La percezione dei brand: BrandIndex
La descrizione dei target d’interesse: Profiles
Cosa pensano le persone del mio brand? Questa è la domanda che ogni azienda si pone. Il servizio BrandIndex risponde a questo quesito misurando la percezione di un marchio e valutando migliaia di brand in decine di settori diversi.
Il servizio è attivo a livello nazionale e internazionale, tutti i dati vengono aggiornati settimanalmente e permettono di avere una visione locale e globale di come evolve la percezione del proprio brand e dei competitors
Conoscere in modo approfondito i target d’interesse: YouGov Profiles
Profiles rende semplice e veloce quantificare e analizzare un target interessante per un’azienda grazie a una granularità delle informazioni senza pari, aiutando a descrivere e scoprire ciò che non si conosce del proprio target.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2021/11/Yougov.jpg10801920Mariagrazia Repolahttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngMariagrazia Repola2021-11-05 16:52:222021-11-05 16:52:22Come conoscere quello che i clienti pensano di un brand
Qual è, se c’è, quell’ingrediente segreto in grado di rendere efficace una campagna marketing?
Uno tra tutti: le persone. Le persone sono uno degli elementi più importanti da tenere in considerazione nella pianificazione di una strategia di marketing, in particolar modo a causa delle conseguenze dell’emergenza sanitaria, che ci ha imposto cambiamenti enormi.
Tra questi mutamenti, anche le strategie di comunicazione e vendita delle aziende hanno subito trasformazioni.
Quante attività locali abbiamo visto fallire? E quante di quelle sopravvissute stanno affrontando enormi sfide, tra cui la necessità di digitalizzarsi il prima possibile?
Brand e Influencer: perché il binomio funziona
In questo periodo in cui tutti siamo stati costretti a rimanere in casa con negozi e attività chiuse, comunicazione e vendita si sono ancora di più spostate sul digitale, spesso facendo ricorso a strategie che includevano la collaborazione con gli Influencer.
È stato un periodo in cui le persone erano alla ricerca di ispirazione, un modo per capire come andare incontro a questa nuova e surreale situazione.
Le ricerche si sono focalizzate sulla cura di sé, l’apprendimento di nuove ricette e video fai-da-te.
Tutto ciò ha creato una forte opportunità per Influencer e marchi per interagire in modo nuovo con il loro pubblico attraverso messaggi più impattanti.
Molti brand hanno quindi deciso quindi di riallineare le loro strategie includendo anche l’Influencer Marketing.
Infatti, l’anno scorso abbiamo assistito a un aumento di contenuti come video brevi e Reels da parte delle aziende per promuovere i propri servizi e prodotti: una funzionalità in grado di generare più interazione da parte del pubblico e percepita come più autentica.
Questa tendenza si confermerà anche il prossimo anno, con l’inclusione dei Nano Influencer nelle strategie.
Chi sono i Nano Influencer?
I Nano Influencer sono creatori di contenuti con un profilo social fino a 10.000 follower.
Molti di noi hanno dei potenziali Nano Influencer fra i contatti: sono quelle persone che accumulano tanti ‘like’ e commenti ai propri post e producendo contenuti interessanti e originali. Ognuno di noi può essere un Nano Influencer!
A differenza delle loro “controparti” più famose, cioè influencer di livello medio, macro o Star che esercitano un appeal ampio, generale o mainstream, questa tipologia di influencer parla a gruppi molto specifici,spesso categorie o sotto categorie di nicchia.
Perché le aziende dovrebbero rivolgersi ai Nano Influencer
La crescita esponenziale dell’influencer marketing negli ultimi 2 anni è dovuta principalmente a due motivi:
l’enorme crescita del numero di influencer sui social media;
l’incremento degli investimenti nell’influencer marketing da parte dei brand.
Alcune aziende tendono però ancora a sottovalutare il fenomeno.
Perché invece un brand dovrebbe includere nella propria strategia marketing questi Influencer?
Ecco 5 motivi per collaborare con i Nano Influencer.
Aumento dei tassi di coinvolgimento
I Nano Influencer condividono un rapporto costante e diretto con i propri follower. Ciò garantisce un più alto tasso di coinvolgimento.
Inoltre, poiché il loro numero di follower è contenuto, possono mantenere un filo diretto e continuo rispondendo in direct o ai commenti, creando così una relazione autentica e di fiducia.
Il valore dell’autenticità
Questi influencer vengono visti come persone comuni e non come “i classici influencer”, più popolari e conosciuti praticamente da chiunque.
La loro principale fonte di reddito non proviene quindi dall’influencer marketing e così tendiamo ad ascoltarli e affidarci a loro perché sono più avvicinabili e riconoscibili.
Passaparola positivo
Un Nano Influencer ha un rapporto personale e diretto con molti dei suoi follower. Significa che la loro promozione e il loro impegno può fungere da raccomandazione per il passaparola, per quel prodotto o brand.
Il passaparola ha un grande peso nel dettare le decisioni di acquisto dei consumatori e può aiutare a guidare le conversioni per i marchi.
È più semplice lavorare con loro
In generale, i Nano Influencer sono più flessibili rispetto ai termini e alle condizioni dei brand con cui stanno collaborando.
Le aziende avrebbero meno complicazioni a lavorare con loro rispetto a influencer di maggior successo. Inoltre, si avvicinano in modo proattivo ai marchi per ottenere accordi di sponsorizzazione.
Sono meno costosi e più motivati
Un Nano Influencer non è un influencer professionista, ma utilizza i social media come un lavoro secondario o un modo per mostrare a tutti la propria passione.
Pertanto, sarà disposto a creare contenuti di marca in cambio di un prodotto o di una tariffa nominale.
Come lavorare con i Nano Influencer
Ci sono tantissimi possibili Nano Influencer “nascosti” sui social media che non vedono l’ora di collaborare con il proprio brand preferito.
Trovarli non sarà semplicissimo, ma hashtag specifici possono aiutare nella ricerca.
Un modo sicuro e professionale per trovare la persona che fa per la nostra azienda è quello rivolgersi ad agenzie d’influencer marketing.
La sua mission è quella di (ri)mettere le persone al centro del marketing, offrendo collaborazioni rilevanti con brand-influencer, tra cui proprio i Nano Influencer.
Una realtà che ha sempre creduto in queste figure, anche prima che si chiamassero così.
A tal proposito ha realizzato un evento focalizzato proprio sull’argomento: #M2M – Marketers to Marketers, un nuovo formato di webinar di 30 minuti che si terrà il 9 novembre alle 17.
Un appuntamento imperdibile creato per i marketer che vogliono scoprire l’influencer marketing o approfondirlo il più possibile. L’evento avrà come protagonisti i Nano Influencer della campagna di Haier.
Durante il webinar verrà esaminata la campagna di successo di Care+Protect dell’azienda Haier, condotta con 750 Nano Influencer e 6 Macro Influencer.
Alla diretta parteciperanno Eleonora Fiducia (TERRITORY Influence), Grazia Palmerini ed Emilia Calvello dell’azienda Haier e la micro influencer e food blogger Monica Pannacci @lericettedelcuore.
Gli argomenti su cui si svilupperà il dialogo sono:
consigli pratici per la gestione di una campagna con influencer;
risultati concreti e benchmarks;
insights sulla scelta e partecipazione di Nano e Micro influencer.
I Nano Influencer fanno tendenza?
Ogni brand dovrebbe iniziare a considerare nella propria campagna marketing una collaborazione con i Nano Influencer. Non solo perché sarà una delle tendenze del prossimo anno, ma perché possono davvero mostrare sfaccettature diverse di un prodotto o servizio veicolate da un punto di vista del tutto nuovo e non mainstream.
La maggior parte degli utenti di Instagram è fatta da Millennial e Gen Z: nativi digitali desensibilizzati ai contenuti promozionali sui social media.
E i Nano Influencer possono essere gli interlocutori perfetti per conversare con questo pubblico.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2021/11/PSD-Template-3-min.jpg10801920Ninja Partnerhttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngNinja Partner2021-11-04 14:44:102021-11-04 17:00:26Perché una strategia marketing ha bisogno dei Nano Influencer
I miti sulle criptovalute si rincorrono, i media mainstream fanno a gara per parlare di questo mondo e ogni notizia sembra essere sempre quella definitiva, o almeno la più clamorosa.
Lo sanno bene i possessori di Bitcoin, da anni impegnati nella ginnastica del “trattenere” la riserva di valore nei propri wallet o negli exchange.
L’esercizio, che mette a dura prova i nervi, in gergo si chiama HODL, un acronimo nato come refuso (la parola originaria era ovviamente “hold”, trattenere), che oggi sta per “hold on for dear life”: in parole povere, non vendere neanche di fronte all’apocalisse, perché il domani sarà sicuramente meglio.
L’ottimismo della volontà dei bitcoiners si scontra con i tentativi di imitazione, le crypto-truffe e le tante AltCoin (alternative coin) presenti in circolazione. Mir le chiama “ShitCoin”, ma fa una premessa: «La storia di World Coin è più complessa».
Mi metto comodo e ascolto i suoi audio su Telegram. Mir Liponi, Bitcoin Evangelist, insegnante di canto e teorica della multipotenzialità è stata annoverata tra le prime 25 donne al mondo più influenti in tema Blockchain e tra le top 10 secondo Hive.com su Bitcoin.
Mir Liponi
Cos’è WorldCoin
WorldCoin, nato dall’idea di Sam Altman, imprenditore della Silicon Valley, è un network di criptovalute che promette di consegnare valuta gratuita alle persone che consentiranno una scansione dell’iride, attraverso un oggetto a forma di bulbo oculare chiamato The Orb, già distribuito in 12 paesi.
Per ora hanno aderito 130 mila persone ma l’obiettivo è molto più ambizioso: 1 miliardo di utenti entro il 2023. Il team di sviluppo sta preparando un wallet che consentirà le transazioni e indicherà gli Orb più vicini, quasi come degli ATM oculari.
Mir ha le idee chiare: «Leggendo di WorldCoin potremmo pensare di trovarci davanti al solito scam di chi, perso il treno di Bitcoin, inventa la propria crypto per rifarsi dei guadagni. In realtà, questa case history è un po’ differente».
Sono stupito. Il progetto ti convince?
«No, è solo molto più inquietante, ti spiego: in WorldCoin si aggiunge, all’idea della cryptovaluta, anche la retorica ideologica del reddito universale. Una sirena che non è indirizzata a Cina e USA, ma soprattutto ai paesi del Terzo Mondo. In realtà, leggendo bene, si tratta di sistema centralizzato gestito da un nucleo di pochi, che fa appello alla distribuzione fair del reddito, che però… viene riservata agli investitori e ai paesi beneficiari. Il sogno del reddito universale e un controllo dei dati biometrici usati come chiave privata. Ecco, questa è la cosa più inquietante di tutte: una sorta di incubo Panopticon. Fun fact: WorldCoin era già una AltCoin nel 2013… come altre valute stanno ricominciando il giro, riutilizzando nomi vecchi».
Il problema della scansione dell’iride
La scansione dell’iride che prende il posto della password, ha senso?
«No, non ha senso. Un sistema di sicurezza si deve basare su una chiave privata che solo l’utente conosce e deve proteggere – letteralmente – dagli sguardi altrui. L’iride è esposta continuamente al mondo, può essere rilevata ed estrapolata, te la porti in giro con la faccia. Se è vero che Orb può leggere e filmare l’iride allora anche un altro oggetto con pari capacità ottiche potrebbe farlo.
La lettura dell’iride non è immune da rischi di rapine e sequestri. Ma anche l’impronta digitale non è il massimo, si tratta comunque di una “chiave privata” che esponi e lasci in giro: insomma, è una pessima idea».
L’attacco di Snowden
WorldCoin raccoglierebbe i dati biometrici dell’iride tramite un database centrale (hash). La cancellazione delle scansioni sarebbe dunque inutile se i dati poi venissero salvati, come spiega bene in un recente tweet Edward Snowden, mettendo in guardia dal progetto.
This looks like it produces a global (hash) database of people’s iris scans (for “fairness”), and waves away the implications by saying “we deleted the scans!”
Yeah, but you save the *hashes* produced by the scans. Hashes that match *future* scans.
«Come se non bastasse, andando a leggere bene, questo database se lo possono vendere a terze parti», spiega Mir.
Si tratterebbe insomma di una zero-knowledge proof: il tentativo di dimostrare agli altri la veridicità delle proprie teorie senza rivelare nient’altro, a parte appunto la presunta veridicità stessa. Un’idea che ha echi lontani (ma neanche tanto!) in un’altra startup della Silicon Valley, quella Theranos di Elizabeth Holmes, franata in modo clamoroso, il cui ultimo atto è iniziato in queste settimane in tribunale.
Conclude Mir: «La scansione dell’iride è un metodo molto pratico, come il riconoscimento facciale o l’impronta digitale nei nostri smartphone, ma la praticità cozza spesso con la sicurezza».
Criptovalute e la questione Ethereum
WorldCoin dice che utilizzerà lo standard token ERC-20, in pratica Ethereum.
«Esatto, non fanno un token loro ma utilizzeranno il Token ERC-20, lo standard della blockchain di Ethereum. Questa è un’altra red flag: il progetto si porta dietro tutti i problemi e i difetti di Ethereum… un bel minestrone di cose non proprio fantastiche. Inoltre, nel lancio di WorldCoin si registra un 20% di pre-mining riservato al team di sviluppo. Ovvero il 20% dei token verranno dati ai venture capitalist. Ecco un’altra red flag: qualcosa non sta funzionando in maniera così equa come dicono».
Criptovalute, reddito universale e lo schema Ponzi
«Il progetto di Altman è condito da un’idea abusata ma di sicura presa mediatica: il reddito universale. La cosa che fa rabbrividire è che vogliono portare più persone possibile per una “ownership collettiva”: anche se riuscissero a realizzarlo, questo progetto nasconde uno schema Ponzi, un’adozione controllata con la scusa di “abbiamo bisogno di centralizzazione e coordinazione”. La verità è che esiste già un asset che, grazie alla convergenza, agli incentivi e alla preminenza nel mercato si pone come riserva di valore neutra, volontaria, non manipolabile da investitori o stati nazionali: si chiama Bitcoin.
I problemi che solleva WorldCoin sono stati risolti, di fatto, da Bitcoin: si parla sempre di creare un “migliore Bitcoin”, quando in realtà Bitcoin funziona già bene così perché evita scam, centralizzazioni e possibilità di manipolazioni future».
Il futuro di Bitcoin passa (anche per) Walmart?
Mentre si discute delle AltCoin, rimbalza la notizia degli “ATM” Bitcoin a Walmart: 200 apparecchi già installati, altre centinaia in programma. Per Mir è una cosa buona: «Non sono esattamente dei bancomat, come si legge sui giornali; agli utilizzatori verrà rilasciato un voucher che dopo dovranno andare a riprendere tramite l’iscrizione a un exchange. La cosa di cui tenere conto è che non è possibile ritirare Bitcoin ma solo comprarli.
Le fee all’11% sono alte, quando su un exchange online le commissioni sono al 3° 4%. Tuttavia è un buon segnale che aiuterà nell’adozione di Bitcoin, non un driver di crescita».
Ci è passata la voglia di farci scansionare l’iride ma vorremmo delle previsioni sulle criptovalute e sulla crescita di Bitcoin: la bull run di queste settimane continuerà? Lo diamo un consiglio ai lettori di Ninja?
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2021/10/worldcoin-1.png405720David Mazzerellihttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngDavid Mazzerelli2021-11-04 13:30:132021-11-08 10:14:41Scansione degli occhi in cambio di criptovalute: il reddito universale di WorldCoin è scam
Sono molte le novità recenti per TikTok presentate durante il TikTok World e alcune, molto interessanti, riguardano proprio TikTok for Business, una piattaforma globale che ospita tutte le soluzioni di marketing attuali e future per i brand, pensate per offrire gli strumenti necessari a creare storytelling creativi, in grado di ingaggiare la community di TikTok con il proprio messaggio e “a fare un TikTok”.
Quando un brand arriva su TikTok, il suggerimento della piattaforma è sempre di pensare come esperti di marketing, ma agire come creator.
Il 61% degli utilizzatori afferma che su TikTok i video sono unici, più che su qualsiasi altra piattaforma, e 7 su 10 aggiungono che su TikTok gli annunci sono divertenti.
Abbiamo avuto l’opportunità di partecipare a una colazione con TikTok for Business, un’occasione per fare il punto con Adriano Accardo, Managing Director, Global Business Solutions, Southern Europe e il suo team ed esplorare le opportunità di crescita per i brand su TikTok e le ultime novita’ dalla piattaforma.
“Oggi siamo qui per raccontare un anno di storia per TikTok for Business” ci ha detto Adriano, “è stato un anno fantastico e abbiamo visto un’evoluzione profonda di quelli che sono i nostri contenuti e la nostra community. Parliamo sempre di più di Generazione T, composta da diverse generazioni, millennial, baby boomer, ma con un’attitudine unica“.
Una parte importante per la crescita ha riguardato anche la sicurezza, con le nuove community guidelines e gli strumenti creati per gli utenti.
“Tutti i settori merceologici sono oggi sempre più presenti in piattaforma, fashion, luxury, food, retail, tech. Continuiamo ad aiutarli per raggiungere risultati non solo di brand awareness ma sempre di più di performance“, continua Accardo, “abbiamo creato un team qualificato con esperienza nei diversi settori e puntiamo a essere riconosciuti come un’azienda italiana nel mercato italiano e aggiungere valore all’ecosistema economia“.
La Generazione T si preoccupa e condivide. Da nipoti adolescenti a nonni più anziani, la Generazione T non lascia indietro nessuno. Anche se fuori dalla piattaforma uscire con parenti più anziani da adolescente potrebbe essere considerato imbarazzante o strano, su TikTok diventa un momento di orgoglio e legame.
TikTok for Business: la community ama l’intrattenimento e l’autenticità
Durante l’evento, è stata presentata anche una nuova ricerca sull’autenticità della community TikTok. Perché autenticità, creatività e allegria sono così importanti per i brand su TikTok?
Condotta in collaborazione con l’agenzia di cultural strategy Flamingo Group, l’indagine dimostra che l’intrattenimento è al centro dell’esperienza su TikTok e che il suo effetto si riflette sulla percezione del brand da parte degli utenti e sul tipo di inserzioni che ottengono i migliori risultati.
Secondo la ricerca, circa la metà (48%) degli utenti ritiene che TikTok sia allegro, rispetto al 30% di altre piattaforme, mentre il 41% ritiene che ispiri felicità, contro il 30% di altri social. Un’allegria contagiosa, con un impatto reale sugli altri utenti: il 78%, infatti, dichiara di provare sentimenti più positivi dopo aver guardato dei contenuti su TikTok.
E non c’è dubbio che TikTok sia in sintonia con molteplici pubblici.
Oltre un miliardo di persone in tutto il mondo entrano ogni mese nell’app per ridere, divertirsi, imparare, o scoprire qualcosa di nuovo. L’intrattenimento, dunque, è il fattore chiave su TikTok: un’altra ricerca, questa volta di Walnut Unlimited, rivela che il 75% degli utenti entra su TikTok principalmente per questa ragione.
Quando i sentimenti sono positivi, l’approccio all’advertising è migliore
E quando provano sentimenti positivi grazie all’intrattenimento, le persone vedono in modo diverso anche i brand. L’indagine ha riscontrato che il 56% degli utenti migliora la percezione di un brand dopo averne visto un contenuto su TikTok, rispetto al 52% di altre piattaforme.
Questo significa che le marche possono trarre vantaggio anche dal semplice fatto di essere presenti nell’app. In breve, su TikTok le inserzioni sono più performanti.
La ricerca EU CPG MMx di TikTok e Nielsen indica che nella pubblicità a pagamento TikTok presenta un ritorno del 30% superiore alla media del canale digitale.
La ricerca ha anche rilevato che gli utenti associano la pubblicità su TikTok a maggiore autenticità, divertimento, creatività, ispirazione e coinvolgimento rispetto ad altri canali.
Gli spot che possiedono queste caratteristiche possono quindi ottenere un elevato engagement su TikTok. E lo dimostra il fatto che alcune delle inserzioni di maggiore successo sulla piattaforma puntano proprio sull’allegria e l’autenticità.
Il coinvolgimento dei creator
Il coinvolgimento dei creator nelle campagne marketing è fondamentale per veicolare correttamente i messaggi e attivare le community di riferimento. Il TikTok Creator Marketplace offre a brand, agenzie e professionisti del marketing la possibilità di incontrare e mettersi in contatto con i creator più adatti di TikTok per la loro campagna attraverso uno studio approfondito dei dati e un percorso semplice per entrare in collaborazione con loro.
https://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2021/11/tiktok-for-business-copertina.jpg10801920Federica Bulegahttps://www.ninjamarketing.it/wp-content/uploads/2018/06/nm-logo-new.pngFederica Bulega2021-11-03 15:25:572021-11-04 14:31:26Dalla Generazione T agli insight degli utenti: tutti i dati di TikTok che devi assolutamente sapere
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