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Contact Tracing App: dall’Italia al resto d’Europa, funzionano davvero?

  • Le contact tracing app dovevano servire all’Italia e all’Europa per riaprire i confini, anche in vista dell’estate. Ma qual è la situazione?
  • In Italia, l’app funziona da giugno ma il tasso di adozione è più basso di quanto necessario; in Europa le cose non vanno meglio, con una situazione frammentata e l’assenza di un modello di interoperabilità tra Paesi.
  • Harvard Business Review ha identificato alcuni punti su cui concentrarsi per stimolare l’adozione delle app che è in ritardo, come le “app di comunità” e gli incentivi all’utilizzo.

 

Ci siamo: l’estate più strana del secolo è finalmente arrivata.

Ha avuto un enorme punto di domanda fin dall’inverno, quando il virus che ha colpito il mondo ci ha messo tutti “in attesa” a tempo indeterminato. Eppure niente, neppure una pandemia, può fermare il sole, il caldo e la voglia di vacanza.

Alla fine, si sta facendo quasi tutto ciò che si pensava non si sarebbe potuto fare: i confini della maggior parte dei Paesi d’Europa sono aperti, in maniera più o meno chiara. Le persone stanno partendo per le vacanze come ogni anno, anche se su scala più locale. E mentre il Coronavirus continua a mietere vittime (anche se fortunatamente in Europa a livelli molto ridotti), noi torniamo a una parvenza di normalità.

Come? Uno dei metodi che sembrava avrebbero dovuto garantire alla nostra estate un aspetto “normale” era l’utilizzo delle Contact Tracing Apps.

L’Italia, come il resto del mondo, si è lanciata alla velocità della luce nella creazione della sua app di tracciamento, ed è effettivamente riuscita a farla uscire ai primi di giugno in tempi record, attestandosi tra le prime in Europa nell’impresa.

C’è stato un gran frastuono di voci, molte a favore, molte altre critiche dell’App sviluppata da Bending Spoons. Troppi, in realtà, gettavano benzina sul fuoco a sproposito, alimentando preoccupazioni sulla privacy che erano già state più che risolte, come avevamo visto in questo articolo dedicato.

Ma poi, più niente. Molti di noi l’hanno scaricata, e lei se ne è stata silente nei nostri smartphone, ricordandoci della sua esistenza solo quando per qualche motivo disattivavamo il Bluetooth e lei ci avvisava con una notifica che il suo funzionamento era sospeso.

Ci era stato detto che per essere efficace avrebbe dovuto essere scaricata da più di metà della popolazione.

Ci era stato detto che per poter aprire i confini europei, la maggior parte degli Stati avrebbero dovuto dotarsene.

Infine, ci era stato detto, ormai circa un mese fa, che un sistema di “interoperabilità” tra le varie applicazioni disponibili nei vari Paesi europei sarebbe stato la chiave per un’estate quasi normale (il documento dell’Unione Europea con le specifiche per l’interoperabilità è datato 12 giugno 2020).

E ora che ci siamo, qual è la situazione? Quali app dovrebbero scaricare i vacanzieri in partenza per altre località europee? Quali risultati stanno portando nei vari Paesi che le hanno adottate?

LEGGI ANCHE: Perché non è la privacy la giusta preoccupazione sulle contact tracing app

La situazione in Italia: qual è il livello di adozione dell’app Immuni?

immuni italia

La contact tracing app italiana, Immuni, è operativa ormai da circa due mesi.

L’app ha avuto una gestazione travagliata con critiche poco costruttive e problemi ante-litteram. Poi, finalmente, un parto speranzoso con 500mila download nel primo giorno; successivamente, primi giorni di vita costellati di piccoli o grandi ostacoli.

Poi, silenzio.

Quello che sappiamo, è che dopo averla scaricata e attivata, il suo ruolo è proprio quello di… non fare niente. L’app stessa ti ricorda di “aprirla periodicamente per verificare che sia attiva“, il che sicuramente non la fa percepire come una presenza oppressiva, ma dall’altra parte non aiuta a far capire la sua utilità.

Sappiamo che funziona tramite tecnologia Bluetooth Low Energy, riuscendo così a rispettare la privacy perché non registra posizione né altri dati sensibili.

Si è adeguata, così come la maggior parte d’Europa, al sistema predisposto da GoogleApple Decentralised Privacy-Preserving Proximity Tracing (DP-3T), modello decentralizzato più sicuro perché i dati vengono conservati sullo smartphone e non nei server.

Se un utente che ha installato l’app risulta positivo, il sistema invia ai dispositivi con cui è entrato in contatto una notifica di esposizione. Quest’informazione non ha conseguenze, nel senso che non vengono allertate le autorità né date particolari indicazioni al ricevente su cosa debba fare (teoricamente, auto-isolarsi o effettuare un tampone).

LEGGI ANCHE: 500 mila download nel primo giorno per l’app Immuni

E come sta andando l’app Immuni in Italia?

Secondo le dichiarazioni rilasciate a inizio agosto dalla ministra per l’innovazione Paola Pisano, “oggi i cittadini che hanno scaricato Immuni sono 4,6 milioni. Finora ha contenuto due focolai, 63 persone sono risultate positive e, poiché avevano scaricato Immuni, individuandole sono state inviate notifiche a più di 100 persone“.

Questi numeri sono sicuramente positivi, ma sono tremendamente al ribasso rispetto a quanto ci avevano prospettato come minimo indispensabile: si tratta di circa il 12% della popolazione in grado di utilizzarla.

Per essere davvero efficace, servono altri numeri.
Purtroppo molti italiani continuano a non fidarsi, nonostante abbia superato i testi sulla privacy effettuati ad esempio da AltroConsumo.

Complici diverse complicazioni, come la mancata chiarezza sull’iter da seguire in caso di notifica di esposizione, e il dibattio negativo che si è sviluppato intorno all’app, c’è ancora molta strada da fare per arrivare al cuore (o allo smartphone, in questo caso) degli italiani.
E il governo lo sa, infatti assicura di star mettendo in campo ulteriori misure comunicative e non per spingere l’adozione massiccia.

Insomma, in Italia bene ma non benissimo. E nel resto d’Europa?

LEGGI ANCHE: L’app Immuni si può scaricare (ma è già allarme ransomware)

Contact Tracing app in Europa: quali soluzioni nell’Unione e cosa funziona?

europa covid

Quasi tutta l’Europa si è attivata nella direzione delle contact tracing app come supporto per contenere la diffusione del Coronavirus, ma le modalità e i risultati sono stati estremamente frammentati e diversi.

Alla base c’è proprio un problema di “unione“: ovviamente ciascun Paese si è lanciato nella corsa agli armamenti digitale in autonomia.

Per fortuna molti hanno adottato il sistema di Google e Apple, rendendo la tecnologia sottostante quantomeno simile, ma per il resto ogni Stato ha fatto da sé, creando un sistema frammentato che non è in grado di dialogare a livello europeo.

Secondo i dati riportati da Reuters, nell’UE, Austria, Croazia, Danimarca, Germania, Italia, Irlanda, Lettonia e Polonia hanno lanciato applicazioni che utilizzano lo standard Google-Apple. Altri nove Paesi dell’UE hanno in programma app basate sullo stesso sistema (UK ha deciso di recente di concentrarsi su questo, mentre prima doveva sposare il modello decentralizzato). Al di fuori dell’Unione, applicazioni simili sono ora attive in Svizzera, Irlanda del Nord e Gibilterra.

Francia e Ungheria hanno lanciato un diverso tipo di app che memorizza le informazioni su un server centrale. La conseguente spaccatura degli standard significa che sarà difficile far funzionare tutte le app in tutta Europa senza soluzione di continuità.

Come funzionano le contact tracing app in Europa?

contact tracing app germania

I funzionamenti variano. L’applicazione tedesca Corona Warn è stata scaricata più di 16 milioni di volte (su una popolazione di 83 milioni) e consiglia agli utenti di rivolgersi a un medico; gli svizzeri condividono un numero verde da chiamare; mentre in Irlanda gli utenti possono scegliere di condividere il proprio numero di telefono ed essere richiamati da un operatore.

Ma funzionano? Bella domanda. Il compromesso del Bluetooth tra utilità e privacy è il nodo centrale, perché non rende possibile ad esempio individuare l’ora e il luogo esatti degli eventi a rischio.

Le app più orientate alla privacy (tra cui Immuni) rendono impossibile per i loro amministratori monitorare il numero di notifiche di esposizione che passano attraverso il sistema – rendendo difficile misurare se le app svolgono il lavoro a cui sono destinate.

In realtà, il framework di Google-Apple potrebbe consentire il monitoraggio delle notifiche di esposizione. Questo è ad esempio stato abilitato nell’app irlandese, che ha anche degli add-on come un “tracciatore di sintomi”, dove gli utenti possono condividere volontariamente informazioni su come si sentono, aiutando le autorità sanitarie a mappare la pandemia. Forse anche per questo l’app è stata scaricata dal 30% della popolazione.

contact tracing app

Un’unica app di contact tracing per tutta l’Europa? Non quest’estate

L’UE, come dicevamo, si è mossa per spingere nella direzione dell’interoperabilità in vista dell’estate e dei flussi di persone in movimento da un Paese dall’altro. Ma, a parte l’evidente ritardo del farlo a metà giugno, riuscirci “a posteriori” è sicuramente più complesso. Il risultato è che non esiste al momento in Europa un reale interscambio di dati tra le app di tracciamento per il Covid-19.

Se un viaggiatore intra-europeo vuole essere allertato di possibili esposizioni al di fuori del territorio nazionale, dovrà scaricare l’app di quello specifico Paese (con ovvie difficoltà, a partire dalla lingua).

E in autunno? Le speranze sono buone perché nei prossimi mesi questo passaggio fondamentale venga fatto, ma il problema non sarà comunque risolto: se l’Italia e l’intera Europa in generale non riusciranno a spingere un utilizzo dell’app più ampio di quanto non è successo finora, la loro utilità rimarrà comunque limitata (anzi, c’è chi sostiene che possano essere controproducenti perché rischiano di creare un falso senso di sicurezza).

contact tracing app europa

Come far utilizzare di più le contact tracing app?

Posto che il problema base della privacy venga neutralizzato (come ad esempio con Immuni è successo), perché le persone non scaricano e utilizzano le app di tracciamento? Perché tutta questa difficoltà nell’adozione di un sistema che ha un bassissimo impatto sul singolo, ma potenzialmente un grande impatto sulla comunità?

In primis, c’è il paradosso della privacy: più alta è la percezione che la privacy dell’utente è protetta, più persone adotteranno un’app di contact-tracing; ma una maggiore protezione della privacy pone dei limiti all’efficacia dello strumento nel tracciare la diffusione del virus, rallentando così la diffusione dell’app.

Poi ci sono i “negazionisti” che non credono alla pericolosità del virus e alla necessità di contenerlo. E i cosiddetti “astenuti“, che nel dubbio (pur assolutamente aleatorio) che possa danneggiarli preferiscono purtroppo non fare niente. Infine c’è chi non ha capito come funziona, chi ha paura di ricevere una notifica e non sapere cosa fare dopo, e così via.

Ma tutti gli altri? Qual è il problema?

Harvard Business Review ha pubblicato un articolo molto interessante a riguardo.

Secondo l’analisi, quando l’adozione è volontaria, le app per la ricerca di contatti presentano il classico problema dell’uovo e della gallina – o “partenza a freddo” – sperimentato da qualsiasi piattaforma alla ricerca di forti effetti di rete: non hanno praticamente alcun valore finché non raggiungono una massa critica di utenti.

Lo stesso vale per le app di tracciamento Covid-19. Invece di lanciarle in modo ampio e indiscriminato, dovremmo dispiegarle in comunità altamente focalizzate, contenute, affini, dove sarebbero immediatamente utili: famiglie, comunità religiose, luoghi di lavoro, scuole, bar e ristoranti, spiagge, hotel, treni, aerei, ecc.

App di comunità e incentivi

Un esempio di “app di tracciamento di comunità” è quello di UBI Banca: i suoi dipendenti utilizzano UBISafe, la sua applicazione per la ricerca di contatti, a partire dal 1° luglio e al loro rientro in ufficio. L’applicazione è stata installata automaticamente sugli smartphone aziendali, e gli altri saranno stimolati a utilizzarla. Questo può permettere all’app di raggiungere una penetrazione molto elevata, rendendola più efficace.

Altri modi per rendere un’app di tracciamento istantaneamente preziosa sono quello di fornire informazioni sul livello di contagio locale, in modo che gli utenti conoscano i rischi, e quello di includere una funzione di tracciamento dei sintomi in modo che gli utenti possano inserire i loro e ricevere informazioni su quando cercare aiuto medico (come succede in Irlanda).

Infine, sarebbe più probabile che le persone adottassero l’app se ci fossero aspettative concrete di essere così testate più rapidamente e senza costi aggiuntivi nel caso in cui ricevano la notifica di essere stati esposti al virus.

Certamente c’è ancora molto da fare: sia da parte dei cittadini, che non dovrebbero giocare all’assenteismo, ma informarsi e decidere su basi logiche di scaricare o meno l’app; sia da parte dei governi e dei produttori di queste app, che dovrebbero impegnarsi per renderle più utili per il pubblico, anche a livello europeo.

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L’evoluzione dell’azienda è già cominciata (e non ce ne siamo accorti)

  • La pandemia ha cambiato tutto: anche il modo di concepire il rapporto fra aziende e consumatori.
  • Quando parliamo di Purpose, parliamo di qualcosa di tangibile e sempre più determinante. Influenzerà il futuro del concetto stesso di “company”?
  • Le aziende, è ormai assodato, sono in tutto e per tutto delle piattaforme: cosa c’è dopo?

 

Preparing for the new reality. KPMG non poteva scegliere titolo più evocativo per presentare in un report uscito lo scorso giugno sui trend globali relativi al mondo retail, ovviamente frutto di un primo semestre dell’anno che ci ha portato a cambiare radicalmente il nostro percepito del mondo.

La società di consulenza svizzera isola quattro macrotrend che saranno al centro delle strategie di chi si occupa di retail:

  • l’implementazione dell’eCommerce come direzione strategica obbligatoria, in un mercato che ha dovuto confrontarsi con l’impossibilità a spostarsi;
  • la conferma del Purpose come driver indispensabile alla relazione con il consumatore;
  • il concetto di Profittabilità del business, che deve essere riconsiderato partendo dal presupposto che la riduzione dei costi non è l’unica soluzione per il mantenimento dei margini di guadagno;
  • la conoscenza dei consumatori, che dev’essere sempre più approfondita, garantendo la reperibilità della merce più che un vasto assortimento.

Distribuzione, valori, marginalità e modelli, offerta commerciale: era evidente che il COVID avrebbe impattato sul concetto alla base dell’idea di negozio, di distribuzione, anche di esperienza di consumo. Ma come questi fattori si intersecano fra loro, e perché, forse esula anche dalla pandemia stessa, aprendo a ragionamenti che sono più legati al mondo che il COVID-19 ha mostrato.

Prendiamo un altro aspetto: il modo di lavorare.

Per molte aziende il lockdown è stata l’occasione per sperimentare il lavoro da remoto: secondo Eurofound, il lockdown ha costretto al remote working il 40% circa dei cittadini europei. Un primo passo per aprirsi al mondo del lavoro agile, che è diventato anche nei mesi che hanno seguito il periodo di quarantena un tema di discussione non più rinviabile.

Allo stesso modo, sempre KPMG già a marzo parlava di un nuovo rapporto con il risk management, indicando come necessario per i CEO cominciare a concepire nelle proprie strategie di contrasto alle crisi anche gli scenari geopolitici e sanitari, facendo proprio un approccio data driven che sia sempre più a “trazione predittiva”.

Se con il virus riusciremo ad un certo punto a fare pace, grazie si spera ad una cura, con i suoi effetti dovremo far conto per anni, a tutti i livelli. Nelle aziende, ancor di più.

Da piattaforme a comunità

Diciamolo pure: per molti il lockdown è stata una specie di epifania.

Così come i dipendenti hanno capito -molti, almeno- che il loro lavoro poteva diventare veramente agile, in una nuova modalità che comprendesse flessibilità negli orari e nuovi KPI per la misurazione della propria attività, così i consumatori hanno cominciato a rivedere le proprie abitudini, privilegiando un approccio spurio al consumo, dove i grandi marketplace digitali venivano affiancati dal piacere di tornare fisicamente ad acquistare beni e servizi.

Torniamo per un attimo al Purpose, di cui si è fatto un gran parlare negli ultimi mesi ma che già da diversi anni sta spingendo sempre più le aziende a interrogarsi sul quale sia la strada migliore per interpretare il proprio set valoriale.

Da un punto di vista strettamente narrativo, non può esistere un Purpose senza che ci sia una reale concretizzazione dello stesso sotto forma di esperienze, che devono essere tangibili e coinvolgenti per tutti gli stakeholder aziendali.

Che forma avranno le esperienze?

Il COVID-19 ha aiutato a ricalibrare le priorità, e conseguentemente le necessità e le aspettative dei consumatori. Secondo lo Spring Update del report 2020 Edelman Trust Barometer, ad esempio, si indica come il 64% degli intervistati indichino necessario un riequilibrio delle risorse fra componente “ricca” della società e la working class, mentre il 67% indica come sempre più importanti valori come la salute e l’istruzione.

Riferimenti che c’erano anche prima della pandemia, ma che semplicemente sembravano meno prioritari nelle agende delle persone. Stesso discorso per il Global Warming e i cambiamenti climatici, che stanno rapidamente salendo nella classifica poco edificante delle urgenze da risolvere: secondo la Banca dei regolamenti internazionali, saranno proprio loro a scatenare la prossima crisi finanziaria.

Ecco che allora le esperienze serviranno a rendere concreti propositi che necessariamente dovranno essere sempre più tangibili, condivisi e soprattutto distribuiti.

In altre parole, le aziende dovranno passare dal proporre visioni ideali e talvolta utopistiche a progettazioni reali che ne giustifichino l’esistenza anche da un punto di vista sociale, oltre che economico: le esperienze che proporranno saranno quindi il volano per il realizzo di essi.

Per questa ragione, da un sistema più legato alle logiche di piattaforma, stiamo vedendo evolvere il concetto di azienda verso una logica di community, in cui tutti gli stakeholders diventano parte integrante di un ecosistema dove a far da padrone è la co-creazione di senso, e in cui si lavora per un benessere diffuso e distribuito.

Un principio di narrazione transmediale in cui l’obiettivo è edificare un universo di marca incentrato sul Purpose, e dove le dimensioni spaziali e temporali che lo compongono siano condivise non solo da chi dell’azienda fa parte, ma anche da chi attraverso le proprie aziende le permette di esistere: i consumatori, prima di tutto.

Forse l’evoluzione che stiamo osservando non è così remota o inattesa: era evidente da tempo che i ritmi di crescita che l’umanità ha osservato nell’ultima metà del ‘900 siano insostenibili alla luce dei paradigmi di produzione e consumo che li hanno permessi.

Quello che è forse inatteso, ed è probabilmente uno dei pochissimi effetti positivi che la pandemia ha avuto, è stato capire che un altro futuro è possibile, dove le aziende lavorano strenuamente per generare profitto e, al contempo, benessere reale e duraturo per chi le sceglie -e non solo- nel tentativo di lasciare qualcosa di più che un semplice ricordo di marca. Dove il consumo può essere veramente sostenibile, e anche dove il lavoro deve andare in una direzione più “umana” e meno “meccanica”.

Probabilmente è una fase di transizione quella che stiamo vivendo, e non sappiamo dire quanto sarà effettivamente lunga e complessa: quello che però sembra chiaro è che all’orizzonte qualcosa è cambiato, e le aziende sono al centro di questo cambiamento.

Chi se ne renderà conto otterrà un vantaggio competitivo non secondario: perché è vero che si deve lavorare per un Purpose, ma è pur vero che questo si può e deve realizzare (anche) con un profitto.

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Voglia di libertà e digitale: così questa estate non si rinuncia a viaggiare

  • Il digital è la parola chiave per l’industria del turismo: dopo il lockdown si ha voglia di libertà.
  • Un’estate 2020 alla ricerca di luoghi inesplorati e poco affollati!

 

Sicurezza. Questa è la parola chiave che le persone hanno scelto per le vacanze estive 2020, in un momento davvero particolare e inatteso, che ha ci ha costretto a rivedere abitudini e piani. Ma dopo i lunghi periodi di lockdown a livello globale c’è un sentimento che emerge con altrettanta forza: la voglia di libertà, che da sempre per l’uomo significa viaggiare.

Se per lo shopping le abitudini dei consumatori si sono dirottate sugli acquisti di prossimità nei piccoli negozi e sull’eCommerce, il digitale ci ha permesso anche di conoscere un nuovo modo di lavorare e avere relazioni sociali.

Ma con il periodo estivo alle porte anche per l’industria del turismo, il digital è diventato un tema chiave.

Messo da parte il viaggio come lo abbiamo conosciuto finora, si è tornati a parlare di turismo di prossimità: il turista torna a riscoprire il suo Paese e a ripartire dalle origini per esplorare il mondo.

Eppure questo non è l’unico modello scelto dai viaggiatori in questa estate 2020.

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Viaggiare digitale in sicurezza

Come dicevamo, la parola chiave è diventata sicurezza e nessun luogo oggi sembra esserci sicuro come casa. Ecco allora che c’è chi sceglie di partire “portandosi la casa dietro”.

Viaggiare in camper si delinea come la soluzione più sicura per le prossime vacanze estive: distanziamento sociale garantito e libertà di movimento assicurata, sono dati dalla possibilità di viaggiare e di sostare al di fuori dei circuiti turistici standard. In questo scenario d’eccezione dove l’attenzione alle regole sanitarie e sociali è di primaria importanza, i camper rappresentano una delle alternative di viaggio più interessanti.

Viaggiare digitale in camper

A confermarlo sono i dati registrati nel mese di giugno dalla piattaforma europea per la condivisione di camper tra privati Yescapa.

Dalla fine del lockdown la piattaforma, arrivata in Italia da due anni, ha quadruplicato il traffico degli utenti sul sito che, a partire dal 3 giugno, ha registrato un aumento del 150% di visite (circa 50mila visite a settimana), rispetto allo stesso periodo nel 2019, con richieste di iscrizione e di prenotazioni confermate sia da veterani del viaggio in camper, sia da chi ha scelto di provare l’esperienza “on the road” per la prima volta.

Record storici sono stati registrati nelle prime due settimane di giugno: se in Europa le prenotazioni confermate sono salite a 6.000 (+200% rispetto allo stesso periodo del 2019), in Italia le conferme hanno raggiunto un aumento del 120%, rispetto allo stesso periodo nell’anno precedente, con oltre 2.000 richieste nel mese di giugno.

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I neofiti del camper

Aumentano anche le iscrizioni di nuovi utenti che al momento della prenotazione si dichiarano alla loro prima esperienza in camper: giugno 2020 vede un incremento del 45% dei neofiti del viaggio itinerante, indicatore inequivocabile di come questa estate il turismo di movimento sarà la scelta per coloro che vorranno e potranno viaggiare entro i confini nazionali.

Grande incremento si registra anche sul versante dei nuovi veicoli iscritti al sito (+150%). Tra le motivazioni incentivanti si ritrovano sia la possibilità di ammortizzare le spese di manutenzione annuale del mezzo e ottenere una fonte di reddito complementare (oltre 200mila euro sono stati già versati ai proprietari italiani nel post-lockdown), sia la nuova copertura assicurativa che supera la limitazione dei 25 anni di età per i veicoli fino ad ora presenti sulla piattaforma.

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Destinazione Italia

È l’Italia e il turismo locale la scelta per il 99% dei prenotati sulla piattaforma di camper sharing: se nel 2019 il 46% del turismo in Italia era composto da stranieri che sceglievano lo Stivale come meta di vacanza, quest’anno il trend è determinato soprattutto da italiani che scelgono di restare entro i confini nazionali per sostenere l’economia locale ma anche per scoprire le bellezze del proprio territorio.

Milano, Torino, Roma e Napoli sono le città con il maggior numero di ricerche di veicoli che partiranno per il Sud Italia, le Isole (Sardegna e Sicilia) e le Dolomiti: queste le destinazioni maggiormente ricercate dagli utenti della piattaforma.

Il ritrovato turismo domestico di questa stagione estiva tenderà a viaggiare con più frequenza tra luglio e la fine di settembre, prediligendo weekend lunghi – da giovedì a lunedì – a discapito delle due settimane di solito considerate.

“Quest’estate sarà caratterizzata da una forte concentrazione di turismo domestico e il viaggio in camper, da sempre sinonimo di evasione e ricerca di libertà verso destinazioni poco affollate a contatto con la natura, risponde perfettamente a questa tendenza”, commenta Dario Femiani, country manager Italia di Yescapa.

Si parla oggi di undertourism, cioè quella modalità di viaggio contrapposta all’overturism, per cui i viaggiatori andranno a cercare posti inesplorati, poco affollati, “nuovi”. Una bella opportunità per quei comuni che ospitano borghi storici poco valorizzati o per spazi nella natura in cui organizzare attività di esplorazione.

Insomma un viaggio più consapevole per un viaggiatore più attento, perché in fondo: “Basta seguire la strada e prima o poi si fa il giro del mondo. Non può finire in nessun altro posto, no?”.

Marco Mantovan Ninja Marketing Twitter

10+1 volte che Elon Musk ha davvero esagerato su Twitter

Immagina per un secondo di essere Elon Musk e di “ritrovarti” a capo di aziende come Tesla, SpaceX e NeuraLink.

Immagina di essere una delle persone più potenti del mondo e di comparire al 5° posto della classifica delle persone più ricche al mondo di Forbes, con un patrimonio di 74 miliardi di dollari.

Cosa fai, non lo pubblichi un Tweet ogni tanto?

La classifica è puramente casuale, sia in termini di pubblicazione che di miliardi di dollari di valore persi dalle sue aziende.

1. Elon Musk e la sua onestà

È nota la passione di Elon Musk per Twitter.

Tanto che lui in primis utilizza spesso la piattaforma per condividere immagini, video e GIF.

Marco Mantovan Tweet 1 Elon Musk

In risposta ad un suo Tweet del 2011, Musk sottolinea la sua “pazzia” quando utilizza la piattaforma.

I was always crazy on twitter fyi.

2. Può un Tweet valere 14 miliardi di dollari?

Sì, se ti chiami Elon Musk e dichiari che le azioni della tua azienda, Tesla, valgono troppo!

Marco Mantovan Tweet 2 Elon Musk

Questo Tweet ha fatto infuriare tutti gli azionisti, che hanno visto diminuire drasticamente il valore delle azioni di Tesla.

Molti piccoli azionisti hanno commentato il Tweet, anche in modo poco educato.

3. Elon Musk e Baby Yoda

Marco Mantovan Tweet 3 Elon Musk

Nessuno può negare il fatto che sia un genio, ma non per questo immune alla dolcezza di Baby Yoda.

– “Andremo su Marte” – “Ok bro”.

4. Elon Musk e la sua risposta al COVID-19

Dopo la dichiarazione di lockdown da parte del governo degli Stati Uniti, Musk ha cinguettato la sua disapprovazione.

Marco Mantovan Tweet Elon Musk 5

Successivamente ha predetto, in modo errato il susseguirsi della vicenda, dichiarando che “Probabilmente ci saranno quasi zero nuovi casi negli Stati Uniti, entro la fine di aprile”.

Non è mancato nemmeno un attacco alla CNN, che aveva dichiarato che i ventilatori promessi da Tesla agli ospedali, non erano ancora stati consegnati.

5. Brindiamo ai successi

Ha affermato di aver letto questa frase su una T-Shirt.

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Ma considerando i 610.000 like, possiamo affermare che l’audience abbia gradito!

6. La guerra ai monopoli di Elon Musk

Successivamente alla scelta di Amazon di non pubblicare un libro, il cui tema principale fosse il COVID-19, Elon Musk ha dichiarato: “Amazon dev’essere divisa in più aziende, i monopoli sono sbagliati”.

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Né Amazon e né Jeff Bezos hanno ancora risposto a queste dichiarazioni.

7. I dettagli fanno la differenza

Se ti stai chiedendo perché non hai un patrimonio di 74 miliardi dollari, io ti chiedo: ti sei mai interessato alle bandiere del Chad e della Romania?

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Lui sì!

8. Bombardiamo Marte!

Nel 2015, ospite ad un Late Show, Musk si è fatto “sfuggire” che l’unica soluzione per rendere abitabile il pianeta rosso è quella di bombardarlo con armi termonucleari.

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Nel 2019 ha ribadito la sua intenzione con un Tweet. Ora, SpaceX vende le magliette con la scritta “Nuke Mars”.

LEGGI ANCHE: Elon Musk svela Starship la navicella che ci porterà sulla Luna e su Marte.

9. Il mondo è un videogioco

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“Se la vita è un videogioco, la grafica è fantastica, ma la trama è confusa e il tutorial è troppo lungo”.

E se Elon Musk avesse ragione e noi stessimo vivendo una partita di The Sims?

10. Il Tweet sulla cannabis

Il 20 Aprile o 04/20, è una festa popolare per celebrare la cultura della cannabis.

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Ovviamente il tweet era uno scherzo, ma la SEC non è stata dello stesso parere, tanto da obbligare Elon Musk a pagare una multa di 20 milioni di dollari e di dimettersi per tre anni dal consiglio di amministrazione di Tesla.

10+1. Elon Musk compra Fortnite e lo cancella

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Musk dopo aver condiviso uno screen di un falso articolo, ha dichiarato: “Ho dovuto salvare questi ragazzini dalla verginità eterna”

Il tweet ha destato l’interesse di molti streamer famosi che hanno appoggiato in pieno la battuta.

Per restare al passo con le uscite del nostro “Tony Stark” ti consiglio di seguire il suo profilo Twitter.

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Amazon, Facebook, Apple e Google: i quattro titani del Tech interrogati dal Congresso

  • I CEO di Apple, Amazon, Facebook e Alphabet, la società madre di Google, hanno testimoniato ieri davanti alla commissione antitrust del Congresso degli Stati Uniti.
  • È estremamente raro che uno dei CEO dei giganti della tecnologia testimoni davanti al Congresso, per non parlare del fatto che in questo caso sono stati convocati tutti e quattro insieme.
  • La commissione si sta avvicinando alla fine di un anno di indagini per stabilire se le aziende hanno un controllo eccessivo sul mercato o se hanno utilizzato pratiche anticoncorrenziali e utilizzerà queste testimonianze per completare la sua indagine.

 

I CEO delle quattro società Tech più importanti – tra cui due degli uomini più ricchi del mondo – si sono presentati ieri davanti al comitato antitrust della Commissione giudiziaria della Camera. Il CEO di Amazon Jeff Bezos, il CEO di Apple Tim Cook, il CEO di Facebook Mark Zuckerberg e Sundar Pichai , il CEO di Alphabet. Tutte insieme le quattro multinazionali hanno un valore superiore ai cinquemila miliardi di dollari.

La commissione ha interrogato i CEO di Apple, Google, Facebook e Amazon in una storica indagine della Camera.

Nell’audizione mancava Microsoft, anche se solo pochi giorni fa in Europa era stata accusata da Slack proprio di bloccare la concorrenza.

Cosa è successo

Il CEO di Amazon Jeff Bezos, il CEO di Apple Tim Cook, il CEO di Facebook Mark Zuckerberg e Sundar Pichai di Alphabet (società madre di Google) hanno testimoniato nell’ambito di un’indagine in corso da parte della sottocommissione antitrust della Camera, per verificare se le aziende tecnologiche hanno usato il loro controllo del mercato per contrastare in modo sleale i concorrenti e per difendere le proprie posizioni.

L’udienza ha avuto luogo in un’atmosfera distopica, poiché più di una dozzina di commissari hanno affrontato i quattro titani tecnologici, i cui volti sono stati proiettati su grandi schermi nella sala d’udienza.

Zuckerberg, Pichai, Cook e Bezos sono stati interrogati su una miriade di argomenti, dalle pratiche anticoncorrenziali alla sicurezza degli utenti fino all’acquisto di piccole aziende per eliminarne la possibile concorrenza.

Ma non è finita qui, perché ci sono state anche domande sul ruolo della Cina.

Il Congresso, che era stato accusato in altre udienze come quella per Cambridge Analytica di “inettitudine tecnologica”, ha condotto questa audizione senza problemi.

Zuckerberg ha difeso le acquisizioni di Facebook nei suoi commenti preparati, affermando che WhatsApp e Instagram non sarebbero sopravvissute se non fossero state acquisite. Zuckerberg ha inoltre definito il successo di Facebook come cruciale per mantenere gli Stati Uniti competitivi con la Cina.

Pichai e Cook hanno adottato approcci simili nelle loro difese di Apple e Google, ed  entrambi hanno sottolineato che le loro aziende hanno affrontato la concorrenza in quasi tutti i settori e hanno sostenuto di aver creato piattaforme che consentono alle startup più piccole di raggiungere un pubblico più ampio.

Bezos ha ripetutamente definito Amazon piccola accanto a concorrenti come Walmart (Amazon controlla la maggioranza del Retail online, ma non la vendita al Retail totale), sostenendo allo stesso tempo che le dimensioni di Amazon sono necessarie per mantenere in funzione l’economia online perché “così come il mondo ha bisogno di piccole aziende, ha bisogno anche di grandi aziende”.

Fine di un’era?

Prima ancora che l’udienza iniziasse, il senatore Bernie Sanders richiamava a “rompere la Big Tech” e il presidente Trump minacciava un ordine esecutivo.

In effetti Trump ha già firmato un ordine esecutivo che minaccia di penalizzare Twitter dopo aver controllato i suoi tweet.

Una parte del Congresso degli Stati Uniti guarda ormai la Silicon Valley con sospetto. E quello che è andato in scena è l’inizio di un processo che però probabilmente porterà a nuove regole nel mondo del digitale a livello globale.

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Smarketing: l’allineamento tra marketing e sales nell’era del remoto

  • Smarketing è un processo trasversale e di allineamento tra Sales e Marketing all’interno dell’organizzazione. Ha come base obiettivi comuni ed è focalizzato sulla crescita del fatturato e il miglioramento della customer experience
  • L’allineamento tra sales e marketing prevede l’utilizzo di strumenti condivisi e processi data-driven
  • Il distanziamento sociale sta trasformando il lavoro del commerciale. Aumentano i canali digitali e il supporto del marketing anche nelle fasi finali di acquisto

Silos, disallineamenti, scarsa comunicazione, competizione. Sono elementi che ancora oggi caratterizzano il rapporto tra marketing e sales in molte aziende. Soprattutto in quelle organizzazioni dove prevalgono le gerarchie ai processi e dove il raggiungimento dell’obiettivo è confinato al reparto anziché all’organizzazione.

Questo scenario, di sales e marketing ognuno per la propria strada, già da qualche anno ha dimostrato tutta la sua inefficienza, soprattutto quando parliamo di concetti come customer experience, omnichannel e consumatore consapevole. La necessità di una collaborazione tra le due aree, emerge in particolare oggi che il distanziamento sociale sta modificando radicalmente il contesto di vendita in ottica digitale.

Hubspot definisce l’allineamento tra Sales e Marketing come Smarketing. Nei prossimi paragrafi ci addentreremo su questo tema con le best practice, strategie e  strumenti che facilitano e supportano la collaborazione tra le due aree. Ci concentreremo infine sull’evoluzione digitale delle vendite nei contesti B2B.

Smarketing

Smarketing = Sales + Marketing

Lo Smarketing è un processo di allineamento tra il team sales e marketing intorno a obiettivi comuni all’interno dell’organizzazione, focalizzato sul la crescita del fatturato e il miglioramento della customer experience. Si integra bene con l’approccio inbound marketing, che accompagna in varie fasi un utente che non conosce l’azienda, a diventare lead qualificato e andare verso l’acquisto e il referral.

Lo smarketing è particolarmente efficace per quei prodotti e servizi complessi e con un percorso di acquisto lungo, soprattutto in ambito B2B. Secondo Hubspot l’allineamento tra Sales e Marketing genera un 208% in più sui ricavi dagli sforzi del marketing.

Un esempio di Smarketing

Facciamo un esempio di percorso di acquisto per capire meglio il processo.

Siamo un’azienda Saas, che vende un’applicazione per supportare il project management con approccio agile in ambito B2B. Ho bisogno di far conoscere la mia applicazione e acquisire nuovi contatti. Decido di adottare l’approccio inbound.

Il reparto marketing struttura un sito web con contenuti seo oriented e posiziona il brand sui motori di ricerca per determinate parole chiave come “software project management”.

Inserisce quindi sul sito web dei lead magnet, per esempio una guida per i KPI nel project management, che può essere scaricata lasciando nome, cognome, email. Nel momento in cui l’utente scarica la guida, diventa un lead e inizia un percorso di nurturing, ossia di nutrimento per farlo passare da un lead meno interessato a molto interessato. Il nutrimento può avvenire con contenuti educativi alternati a contenuti commerciali. Nel momento in cui l’utente è qualificato (secondo parametri decisi precedentemente), perché ha interagito con i nostri contenuti e visitato pagine commerciali, passa al commerciale, che allineato dal marketing adotterà una strategia e comunicazione personalizzata.

Il marketing non scompare, ma viene allineato dal commerciale e continua a seguire il lead, fornendo supporto anche durante le fasi di vendita e post-vendita. Marketing e Sales collaborano sugli stessi contatti con metriche condivise e ognuno informa l’altro regolarmente sull’andamento.

Se non ci fosse questo allineamento, l’esperienza utente ne risentirebbe, ma anche l’efficienza. Per esempio se il marketing passasse al commerciale semplicemente la lista dei contatti, quest’ultimo potrebbe non sapere che la persona che sta contattando è molto informata sulla piattaforma, perché ha usufruito di tutti i contenuti di approfondimento pubblicati sul sito. Il commerciale quindi inizierebbe a rispiegare tutto daccapo al lead in modo generico e magari omettendo dei punti sui quali quest’ultimo si era soffermato maggiormente, come la gestione della privacy nel software. D’altra parte il marketing senza allineamento, potrebbe non sapere se il suo lavoro sta funzionando, se il lead è interessato all’offerta, quali punti ha bisogno di approfondire, quali perplessità riscontra, se conosceva l’azienda, ecc.

Il processo dovrebbe quindi essere unico e l’acquisto, diventare un goal comune.

Come allineare Sales e Marketing

Un processo smarketing porta notevoli benefici e aumenta l’efficienza in azienda e il fatturato. Come strutturarlo?

1. Obiettivi chiari e definiti

Sembra banale, ma avere in azienda obiettivi ben delineati e tradotti per l’area Sales e Marketing è l’elemento fondamentale per andare tutti insieme nella stessa direzione.

2. Processi

Anche questo può sembrare scontato, ma in molte organizzazioni i silos ostacolano i processi, chiudendo le collaborazioni all’interno del singolo reparto. Strutturare processi, significa stabilire per ogni fase del customer journey, quali sono le attività di ogni reparto, i contenuti, le metriche di riferimento. I processi sono orizzontali all’organizzazione e non dovrebbero essere contrastati dalle gerarchie.

3. Comunicazione

Nei processi è bene stabilire allineamenti periodici tra le due aree, per discutere e condividere: progressi con dati alla mano;  vittorie ottenute; eventuali cambi di strategie o novità rispetto al prodotto e servizio. Sarebbe bene anche far partecipare il marketing a delle call o incontri con il potenziale cliente, in modo che possa capire il valore di ogni singolo lead generato e comprendere anche meglio qual è il lead di qualità di cui il commerciale ha bisogno. Dall’altra parte sarebbe utile che almeno un rappresentante del team sales partecipasse alle riunioni di marketing, in cui si discutono nuove strategie e contenuti da proporre. Un comportamento di collaborazione e allineamento porta marketing e sales a combattere la stessa battaglia.

4. Dati

I processi data-driven non lasciano spazio alle opinioni personali e aiutano le due aree a sentirsi responsabili nel raggiungimento dell’obiettivo. Le metriche di riferimento è fondamentale stabilirle all’inizio, quando si struttura il processo, e discutere sui dati durante i meeting di allineamento.

5. Strumenti Condivisi

Ci sono strumenti che supportano la condivisione delle informazioni tra le due aree e il monitoraggio dei lead. Parliamo di software come CRM e Marketing Automation, che permettono all’area Sales di capire quali campagne sono state fatte e quali contenuti inviati e usufruiti dal lead, e dall’altra parte il marketing può monitorare le opportunità in corso, le call avvenute, e intervenire se necessario anche nella fase di vendita e post-vendita in accordo con il commerciale.

6. Service Level Agreement

Il Service Level Agreement è un contratto interno tra sales e marketing, che stabilisce quali risultati le due parti concordano di fornire l’una all’altra.  Si deve basare su obiettivi concreti e numerici. Il documento, di cui Hubspot fornisce un template gratuito, include: una overview, obiettivi di entrambe le aree; le caratteristiche di un lead qualificato; il lead scoring; le responsabilità sales e marketing; quali canali verranno utilizzati; quante riunioni effettuate e come verranno dati i feedback e quali report sono previsti.

7. Ricompensa

Se gli obiettivi sono comuni, perché non prevedere una ricompensa sia per sales, che per marketing sulle vittorie ottenute?

L’evoluzione del Sales nell’era della pandemia

Il distanziamento sociale, la riduzione degli spostamenti e il lavoro da remoto, stanno cambiando radicalmente anche l’area Sales. Se negli anni passati, il modello principale rimaneva la visita in presenza, con il commerciale che girava il mondo con la sua valigetta e le strette di mano, oggi l’interazione digitale sta sostituendo quella in presenza. L’allineamento con il marketing e il processo smarketing anche nella parte più bassa del funnel non è quindi più un plus, ma una necessità.

Davvero interessante su questo tema, la survey di McKinsey lanciata lo scorso Aprile per indagare il cambio di comportamenti nei decision-maker B2B. Le interazioni online sono oggi importanti più del doppio rispetto alle interazioni tradizionali. Quasi il 90% delle vendite è passato a un modello di vendita di videoconferenza, telefono, web e, sebbene rimanga un po ‘di scetticismo, più della metà ritiene che ciò sia uguale o più efficace dei modelli di vendita utilizzati prima del COVID-19.

Il dato interessante è che molti di questi cambiamenti digitali diventeranno probabilmente permanenti.

smarketing _ survey McKinsey

Self-service e canali digitali

Un altro dato interessante è l’aumento dei canali self-service rispetto a quelli diretti nel B2B. Nel 2019 vengono preferiti per oltre il 60% in tutte le fasi del processo decisionale di acquisto: ricerca, valutazione, ordine e riordine. Tra i canali self-service oltre il sito web, le app del fornitore, le community online, i social media.

smarketing mckinsey

Sempre secondo una survey McKinsey, i fornitori che creano esperienze digitali notevoli, hanno più del doppio delle possibilità di essere scelti come fornitore primario rispetto a coloro che non lo fanno.

Ad esempio, il 33% dei buyer intervistati ha valutato l’opzione di live chat, durante la fase di ricerca, come uno dei tre requisiti principali per un fornitore best-in-class. La live chat è un’opzione che offre velocità, trasparenza e competenza, che sono gli elementi che i clienti apprezzano di più.

La vendita da remoto

Self-service e interazioni digitali, non si traducono in una scomparsa del commerciale, ma sicuramente fanno riflettere su una sua possibile trasformazione. Il commerciale con la pandemia, ha sostituito gli incontri vis-a-vis con strumenti di videoconferenza, telefono, chat.

survey mckinsey

Pensiamo in questo contesto quanto sia importante parlare di smarketing. L’allineamento tra sales e marketing è determinante in tutte le fasi di acquisto. Per realizzare una presentazione online efficace, inviare email automatizzate di reminder a una videoconferenza, organizzare webinar eventi live, creare occasioni di incontro e fornire esperienze digitali rilevanti, interattive e personalizzate. La collaborazione tra sales e marketing può ridurre la distanza sociale e accompagnare le persone all’acquisto recuperando quel tocco umano, che la presenza fisica del commerciale forniva al cliente.

fiducia sul luogo di lavoro

Perché un ambiente di lavoro basato sulla fiducia migliora il processo decisionale

  • La fiducia è una necessità e non una “soft skill” secondaria.
  • Il 55% dei CEO ritiene che la mancanza di fiducia sia una minaccia per la crescita della propria organizzazione.

 

Numerose ricerche hanno evidenziato che un solido e proficuo rapporto di fiducia tra direzione e impiegati è fondamentale per creare un ambiente di lavoro performante. Un luogo di lavoro a bassa fiducia può creare un ambiente altamente stressante e poco attrattivo per i lavoratori. Chi si trova in posizioni alte in gerarchia deve, infatti, prediligere comportamenti volti a favorire l’instaurarsi di un clima di fiducia, virtuoso, che si auto-alimenti e si rafforzi con il tempo.

Il tema della fiducia nei luoghi di lavoro è diventato uno degli argomenti più popolari dall’inizio dell’attuale pandemia Covid-19. Secondo il “Trust Barometer” di Edelman, la più importante indagine globale sul tema della fiducia realizzata dall’agenzia di comunicazione Edelman in 28 paesi su di un campione di 34.000 persone, una persona su tre non si fida del suo datore di lavoro. 

In Italia l’indice generale di fiducia è aumentato di 3 punti percentuali rispetto al 2019, l’Italia è seconda in Europa dopo l’Olanda. Il 61% degli italiani, tuttavia, crede che il capitalismo di oggi sia un fattore negativo su scala globale e l’87% teme di perdere il posto di lavoro. La ricerca, ha inoltre evidenziato che la fiducia diminuisce partendo dalle posizioni aziendali più alte a quelle più basse.

In altre parole, i dipendenti si fidano di più dei loro colleghi che degli amministratori delegati e dei dirigenti superiori in grado. Diventa quindi fondamentale costruire la fiducia nelle posizioni apicali e di leadership all’interno dell’azienda.

fiducia a lavoro

Perché oggi è fondamentale creare fiducia sul posto di lavoro

I dipendenti che lavorano in un luogo di lavoro contraddistinto da bassa fiducia non comunicano tra di loro, mantengono comportamenti sleali e si mostrano poco propositivi in relazione alle attività lavorative quotidiane. In un ambiente così ostile è difficile lavorare e ottenere performance ad elevata redditività.

I dipendenti delle organizzazione con bassa fiducia non esprimono al meglio le loro capacità, non mostrano i loro talenti, non danno sfogo alla loro creatività e sono meno propositivi.

L’azienda perde quindi produttività, innovazione e di conseguenza non riesce ad ottenere i corretti vantaggi competitivi che le consentono di contrastare la concorrenza.

fiducia

La fiducia migliora il lavoro di squadra e la collaborazione

La fiducia nei luoghi di lavoro ha un grande impatto sul modo in cui i dipendenti collaborano e lavorano insieme sugli stessi progetti.

In questo periodo di pandemia la maggior parte dei dipendenti continua a lavorare da casa e, non essendo fisicamente presenti in azienda, non sono sottoposti al controllo diretto/fisico del datore di lavoro, non hanno uno scambio “reale” con il loro gruppo di lavoro. Proprio durante questo periodo di “delocalizzazione” i datori di lavoro hanno iniziato a comprendere quanto sia importante creare un ambiente di lavoro basato sulla fiducia.

Il primo passo verso la creazione di luoghi di lavoro affidabili e collaborativi è quello di promuovere una comunicazione aperta e onesta. Una scarsa comunicazione genera inevitabilmente una scarsa collaborazione.

Nella maggior parte dei casi, la scarsa comunicazione dei dipendenti è il motivo primario che comporta una scarsa collaborazione. Secondo una ricerca di Accenture il 55% dei CEO ritiene che la mancanza di fiducia sia una minaccia per la crescita della propria organizzazione.

La fiducia e la condivisione contribuiscono al raggiungimento degli obiettivi aziendali

Quando i dipendenti si fidano dei loro datori di lavoro, sono molto più propensi a collaborare per raggiungere gli obiettivi aziendali prefissati.

Non arrivare a questo elevato standard organizzativo, soprattutto quando ci si trova in un contesto di delocalizzazione, comporta una perdita di produttività e crea un ambiente di incertezza. Incertezza che è, in questo momento storico, alimentata ulteriormente dalla pandemia attualmente in corso.

Ecco perché le aziende devono fin da subito comunicare ai dipendenti, in modo chiaro, i valori, la missione, la vision aziendali e anche le decisioni prese in momenti di crisi economica.

fiducia sul luogo di lavoro 2

La fiducia migliora l’efficienza, l’impegno e la produttività

Secondo la sopra citata ricerca, il disengagement costa alle società statunitensi circa 450/550 miliardi di dollari l’anno ed è strettamente correlato con il concetto di fiducia sul posto di lavoro.

In effetti, il 96% dei dipendenti engaged si fida della gestione aziendale, mentre solo il 46% dei disengaged ha fiducia nella gestione da parte della proprietà. La ricerca dimostra, inoltre, che i luoghi di lavoro altamente affidabili godono di :

  • Una maggiore produttività dei dipendenti (superiore del 50%);
  • Più energia e determinazione sul lavoro (106% in più);
  • Meno giorni di malattia (13% in meno).

Le aziende con alti livelli di fiducia superano del 186% le aziende con bassi livelli di fiducia.

La fiducia migliora il processo decisionale

Altro punto a favore della creazione di un ambiente di lavoro basato sulla fiducia è il miglioramento del processo decisionale: se i dipendenti si fidano dei loro superiori e i manager si fidano del team si crea una sinergia forte, una maggiore condivisione e quindi un clima di fiducia.

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leadership fiducia

La fiducia riduce lo stress e il burnout sul posto di lavoro

Sempre secondo la ricerca di Edelman un clima di fiducia riduce notevolmente lo stress (meno 74%) e il burnout (meno 40%). Lo stress e il burnout sono due variabili da limitare nelle organizzazioni, poiché  impattano negativamente sulla motivazione e sulla produttività dei dipendenti. Per farlo, le organizzazioni devono creare un clima di lavoro collaborativo, trasparente, basato sulla comunicazione, ossia sulla fiducia.

È importante, quindi, che i dipendenti si sentano liberi di parlare di questioni lavorative, delle loro preoccupazioni e delle loro esigenze, senza che si sentano limitati in questa libertà.

La fiducia aumenta la lealtà e la fidelizzazione dei dipendenti

Un ambiente di lavoro che lascia spazio al burnout dei dipendenti è spesso seguito da un forte turnover degli stessi. I lavoratori che si trovano in queste situazioni hanno una probabilità 2,5 volte maggiore di lasciare il posto di lavoro.

La ricerca ha inoltre evidenziato che il 67% dei lavoratori statunitensi si sente frequentemente colpito da burnout, ciò comporta un aumento della probabilità (63%) che il lavoratore stesso acceda alla malattia, aumentando di fatto l’assenteismo.

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La fiducia supera la resistenza al cambiamento

Durante la pandemia da Covid-19 molti datori di lavoro hanno dovuto cambiare radicalmente e velocemente il modello organizzativo e la gestione delle risorse umane, accelerando il processo di trasformazione digitale. Si tratta di un cambio culturale interno alle aziende, che passa attraverso un cambio tecnologico. Spesso le persone sono resistenti al cambiamento e attuano comportamenti volti a rallentare il processo, piuttosto che accelerarlo.

Mai come in questo momento storico difficile, la fiducia diventa l’ingrediente in più per agevolare questa evoluzione. Il consenso e la comunicazione interna delle aziende attivano un processo di trasparenza, che consente alle persone di adattarsi con velocità e nel modo migliore al cambiamento. Tuttavia, sempre secondo la ricerca, solo il 38% dei dipendenti, coinvolti nel processo di trasformazione digitale sul posto di lavoro, afferma di essere stato correttamente informato dal suo datore di lavoro.

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La fiducia migliora l’innovazione e la creatività

Quando le persone si sentono libere di comunicare, libere di esprimere il proprio pensiero e, soprattutto, quando si fidano dei propri datori di lavoro, sono anche più innovative. La ricerca in questione evidenzia, infatti, che i dipendenti in ambienti dove si è creato un clima fiduciario forte, aumentano del 23% la loro capacità di produrre nuove idee e creare nuove soluzioni. Un vantaggio competitivo elevato per le aziende.

Promuovere una cultura aziendale basata sulla fiducia incoraggia la collaborazione e contribuisce alla creazione di un ambiente di lavoro creativo.

I dipendenti che non percepiscono la fiducia tendono a non essere proattivi, a non prendere iniziative, a non produrre e condividere nuove idee, creando così un ambiente di lavoro che non innova. Se coltivata con cura, mettendo ogni singolo dipendente nella condizione di poter contare su chi gli sta accanto e su chi coordina il team di lavoro, diventa uno dei più importanti e proficui vantaggi competitivi aziendali.

metodo montessori

Il metodo Montessori: anche Google, Amazon & Co. ne hanno beneficiato

  • Il metodo montessoriano pone le basi per l’uguaglianza (di genere, delle culture) in maniera implicita e favorisce lo sviluppo dell’intelligenza emotiva.
  • Rappresenta ancora oggi un metodo di formazione innovativo di cui hanno beneficiato anche grandi imprenditori come il CEO di Google ed il fondatore di Wikipedia.
  • Alcuni consigli per favorire l’inclusione sin da piccoli.


La pedagogista, medico e scienziata Maria Montessori immaginava una comunità umana non definita in base alla nazionalità. Non trovava coerente che le merci potessero oltrepassare i confini e che le persone non potessero invece muoversi liberamente. Sono passati già più di 100 anni da quando il primo asilo montessoriano, chiamato “la casa del bambino”, aprì le porte ad un nuovo percorso didattico. La pedagogista dell’omonimo metodo ha messo in pratica teorie che ancora oggi sono alla base di varie ricerche. Da questi studi emerge che il metodo montessoriano favorisce l’indipendenza e l’innovazione. Personaggi noti come Larry Page, CEO di Google, Sergey Brin, co-fondatore di Google, Jimmy Wales, fondatore di Wikipedia, Jeff Bezos, CEO di Amazon, Henry Ford sono solo alcuni dei molti imprenditori di successo che da piccoli hanno avuto una formazione montessoriana.

“Credo che buona parte del merito del nostro successo sia dovuto all’educazione che abbiamo ricevuto. Il non dover seguire delle regole rigide o degli schemi, il poter autogestire, il poter mettere in discussione cose che ci venivano date per assodate ci ha permesso di agire un po’ differentemente dagli altri e diventare quello che siamo.” Larry Page


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La diversità allena i più piccoli al futuro

Per agevolare l’inclusività in classe, la pedagogista tolse la regola delle fasce d’età, favorendo anzi la formazione di classi ad annate miste. Una scuola internazionale, un po’ come il viaggiare, prepara gli allievi ad un futuro che sarà sempre più multietnico. I principi fondati sulle teorie montessoriane favoriscono l’apprendimento della lingua italiana e permettono di superare ostacoli in questo processo.

Lo sviluppo dell’intelligenza sociale

Al fine di comprendere eventuali diversità nello sviluppo cognitivo tra classi multietniche e non, la provincia di Trento ha condotto uno studio comparativo tramite osservazioni, interviste e questionari nelle scuole medie della zona. È emerso che gli alunni di classi multietniche sviluppano competenze sociali più avanzate rispetto ad altri contesti.

Il metodo Montessori favorisce infatti l’inclusività, la parità di genere e una educazione priva di stereotipi. Maria Montessori già nei primi anni del 1900, quando ancora il patriarcato era ben più diffuso, riteneva che a livello cognitivo tutti i bambini e le bambine avessero lo stesso potenziale. Le neuroscienze poi le diedero ragione. Il suo metodo infatti pone le basi per l’uguaglianza in maniera naturale e implicita.

I bambini, nel rispetto del prossimo, sono liberi di muoversi e di sperimentare con il materiale a loro disposizione. Tra le varie attività ci sono anche quelle “di vita pratica” – a misura di bambino – come pulire i tavoli, ripiegare calzini e sbattere i tappeti, per trasmettere ai più piccoli il valore che hanno gli spazi e gli oggetti.

casa del bambino

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I consigli per favorire l’inclusione

Sonia Coluccelli, pedagogista e autrice del libro “Il metodo Montessori nei contesti multiculturali”, stila alcuni suggerimenti per favorire un ambiente multietnico positivo, tra i quali:

– Il lavoro in cerchio nella quotidianità scolastica: mostra una comunità di pari, dove non ci sono primi o ultimi.
– Educare i bambini a frequentare luoghi diversi (teatro, cinema ecc.): questo significa abituarli anche ad una vastità di pensieri e culture
– Lavorare sul proprio linguaggio con un occhio critico, riflettendo sulle parole dette in presenza dei bambini.

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La libertà stimola la creatività secondo il metodo Montessori

L’ambiente montessoriano è a misura di bambino, con materiali naturali appositamente ideati. Questi materiali sensoriali, creati per la scrittura e la lettura, promuovono lo sviluppo del senso di autonomia e di indipendenza del bambino. L’adulto e l’educatore, quindi, non si impongono come coloro che detengono il sapere, ma come dei registi che accompagnano i bambini nel loro viaggio alla scoperta della vita.

“Il più grande segno di successo per un insegnante è poter dire: i bambini stanno lavorando come se io non esistessi” Maria Montessori

talkwalker

Talkwalker acquisisce Nielsen Social per offrire nuove funzionalità alle aziende

Talkwalker, società di social listening e analisi, oggi ha annunciato l’acquisizione di Nielsen Social, fornitore leader di misurazione social e software di approfondimento del pubblico.

La soluzione innovativa di Nielsen Social per la valutazione dei contenuti social permetterà di fornire ulteriori approfondimenti per l’intelligence conversazionale, abilitata dall’intelligenza artificiale della piattaforma di Talkwalker.

Negli ultimi anni Talkwalker ha visto la social analytics evolversi enormemente, sfruttando più fonti di dati per fornire informazioni fruibili in intere aziende. E ora sta guidando questo cambiamento, creando una potente soluzione aziendale per la conversational intelligence.

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Cosa accadrà dopo l’acquisizione

Questa acquisizione fa parte di quel cambiamento, andando a rafforzare la leadership dell’azienda in termini di innovazione attraverso il software all’avanguardia di valutazioni dello stato dell’arte e analytics adverstising di Nielsen Social.

“La decisione di unire le forze con Nielsen Social sottolinea l’impegno di Talkwalker a fornire ai clienti aziendali le migliori soluzioni in tutta l’ampia gamma di casi d’uso”, ha affermato Robert Glaesener, CEO di Talkwalker. “Con l’aggiunta di Nielsen Social Content Ratings alla nostra piattaforma AI, siamo in grado di espandere la nostra offerta di approfondimenti su consumatori, categorie e pubblico e accelerare la nostra crescita globale”.

Questa acquisizione rappresenta un altro punto di successo per Talkwalker quest’anno. Con una nuova brand identity, una piattaforma recentemente aggiornata, l’introduzione di una nuova visualizzazione di dati innovativi.

“Siamo entusiasti di aver trovato un partner affiatato in Talkwalker, che condivide la nostra missione di fornire le migliori soluzioni di misurazione e analisi ai clienti a livello globale”, ha affermato Sean Casey, presidente di Nielsen Social. “La combinazione rafforzerà in modo significativo la nostra offerta e non vediamo l’ora di unirci alla piattaforma in rapida crescita di Talkwalker per promuovere insieme la nostra posizione il mercato globale”.

Nei prossimi mesi Nielsen Social sarà integrato nella piattaforma Talkwalker, aggiungendo ancora più funzionalità.

Startup

Flessibilità e propensione al cambiamento: in Italia è giunto il momento delle startup?

  • L’emergenza Covid-19, dicono gli esperti, potrebbe portare a 25 milioni di disoccupati nel mondo
  • Le aziende saranno costrette a rivedere modelli di business e processi e individuare strategie per cavalcare il cambiamento, anziché subirlo
  • Dopo la crisi del 2008 sono nati colossi del mondo tech come Dropbox, AirBnb e Whatsapp
  • L’ecosistema italiano delle startup può trovare nuova linfa da questa emergenza: sarà fondamentale, però, la capacità di adattarsi al cambiamento

 

a cura di Thomas Ducato

 

Dalle crisi nascono sempre nuove opportunità.
Leggiamo spesso, in momenti come quello che stiamo attraversando, frasi come questa: affermazioni che difficilmente potranno essere accolte di buon grado da aziende e lavoratori colpiti duramente dall’emergenza Covid-19, che potrebbe portare a 25 milioni di disoccupati nel mondo secondo le stime dell’Organizzazione mondiale del lavoro.

Allo stesso tempo, però, nonostante la retorica che si cela dietro a queste “frasi ad effetto”, la storia ci insegna che la verità non è troppo distante: lo abbiamo visto con la crescita successiva alla grande crisi finanziaria del ’29 e nei decenni che hanno seguito la seconda guerra mondiale, ma anche in epoca più recente. Non è un caso che alcune tra le grandi imprese tech, che oggi dominano i mercati mondiali, siano nate o “esplose” negli anni successivi al 2008, dopo la bolla che ha colpito l’economia e la finanza globali.

Parliamo di colossi come Dropbox, AirBnb, WhatsApp, Slack, Uber, Groupon e Instagram, per citarne alcuni, ma anche di aziende più piccole e meno note che hanno contribuito in modo importante all’innovazione tecnologica e alla nascita e allo sviluppo dell’ecosistema delle startup e del mito della Silicon Valley.

In un momento di rapido mutamento dei mercati, dei modelli di business, dei bisogni e delle abitudini dei consumatori come quello attuale, le startup sono di fronte a un bivio: sono realtà fragili e potenzialmente a rischio ma, allo stesso tempo, quelle con maggiori opportunità e margini di crescita, in grado di cavalcare il cambiamento, anziché subirlo.

 

Cosa sono le startup? Un po’ di chiarezza

Prima di addentrarci nel discorso è necessaria una precisazione: non tutte le nuove imprese possono essere considerate startup. Non è semplice dare una definizione univoca, ma è possibile evidenziare quattro serie di caratteristiche, riassunte in modo efficace da Startup Geeks, che fanno di una nuova azienda una startup: scalabilità, replicabilità del modello di business, innovazione intrinseca (di processo o di prodotto) e temporaneità.

Senza queste caratteristiche, a cui potremmo aggiungere la capacità di sconvolgere un settore esistente o quella di creare un nuovo mercato, difficilmente possiamo dire di essere di fronte ad una startup.
Secondo Enrico Pandian, un punto di riferimento nel panorama italiano del settore che si è conquistato il titolo di startupper seriale grazie alle 18 imprese create dal 1999 a oggi (tra cui spicca Supermercato24, di recente diventata Everli), si tratta di “fondare una piccola società pensandola già come una multinazionale”.

 

L’immediato post Covid: lo stato di salute dell’ecosistema italiano

Le startup non solo sole: sembra questo il messaggio lanciato dalle istituzioni. Sono pari a 60 milioni i fondi messi a disposizione dall’Eit, Istituto europeo di innovazione e tecnologia, con l’obiettivo di sostenere le imprese innovative, considerate fondamentali per la ripresa post Covid. Anche in Italia qualcosa si è mosso: il 23 giugno ha fatto il suo debutto ufficiale il Fondo Nazionale Innovazione che prevede lo stanziamento di un miliardo di euro per sostegno e incentivi all’investimento.

Nonostante l’effetto Covid, inoltre, la prima metà del 2020 ha fatto segnare 260 milioni di investimenti nelle startup nostrane e anche il crowdfunding ha dato segnali incoraggianti, toccando i 38 milioni raccolti rispetto ai 25 dell’anno passato.

In un momento disruptive come quello attuale innovazione e digitale sono due asset importanti su cui credere e investire e questi numeri sembrano avvalorare questa tesi.

 

Adattarsi al cambiamento per scongiurare il fallimento

A fare la differenza, però, sarà soprattutto la capacità di adattarsi al cambiamento e a quella “nuova normalità” tirata spesso in ballo durante l’emergenza.
Ci è riuscita la startup FrescoFrigo, fondata da Enrico Pandian. Questa startup nasce dall’idea di portare cibo sano e di qualità a pochi metri del consumatore, direttamente nel suo luogo di lavoro, grazie a un frigorifero “intelligente” che punta a rivoluzionare il settore dei distributori automatici. Con l’emergenza sanitaria, però, gli uffici si sono svuotati e il fatturato di FrescoFrigo è rapidamente sceso a zero, con conseguenze dirette sull’umore di dipendenti e investitori.

“FrescoFrigo è stato impattato moltissimo dal Covid – ci ha raccontato Pandian -. Il 9 o 10 marzo il mio grafico del fatturato ha toccato lo zero e la situazione è rimasta così per svariati giorni. Appena abbiamo capito che l’emergenza sarebbe durata a lungo ci siamo impegnati per trovare una soluzione, non tanto per il fatturato per quanto importantissimo, ma soprattutto per il team che iniziava a essere preoccupato e demoralizzato. Da un confronto con alcuni consumatori è nata l’idea di installare FrescoFrigo all’interno dei condomini: abbiamo capito che le persone lavoravano da casa, spesso più di quanto non facessero in ufficio e che il nostro servizio poteva essergli di aiuto. Abbiamo installato più di 30 frigo condominiali solo nel primo mese e ora, nonostante la fine del lockdown, ci chiedono di mantenere comunque il servizio”.

Perché? La risposta individuata da Pandian in realtà è molto semplice: “Il consumatore è pigro e ha trovato una nuova comodità”.

 

Fare startup in Italia

“In Italia la parola Startup viene spesso associata a una cosa da “ragazzini” – ci ha detto Pandian – che fondano la loro prima azienda appena usciti dall’università. Io invece ho 40 anni, di aziende ne ho fatte tante, e vorrei cambiare la narrazione sulle startup che c’è in Italia”.
Come abbiamo visto dalle cifre di questo inizio di 2020 la sensazione è che qualcosa stia cambiando e che la crisi che sta seguendo l’emergenza sanitaria possa in qualche modo preparare il terreno all’affermazione dell’ecosistema italiano delle startup. Obiettivo e punto di riferimento resta sempre la tanto citata e ammirata Silicon Valley: quanto siamo distanti?

Lo abbiamo chiesto ad Alberto Onetti, Imprenditore e presidente della californiana Mind the Bridge la cui missione è quella di avvicinare grandi e medie imprese al mondo dell’innovazione e delle startup. “In Italia – ha spiegato Onetti – siamo partiti molto molto tardi, il mondo dell’innovazione ti porta a raccogliere i frutti del lavoro solo dopo tempo. In Silicon Valley questo processo è partito 40-50 anni fa. Da noi è un sistema ancora nella sua infanzia, ancora fragile. Inoltre, se parti dopo e corri più piano degli altri è difficile riuscire a vincere. Lavoriamo a un decimo di capitale rispetto a Francia e Germania, che a loro volta investono metà del Regno Unito, in cui si investe un quarto di quanto avviene negli Stati Uniti”.

Ma non è solo una questione economica, a mancare è anche lo spirito che si respira oltreoceano: “Negli Stati Uniti – racconta Onetti – tutti fanno il tifo per tutti, mentre da noi c’è la cultura del tifare contro. Quello che percepisci in Silicon Valley è che le persone si aiutano senza chiedere niente in cambio, solo perché è nell’interesse dell’intero ecosistema. Si chiama “give back”. Qualcosa torna, perché ti trovi su una torta più grande: avere una fetta più piccola di una torta grande è meglio di avere il 100% del niente. Sembra semplice, ma forse abbiamo problemi di matematica”.

 

Un cambio epocale

La strada è ancora lunga, dunque, ma l’emergenza sanitaria ha accelerato una serie di cambiamenti che erano già in atto: siamo di fronte a un momento di passaggio, a un cambio epocale che la crisi ha anticipato. Anche in questo senso la storia offre spunti su cui riflettere: la peste nera del ‘300, arrivata in un periodo già ampiamente condizionato da carestie, ha portato a profondi cambiamenti nel tessuto sociale, che hanno favorito la nascita di nuove opportunità e innovazioni tecnologiche.

Il Covid-19 potrà rappresentare una reale occasione per le imprese e per chi sarà in grado di leggere i segnali che ci offre questo presente così instabile e complesso, ripensando il proprio modello di business e rendendo più flessibili e leggere le dinamiche aziendali: proprio per questo le startup possono giocare un ruolo da protagonista!

“Il periodo che stiamo attraversando può trasformarsi in eccezionale per chi ha tante idee”, ci ha detto Enrico Pandian.
L’ecosistema italiano saprà approfittarne?