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Timing and Pressure: le tempistiche di invio di Newsletter e DEM e l’impatto sul destinatario

In che mese dell’anno, in che giorno della settimana e a che ora l’invio di una email ha maggior impatto sul destinatario? Quali strumenti sono più efficaci tra newsletter e DEM? Quanto incide la tipologia del destinatario e il settore in cui opera sul tasso di apertura?

Tutte domande importanti per compiere azioni di Email Marketing efficaci e raggiungere il proprio target con il giusto timing. Molte risposte le fornisce il primo numero di MailUp Data, Timing and Pressure, che si pone come focus la ricezione e l’apertura delle email da parte dei destinatari.

L’obiettivo dell’indagine è un’analisi quantitativa e qualitativa sulle tempistiche con cui clienti e prospect ricevono e aprono i messaggi delle aziende nell’arco della giornata, della settimana e dell’anno, registrando inoltre lo scarto temporale tra il momento della ricezione e il momento dell’apertura.

Oltre al timing, lo studio si è concentrato sulla cosiddetta pressure – ossia il numero di messaggi che un utente riceve in un determinato periodo – e in che misura questa condiziona tassi di apertura e di disiscrizione. 

Vengono così messi in luce percentuali, numeri e andamenti in grado di offrire una visione globale, da una parte, sulle abitudini nelle tempistiche di invio delle aziende e, dall’altra, sulle abitudini dei destinatari nella fruizione delle email in relazione alle frequenze di invio stabilite dalle aziende. 

L’analisi dei flussi è stata possibile grazie alle indicazioni fornite dai clienti MailUp che, per ogni ambiente di lavoro, hanno selezionato la tipologia di messaggio (DEM, newsletter) e la tipologia di destinatario (B2B, B2C, misto B2B+B2C) su un campione di 20 milioni di destinatari.

Stagionalità: gli invii durante i mesi dell’anno

In generale

Prendendo in considerazione il quadro generale, non differenziato per audience e tipologia di invio, la prima evidenza riguarda i ridotti volumi di email nei primi mesi dell’anno.

L’attività di invio delle aziende risulta invece nettamente più consistente negli ultimi mesi dell’anno: ogni mese compreso tra settembre e dicembre (inclusi) catalizza oltre il 9% del totale di invii, con la leadership del mese di ottobre (10,79%).

A sé il caso di agosto che – segnando un picco in basso tra luglio e settembre con un risicato 6,3% – si mantiene tuttavia su volumi pari o superiori a febbraio e gennaio.

Il tasso di apertura procede invece in maniera inversa a quella degli invii: le aperture presentano un calo negli ultimi mesi dell’anno, in coincidenza dell’aumento dei volumi di invio rilevato precedentemente. Le aperture sono invece maggiori dove i volumi sono più contenuti: a gennaio – dove registravamo il minor numero di email inviate tra tutti i 12 mesi – troviamo il maggior tasso di apertura (31,8%).

Fa eccezione agosto, dove a volumi di invio ridotti corrisponde un tasso di aperture nettamente inferiore alla media (23,7%); il mese estivo per eccellenza si caratterizza dunque per un’inerzia diffusa, per bassi livelli di attività, sia da parte delle aziende sia da parte dei destinatari.

In base alle differenti audience

Prendendo in considerazione le differenti audience (B2B, B2C, Misto), notiamo che i volumi sono distribuiti in maniera simile. L’unica differenza marcata riguarda il mese di agosto, dove si nota una differenziazione interna pronunciata tra le diverse audience: 4,6% di volumi nel B2B, 5,8% nel misto e 7,1% nel B2C.

Risulta dunque evidente come ad agosto, nel caso di invii destinati ai consumatori, i volumi non presentano il tracollo rilevabile invece nelle altre audience. A pesare molto sulle aperture dei primi mesi dell’anno sono i risultati del B2C, che anche nei restanti mesi dell’anno fa registrare performance delle aperture nettamente sotto la media: si va dal 28,5% di gennaio fino al 23,7% di settembre, intervallato dal 20,4% del mese di agosto.

Per quanto riguarda l’andamento di mese in mese, le tre diverse audience presentano un comportamento simile: le performance migliori comprese tra gennaio e febbraio, le peggiori ad agosto; i mesi che precedono agosto mostrano risultati migliori rispetto al periodo settembre-dicembre.

Giorno della settimana e orario

In generale

Lo studio ha analizzato anche volumi e aperture delle email nei sette giorni della settimana e nelle 24 ore giornaliere. Considerando gli invii complessivi, senza distinzioni di audience e tipologia, emerge che l’attività sia più intensa nelle ore della mattina, per poi calare fino all’ora di pranzo e rimanere stabile fino alle 19.

Guardando le variazioni nell’arco della settimana, si nota che gli invii si concentrano per lo più nei giorni feriali, mostrando un calo molto marcato nel weekend.

Da notare come il venerdì si discosti da tutti gli altri giorni per un secondo picco di volumi in corrispondenza delle 17. Il comportamento delle aperture in relazione all’ora giornaliera di invio mostra una notevole differenza tra giorni feriali e weekend: nonostante una certa analogia delle due curve nelle ore della notte e nelle prime ore della mattina, notiamo che dalle 9 (35% di aperture per i giorni feriali, 25,7% per il weekend) le due curve iniziano a divergere nettamente.

In base alle differenti audience

Nel B2B, coerentemente con il pubblico di riferimento, si rilevano volumi notevolmente maggiori in corrispondenza della settimana lavorativa, da lunedì a venerdì, a discapito del fine settimana. Il canale con i maggiori volumi di invio nel weekend è il B2C (50% il sabato e 55% la domenica), mentre il misto domina i giorni della settimana, catalizzando circa il 50% dei messaggi inviati.

Comuni a tutte e tre le audience sono le ottime performance nelle ore della mattina, seguite da una discesa nel pomeriggio che si mostra particolarmente accentuata nel B2C.

Il B2B, dal lunedì al venerdì, presenta tempi di apertura molto contenuti mentre le altre audience presentano tempi di apertura più dilatati. Il venerdì il canale B2B amplia in maniera vistosa i tempi di apertura attorno alle 17, mentre nel weekend ottiene tempi di apertura molto ampi. A performare meglio nel weekend è il B2C, che presenta tempi leggermente più bassi delle altre due audience. 

Come performano Newsletter, DEM, misto

Nella distribuzione per tipologia, notiamo che globalmente le preferenze di invio delle aziende ricadono sui giorni feriali, anche se in misura minore per il comparto DEM, che tuttavia si mantiene su buoni livelli anche nel weekend.

L’invio di Newsletter è più intenso la mattina per poi decrescere e risalire nel tardo pomeriggio; le DEM presentano un solo picco, nelle ore del mattino all’interno della settimana lavorativa mentre nel weekend i loro volumi decrescono più velocemente. Il misto presenta un andamento piuttosto simile a quello delle DEM.

Newsletter e DEM presentano tempi di apertura abbastanza simili, senza particolari differenze tra i giorni della settimana. Il weekend presenta tempi globalmente più lunghi.

La pressione a cui sono sottoposti i destinatari

Ma come rispondono i destinatari alla pressione delle newsletter, ovvero al numero di messaggi che un destinatario riceve in un determinato periodo? Ripartendo gli invii per tipologia di email non notiamo differenze evidenti in termini di pressure: in media si nota una distanza tra un invio e l’altro di 9 giorni per le Newsletter e di 10 giorni per le DEM. 

Se si considera invece la tipologia di audience, si rilevano alcune differenze sensibili: nel B2C si ha una pressione minore mentre è più elevata – ed equiparabile – la pressione tra misto e B2B

La relazione tra pressione e tasso di apertura

Considerando unicamente i destinatari che hanno aperto le email, un incremento della pressure impatta positivamente sul tasso di aperture totali, se invece consideriamo tutti i destinatari – anche coloro che non hanno aperto le email – scopriamo che una maggiore pressione impatta negativamente sul tasso di apertura.

Se ne deduce quindi che una maggiore pressione esercitata sul destinatario da parte dell’azienda produce un maggior numero di interazioni complessive con l’email e, al tempo stesso, un decremento del numero di lettori della singola email.

La relazione tra pressione e disiscrizioni

Molto interessante è la valutazione del grado di incidenza della pressure sul tasso di disiscrizioni volontarie. I dati rivelano che i destinatari su cui si esercita una maggiore pressione (settimanale) sono più propensi a disiscriversi.

Una dinamica che però non deve allarmare, dal momento che un certo tasso di disiscrizione è fisiologico in ogni database aziendale; al contrario una pressure debole – mensile o oltre il mese – mette sì al riparo da un consistente tasso di disiscrizione, ma avvicina il rischio di un mancato coinvolgimento dell’audience nella comunicazione.

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Arriva TikTok For Business, la nuova piattaforma globale per i brand

La piattaforma per i video brevi ha appena lanciaro TikTok For Business, il marchio che identifica la piattaforma globale che ospita tutte le soluzioni di marketing attuali e future per i brand.

“Le soluzioni di TikTok For Business sono pensate per offrire ai brand e alle loro direzioni marketing gli strumenti per creare storytelling creativi, in grado di ingaggiare la community di TikTok con il loro messaggio”, si legge nel comunicato di presentazione sul blog.

La creatività a portata di brand su TikTok

Negli ultimi anni, i brand che sono entrati con più successo in sintonia con la community TikTok ci sono riusciti non perché le loro campagne presentassero lo spot più patinato o il testimonial più famoso, ma grazie alla capacità di coinvolgere gli utenti in modo creativo e di creare una connessione con loro attraverso emozioni, azioni e suoni.

LEGGI ANCHE: 5 testate giornalistiche che usano TikTok per aumentare la propria audience

Oggi con TikTok For Business gli uffici marketing avranno a disposizione nuovi strumenti per farsi scoprire e connettersi con le community.

Tra gli obiettivi che sarà possibile raggiungere:

  • Crescita oltre che creatività: per il marketing, oltre che una destinazione imperdibile, TikTok è anche una piattaforma con un potenziale di crescita da valorizzare, basata sull’intrattenimento, che offre sia agli utenti sia ai brand gli strumenti giusti per raccontare la loro storia.
  • Vista, suono, movimento: con TikTok, il marketing può sfruttare il contesto dei dispositivi mobili, a cominciare dai suoni. E le opportunità di utilizzarli sono molte: musica, effetti sonori, playback, reazioni e molto altro.
  • Una community inclusiva e partecipe: la ragion d’essere di TikTok è “stare insieme”. Un’opportunità originale per gli esperti di marketing di creare qualcosa che diventa parte della nostra community. Su TikTok, le persone possono farsi coinvolgere e ispirare così tanto da una campagna di marketing da crearne una loro versione. E i brand possono sperimentare dal vivo l’impatto della loro campagna sulle persone.
  • Conoscenza e cultura per tutti: TikTok è una piattaforma aperta, dove può farsi scoprire chiunque, e qualunque brand. Su TikTok si conoscono cose nuove ogni giorno, in modo aperto e inclusivo.
  • Soluzioni semplici e senza intoppi: i prodotti di TikTok portano risultati su tutti i marketing touchpoint e consentono uno storytelling ricco e immersivo. Video impeccabili, a tutto schermo, video nativi nell’esperienza dell’utente. Lavorando con molte terze parti leader del settore, stanno inoltre sviluppando una suite di soluzioni di misurazione. Il più recente effetto di realtà aumentata per i brand, Branded Scan, è un nuovo prodotto che consente agli utenti di vivere un’esperienza di realtà aumentata con qualsiasi brand.

testate giornalistiche tiktok

Non annunci, ma TikToks

TikTok è una piattaforma progettata per ispirare contenuti creativi autentici che si trovano solo su TikTok.

Per i brand, questo apre una finestra di opportunità interamente nuova di creare contenuti che parlano alle persone, invitando la community a unirsi alla conversazione e “a fare un TikTok”.

Con il lancio di TikTok For Business, l’azienda vuole coniugare la creatività e la positività della community con soluzioni pensate per le aziende in modo che crescano insieme.

Sulla piattaforma è oggi possibile trovare e conoscere soluzioni, strumenti di misurazione e metriche, post di ispirazione, risorse e notizie utili per i brand.

Educazione futura

Educazione e formazione: è il momento di costruire il futuro

 

  • L’anno in corso potrebbe segnare l’inizio di una rivoluzione per il mondo della formazione 
  • Verso un modello ibrido di educazione: non per forza a distanza ma sicuramente connesso
  • Potrebbe nascere una nuova economia dell’educazione, flessibile e dinamica

a cura di Thomas Ducato

“Per costruire la scuola del futuro non bastano nuovi strumenti, serve una visione”. Titolava così un articolo a firma di Impactscool pubblicato qui, sulle pagine online di Ninja Marketing, in tempi non sospetti, nel novembre del 2019,  prima dell’emergenza Covid-19 e di lunghi mesi di lockdown, distanziamento sociale e DAD, acronimo di didattica a distanza.

Una rivoluzione, quella della scuola digitale, che sembrava lenta e lontana dal concretizzarsi e che invece, nel giro di qualche settimana, si è trasformata in una realtà inevitabile per milioni di studenti e per tutti i loro insegnanti.
Dalle lavagne alle video lezioni, dai libri ai materiali in pdf, dai compiti in classe alle interrogazioni attraverso uno schermo: i docenti di ogni ordine e grado si sono trovati, per via della pressante necessità, a dover trasformare la propria attività non sempre con una conoscenza integrata e completa sulla didattica digitale, così come senza sufficienti competenze per usare e scegliere strumenti efficaci e affidabili.
Un esperimento la cui riuscita è difficile da giudicare, troppo soggetta alle molteplici differenze che un sistema così complesso e articolato come quello scolastico ed educativo può presentare.

Ma cosa resterà di questo enorme esperimento a settembre quando, così sembra, la scuola tornerà ad essere anche un luogo in cui recarsi e non “solo” un’attività fatta di relazioni e connessioni vissute fisicamente distanti?

Se sapremo cogliere le opportunità e imparare dalla nostra esperienza degli ultimi mesi, l’anno scolastico 2019-2020 potrebbe segnare l’inizio di una rivoluzione per tutto il mondo della formazione, non solo quella dei giovani. Da un lato non dobbiamo perdere l’occasione, dall’altro però è importante che nessuno resti indietro.

 

Rivedere l’insegnamento: verso un modello ibrido

L’incontro tra tecnologia ed educazione viene spesso definito con il termine Education Technology, o EdTech.

Questo approccio non prevede solo l’insegnamento di materie tecnologiche ma anche l’introduzione di strumenti che favoriscano l’apprendimento. Non necessariamente una didattica a distanza, dunque, ma la possibilità di sfruttare le opportunità offerte dalla tecnologia per migliorare l’insegnamento e offrire un servizio migliore agli studenti.

L’esperienza degli ultimi mesi, in questo frangente, potrebbe essere preziosa, perché ha costretto migliaia di docenti ad esplorare un nuovo modo di fare scuola anche attraverso questi sistemi digitali, che offrono nuove opportunità di collaborazione, co-creazione e progettazione.
Un tema, questo, molto caro anche a Cristina Pozzi, Ceo e Co-founder di Impactscool. “La scuola del futuro – ha dichiarato in una recente intervista – è liberamente partecipativa, aperta e situata a livello locale nel proprio contesto, ma anche in quello planetario. In un termine che va di moda possiamo dire che è “glocal”, una globalizzazione più matura, consapevole delle particolarità degli elementi che la costituiscono e in grado di creare rapporti virtuosi tra di esse”.

Una scuola che, indipendentemente dal fatto che sia a distanza o in presenza, dovrà adattarsi al suo contesto di riferimento ed essere (inter)connessa. “Qualunque sia la distanza fisica staremo insieme – spiega Pozzi – Gli strumenti digitali amplificano e massimizzano la capacità di collaborare. Credo nel mix tra le due cose: off line e on line. Possiamo usare gli strumenti digitali anche seduti uno a fianco all’altro e ottenerne grandi vantaggi se li utilizziamo al meglio.  L’allenamento fatto con la didattica a distanza potrebbe spingerci a velocizzare l’introduzione di giochi e metodi collaborativi che migliorano l’apprendimento (anche in presenza), nonché l’attenzione dei ragazzi, la motivazione e l’interesse”.

 

Imparare è un gioco da ragazzi (e non solo)

Il cuore della rivoluzione risiede proprio nelle metodologie didattiche, che devono adattarsi alle nuove esigenze di un pubblico, quello degli studenti, sempre più condizionato da una grande varietà di stimoli. Il mondo dell’intrattenimento, dai giochi al cinema e serie TV, rappresenta un settore importante da esplorare e sfruttare per avvicinare le nuove generazioni a cultura e apprendimento.

Ne abbiamo parlato con Massimiliano Tarantino, direttore della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli e responsabile della comunicazione istituzionale del gruppo Feltrinelli.
“La cultura – ci ha detto – deve reinventarsi per continuare ad aggiornare la sua utilità”. Non tutti, però, sono dello stesso avviso. “Nel mondo culturale – ha proseguito – c’è chi tende a derubricare il mondo delle serie TV, dei canali a pagamento, del mondo dei videogiochi o del gaming in generale come veicolo di cultura e di contenuto. Io credo siano strumenti straordinari e grandi opportunità di lavoro per tutti i soggetti coinvolti. Farsi una cultura, ottenere una laurea, avere un percorso serio, organico e solido nei campi delle science o delle humanities e poi trasformali in prodotti dell’entertainment, traducendo e trasformando i linguaggi con i quali entriamo in contatto con i pubblici, è il vero futuro dell’editoria. Significa conoscere e scegliere contenuto e avere il know how per padroneggiare le tecniche che ci consentano di trasformare questo contenuto in un prodotto in grado di garantire ingaggio di pubblico”.

Strumenti e metodi, questi, che possono essere particolarmente efficaci anche nei contesti aziendali o, in generale, per un pubblico adulto e che ben si sposano con la necessità di formazione continua che si sta delineando nel mondo del lavoro.

 

Reskilling e formazione continua: come impareranno i “grandi”?

Secondo le stime dell’OCSE, più di 1 miliardo di posti di lavoro, quasi un terzo del totale globale, saranno trasformati dalla tecnologia nel prossimo decennio. Il World Economic Forum stima che entro il 2022 saranno creati 133 milioni di nuovi posti di lavoro nelle principali economie per soddisfare le esigenze della quarta rivoluzione industriale. Due dati che esprimono in modo chiaro la necessità da parte dei lavoratori di aggiornare le proprie conoscenze e competenze, in quello che in inglese viene definito Reskilling e che si concretizza attraverso una formazione continua da parte dell’individuo nel corso della sua vita.

Come far convivere, però, questa formazione con il lavoro e la vita personale?

La strada da percorrere è quella di un’educazione sempre più flessibile e su misura, in grado di adattarsi alle esigenze di apprendimento e di tempo dei singoli individui.

 

Verso una gig economy della formazione?

Abbiamo conosciuto il termine gig economy con i fattorini della consegna a domicilio o gli autisti di servizi come Uber. Si tratta di una delle nuove forme di lavoro, gestito da piattaforme digitali attraverso l’attività di freelance. Un modello che si è imposto per attività ripetibili, standardizzate, facilmente controllabili e misurabili, mentre fatica a farsi largo, nonostante i costi molto più bassi, in altri ambienti e contesti come il mondo della conoscenza. Ma oggi qualcosa potrebbe cambiare, non grazie a una nuova tecnologia ma per il cambio di paradigma imposto dalla pandemia. Un modello, quella della gig economy del sapere, che sembra difficile possa applicarsi in modo trasversale al mondo accademico o della formazione tradizionale, ma la cui flessibilità ben si sposa con le necessità di formazione extracurricolare degli studenti (come per le ripetizioni), lo studio delle lingue, l’aggiornamento professionale o di competenze dei dipendenti.

 

Educazione e formazione del futuro devono iniziare da oggi

Siamo di fronte a un passaggio epocale: ci sarà un “prima” e un “dopo” Covid-19 ed è il momento perfetto per iniziare a costruire il futuro. Questi mesi ci lasciano un’eredità, che è importante custodire e utilizzare per porre solide basi alla realtà che vogliamo creare. Il mondo dell’educazione non fa eccezione in questo senso.

Dobbiamo capire cosa ha funzionato della didattica a distanza, ma soprattutto gli errori commessi e da non ripetere: le scelte che prendiamo da oggi devono essere funzionali alla costruzione del sistema educativo che verrà. “La scuola del futuro non sarà già attiva a settembre, ma con una visione chiara nel lungo termine, ogni azione e cambiamento che faremo sarà un passo verso la sua realizzazione”, ha concluso Cristina Pozzi.

Alcune sfide, come abbiamo visto, sono sul fronte didattico e metodologico, altre, invece, sul piano tecnico e di infrastruttura: l’obiettivo imprescindibile è quello di garantire l’accesso alla formazione, da un lato supportando le famiglie per la dotazione di pc e tablet, dall’altra costruendo un’infrastruttura di banda ultralarga che porti la rete veloce su tutto il territorio nazionale, offrendo così a tutti gli studenti quella connettività base che rischia altrimenti di diventare discriminatoria.

La formazione del futuro inizia oggi.

promozione organica

Promozione organica e annunci: una nuova frontiera budget-free

  • Il rapporto fornitore-compratore può avere radici più salde utilizzando strategie e annunci meno aggressivi.
  • Il remarketing anche se non è spam, in alcuni casi, ottiene l’effetto opposto a quello desiderato.

 

Ci ritroviamo a chiedercelo sempre più spesso: è davvero finito il tempo degli annunci? Anche le ads sponsorizzate possono apparire superate, e forse stanno perdendo colpi. Perché? Il motivo è semplice: spesso, i famosi “post/annunci sponsorizzati” risultano più utili nella fase iniziale delle varie offerte, prodotti o progetti. Così il collante tra il pre-lancio e il post-lancio potrebbe non essere più costituito dalle ads, anche se profumatamente pagate. O più semplicemente gli annunci vengono a volte costruiti in modo troppo artefatto rispetto a quanto faremmo nell’organico.

Infatti, in alcuni casi la retention di un cliente può essere più preziosa della sua acquisizione o del continuo remarketing su cold e warm leads.

Non possiamo formulare ipotesi certe, tuttavia, per approfondire i dati dell’andamento complessivo del mercato pubblicitario, è possibile approfondire consultando anche il report Nielsen.

promozione organica

Anche le ads possono fallire

Non sempre le ads (e relative strategie correttive) portano dove vuole l’inserzionista. La prova sta nel fatto che oggi, spesso, quando il cliente commissiona una sponsorizzata, pur affidandosi a un professionista di fiducia, tenderà quasi sempre a chiedersi: “Piacerà davvero? Funzionerà, o avrò solo bruciato i miei soldi?”.

Spesso si ragiona sulla necessità di attivare o meno ads per determinate categorie merceologiche. Potremmo anche arrischiarci in una considerazione che, nei prossimi anni, potrebbe non apparire così irrealistica. Infatti la promozione di offerte, iniziative e servizi diffusa in modo “naturale”, ad esempio attraverso i canali di comunicazione più semplici stories, stati di WhatsApp, social post  può rendere il marketing meno invasivo e forse anche più piacevole, quasi come un passaparola.

La relazione tra due persone che si conoscono e comunicano costantemente ha radici più salde di un semplice rapporto fornitore-compratore. Ad esempio, se oggi scegliamo un servizio in cloud e acquistiamo uno spazio, ma poi questo servizio si rivela inefficace, il contratto con il fornitore viene rapidamente sostituito con quello di un altro che, magari, propone lo stesso servizio con un quid che risponde di più alle nostre esigenze.

E questo potrebbe portare risultati a lungo termine molto più saldi, a patto ovviamente di non spammare e di non esagerare con la necessità di comunicare troppo, con tante informazioni diverse o martellanti, neppure quando si avverte la forte tentazione di farlo. Un po’ come quando si riceve l’invito a un appuntamento: “Allora, ci sei? Verrai? Quanti siete?“. Se sostituiamo il concetto di “appuntamento” con “prodotto da vendere”, il risultato non cambia.

LEGGI ANCHE: Primi passi con Facebook Creator Studio: cosa puoi fare e come usarlo

promozione organica

Promozione? Sì, anche senza ads

La promozione libera da sponsorizzate diventa, per così dire, una “promozione organica“.

Facciamo un altro esempio: se sponsorizziamo un contenuto con remarketing annesso, chi ha l’occhio allenato anche un semplice cliente che acquista spesso determinati prodotti potrebbe osservarlo da un punto di vista negativo, a prescindere dall’interesse suscitato: “Ah, è solo una sponsorizzata“. Questo vale, ad esempio, per i consulenti che vendono corsi di vario genere che sembrano tutti poco riconoscibili e tutti uguali, e guarda caso sono usciti sul mercato da poco.

Invece, se diffondiamo una promozione con post e stories semplici, o la condividiamo attraverso strumenti comunemente utilizzati, purché con frequenza non troppo elevata, sarà meno aggressiva per chi già conosce la persona che diffonde le informazioni su un prodotto o servizio, e quasi simpatica a chi vuole approfondire – senza troppe pretese – quel contenuto che richiama la sua attenzione.

Promozione organica

Supporto spontaneo

Un altro risvolto interessante è che i contenuti diffusi da una fonte già nota possono essere citati, taggati, ricondivisi da chi li ha davvero apprezzati. E senza folli esborsi di budget. Se il contenuto vale, la “customer advocacy” viene sostituita da una fioritura spontanea di relazioni da coltivare. Un po’ come avveniva nelle antiche botteghe delle nostre città, dove i mercanti e gli artigiani stabilivano un rapporto diretto con gli acquirenti.

La perfezione stanca, eppure la promozione free-budget prospera anche in tempi bui. E appare meno artefatta, forse più interessante a chi viene “bombardato” ogni giorno dai competitor di una stessa nicchia di mercato che si contendono la sua attenzione stalkerando, di fatto, i suoi interessi.

Potrà esistere un nuovo metodo di “promozione organica”? E se sì, con quali limiti, condizioni e vantaggi? Per il momento non possiamo saperlo con certezza, anche se è innegabile come, finora, e forse anche in ragione della pandemia, le ads abbiano rivestito una considerevole importanza per le imprese.

Spotify e la crescita dei Podcast

Con 12,1 milioni di ascoltatori, il podcast è il nuovo strumento preferito dai brand

  • Gli ascoltatori di podcast sono cresciuti del 16% e di quasi 2 milioni  rispetto al 2018.
  • In particolare, quando parliamo di branded podcast, l’81% degli ascoltatori  al termine dell’audio compie un’azione verso il brand.

 

Il mercato dei podcast rappresenta anche in Italia un settore in forte crescita: nel 2019 gli ascoltatori di podcast sono stati 12,1 milioni con un incremento del 16% e di quasi 2 milioni di persone rispetto al 2018 (10,3 milioni). Una spinta alla fruizione di questo nuovo mezzo di comunicazione è data anche dalla diffusione degli smart speaker che rendono l’ambiente domestico il luogo privilegiato in cui ascoltare podcast (71%).

Proprio per questo motivo gli investimenti e l’interesse da parte delle aziende su questo medium è in forte crescita in Italia e il 2019 ha visto la nascita di startup innovative come VOIS (Ex Fortune Podcast) dedicate alla creazione di contenuti podcast esclusivamente per brand.

A raccontare questo nuovo universo è proprio Francesco Tassi, CEO di VOIS.

branded podcast francesco tassi vois

L’ascolto che attiva

Un po’ come la radio, è diventata consuetudine ascoltare i podcast mentre si svolgono altre attività, dallo sport alla guida fino alle faccende domestiche: una predisposizione al multitasking che ben si sposa con una delle caratteristiche peculiari della società contemporanea.

Ma se l’essere multitasking potrebbe presupporre un ascolto distratto o, ancora peggio, passivo, i dati, in realtà provano il contrario. È dimostrato infatti che l’81% degli ascoltatori di podcast al termine dell’audio compie un’azione verso il brand, che può essere cercare un prodotto online, connettersi con il brand sui social media oppure parlare del podcast e, quindi, del brand ad altre persone.

In un report dal titolo “Audio: Activated”, realizzato da BBC Global News e basato su alcune interviste realizzate a 2448 persone in 10 differenti mercati mondiali, emerge il fatto che, dal momento che la maggior parte degli ascoltatori consumano i podcast mentre sono impegnati in altre attività, invece di essere distratti da questa modalità di ascolto tendono ad avere dei punteggi più alti sia per quanto riguarda l’engagement (+18%), l’intensità emotiva (+40%) e la memoria a lungo termine del podcast (+22%).

Molto spesso poi gli ascoltatori, poi condividono ciò che hanno appena ascoltato sui propri social media, tra cui Facebook, Instagram e LinkedIn.

Compiere un’azione, quell’obiettivo tanto cercato nelle strategie di marketing dei brand, sembra finalmente trovare nel podcast il giusto supporto e nei suoi ascoltatori i destinatari privilegiati delle attività di comunicazione e di marketing.

LEGGI ANCHE: Gli italiani si scoprono podcaster durante il lockdown

branded podcast

Ascolto, quindi ricordo con il branded podcast

Gli ascoltatori di branded podcast tendono inoltre a creare delle associazioni subconscie con il brand, in base alle parole che ascoltano nel podcast. In un test effettuato, per esempio, la parola “innovativo” ricorreva ben 12 volte durante l’episodio di un podcast. Questa ricorrenza induceva, conseguentemente, l’ascoltatore ad associare la parola “innovativo” al brand del podcast, trasferendo il messaggio del contenuto audio ai valori del brand stesso.

Quello dei podcast è quindi un pubblico giovane (in media 35 anni), responsabile e consapevole nelle proprie scelte d’acquisto, ma anche “onnivoro” e propenso a consumare differenti tipologie di contenuti digitali, permettendo quindi ai brand di attuare delle strategie su larga scala e su più canali media.

branded podcast

Il 64% degli utenti afferma inoltre di aver ascoltato messaggi pubblicitari durante il podcast e di ricordarseli anche a distanza di tempo. Per quale motivo?

È soprattutto il clima di intimità e autenticità del branded podcast, che non viene percepito come pubblicità invasiva o, ancor peggio, interruttiva da parte degli ascoltatori, quello che più piace e più cattura l’attenzione degli ascoltatori e sui cui le aziende devono lavorare per affermarsi nell’immaginario collettivo delle persone.

Oggi, infatti, le persone hanno la necessità di conoscere i valori del brand attraverso messaggi che abbiano uno stile più narrativo e meno orientato alla vendita diretta.

Per farlo, l’arma più efficace che i brand hanno a disposizione è lo storytelling, attraverso il quale è possibile creare una connessione profonda con l’ascoltatore ed evocare situazioni che fanno parte anche della sua vita: questo è uno strumento potentissimo in grado di innescare un meccanismo emotivo che avvicina tantissimo il brand al suo pubblico.

Farlo poi attraverso l’audio significa innescare quel processo creativo che stimola ancora di più il suo immaginario, rendendolo parte attiva della storia e rafforzando ancora di più il legame.

Il podcast rappresenta dunque un grande nuovo mercato per le aziende e le piattaforme di distribuzione, come Spotify e Apple iTunes, ormai fungono da vetrine verso utenti stimati in milioni di persone nel mondo. Siamo solo agli inizi di questa nuova era, ma gli sviluppi sono molto promettenti.

Creator Studio

Primi passi con Facebook Creator Studio: cosa puoi fare e come usarlo

  • Gestire i nostri contenuti sia per Facebook che per Instagram da un unico strumenti ci semplifica il lavoro e finalmente è possibile.
  • Ci aspettiamo questo strumento si evolva ancora, per diventare sempre più completo. Scopriamo come usarlo al meglio.

 

Arrivato un po’ in sordina, Facebook ha rilasciato Creator Studio nell’estate 2018. Si tratta di uno strumento di cui ormai ogni Social Media Manager non può fare a meno perché permette di gestire i contenuti delle pagine Facebook e ora anche di Instagram, in un’unica interfaccia.

Se infatti prima bisognava per forza ricorrere a strumenti esterni per la programmazione e la gestione degli account, ora Facebook semplifica sempre di più le attività con questo tool unico.

Non può ancora competere con altri software di social media management più approfonditi, ma è sicuramente prezioso per chi non ha un abbonamento con altri strumenti e ha bisogno di gestire i proprio account semplificandosi la vita con un’unica piattaforma fornita gratuitamente e che ha l’altro indiscusso vantaggio di restituirci metriche e dati di prima mano.

Ti sarai accorto che quando entri negli strumenti di programmazione della pagina Facebook ti viene suggerito di provare Creator Studio. E allora via, proviamo!

creator_studio

Chiunque gestisca la pagina può accedervi anche da questo link da desktop.

Una volta entrati, sulla base del ruolo della pagina, è possibile vedere determinate informazioni ed eseguire azioni.

Per capirci meglio la tabella di seguito riporta un riassunto:

LEGGI ANCHE: Come aumentare la reach organica sui canali social

Gestire Facebook ed Instagram in uno strumento unico

In alto sulla barra blu troviamo la possibilità di scegliere tra Facebook e Instagram.

Per poter visualizzare il nostro account Instagram business dovremo allacciarlo. Innanzitutto, dovremo aver collegato l’account Instagram alla Pagina Facebook.

Questa è la vera funzionalità che tutti i Social Media Manager attendevano: poter programmare e gestire anche Instagram!

Possiamo infatti pubblicare i nostri contenuti sia sul feed di Instagram che in IGTV.

Subito sotto abbiamo un menù a tendina che ci permette di selezionare quale pagina Facebook o account Instagram vogliamo visualizzare. Fin qui tutto molto intuitivo.

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Le funzioni di Creator Studio

Ora andiamo per ordine e vediamo cosa possiamo fare con Creator Studio.

Pubblicazione

La prima schermata che ci si presenta è la home con la possibilità di creare post in alto a sinistra: caricare, scrivere e pubblicare contenuti.

Possiamo pubblicare un post, una storia, un video, anche trasmettere una diretta. Sempre nella home abbiamo una prima panoramica di dati statistici.

creator studio

Ricerca e monitoraggio

Possiamo poi gestire i contenuti attraverso la funzione ‘Libreria Contenuti’: vedremo la lista completa dei post pubblicati, programmati, delle bozze, dei post scaduti e in scadenza. Grazie ai filtri e alla funzione cerca, possiamo anche ricercarli e selezionarli.

Sempre nella libreria contenuti abbiamo accesso ad alcuni dati statistici sulle Stories, possiamo gestire le playlist dei video e sono in arrivo altre funzioni.

Subito sotto troviamo la sezione dedicata ai dati statistici ,dove al momento è possibile vedere le prestazioni dei video e delle stories.

Moderare e rispondere a commenti e messaggi

Arriviamo alla posta: in questa sezione abbiamo l’opportunità di moderare commenti e messaggi, anche i Direct di Instagram. Si possono anche modificare le risposte automatiche, molto utili per evitare che ad un messaggio non risposto, corrisponda una perdita di reattività della tua Pagina.

Monetizzazione

E ancora ci sono tante altre tab nel Creator Studio. In ‘Monetizzazione’ puoi vedere se la tua pagina è idonea a monetizzare e quindi ricavare guadagno su Facebook.

Nel caso ti interessi, puoi configurare questa funzione. Inoltre, trovi una dashboard per le dirette e hai tutta la raccolta degli audio da utilizzare nei tuoi post e puoi gestire le risorse collegate alla pagina.

Siamo giunti al termine di questa panoramica. Ora hai tutti gli strumenti che servono per gestire i tuoi contenuti su Instagram e Facebook, senza dover ricorrere ad altri software esterni, comodo no?

Confidiamo sul fatto che Creator Studio potrebbe evolversi e sicuramente regalarci nuove funzionalità per diventare ancora più completo.

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La guerra di Apple sulla privacy dal WWDC 2020

  • Alla WWDC 2020 Apple ha fatto vari annunci interessanti, tra cui spiccano quelli in tema di privacy.
  • I principali combattimenti di questa “guerra” si svolgeranno su estensioni, cookies e app.
  • Insieme ad altri recenti avvenimenti, le scelte di Apple in fatto di privacy sembrano preludere a un possibile cambio di rotta obbligato nel settore.

 

Si sa, Apple ogni anno delizia i suoi appassionati con qualche novità durante il WWDC. Dalle più grandi innovazioni della Mela Morsicata ai più piccoli aggiornamenti dei suoi iconici prodotti e servizi, questo è l’evento durante il quale tutto viene svelato. E anche quest’anno non è stato da meno.

L’evento aveva già iniziato a far parlare di sé per due principali motivi: perché sarebbe stato per la prima volta interamente online e della durata di una settimana; e per il vociferato divorzio da Intel in favore di processori ARM personalizzati.

Ma tra piccoli miglioramenti e lievi novità, c’è un’altra piccola bomba che l’azienda di Cupertino ha sganciato e che è passata un po’ più in sordina.

LEGGI ANCHE: Ecco cosa ha annunciato ieri Apple durante la WWDC

wwdc privacy apple

Apple e la Privacy: una lunga storia d’amore

Sì perché Apple sta iniziando a tirare fuori gli artigli per quanto riguarda un argomento dove praticamente non ha rivali, ovvero la Privacy.

Al contrario della maggior parte delle altre Big del tech, ha fatto del suo cavallo di battaglia la scelta di non fare business con i dati degli utenti.

Aziende come Google ci hanno abituato ad avere tutto “gratis”, ma questa assenza di scambio di denaro si trasforma semplicemente in una diversa modalità per monetizzare, ovvero attraverso i nostri dati, che vengono ceduti sotto forma di informazioni aggregate agli inserzionisti per fare un marketing maggiormente personalizzato.

La scelta di Apple è sempre stata invece quella di vendere solo hardware e software, spesso e volentieri anche a caro prezzo, ma garantendo che, a detta loro, la nostra privacy è tutelata.

Già da tempo Apple ci aveva abituati a questa direzione, ad esempio per il TouchID e il FaceID adotta un chip dedicato per l’autenticazione dell’utente che Apple garantisce essere totalmente protetto.

Addirittura ci dice che a tali informazioni non può accedere neanche il sistema operativo, né tantomeno app esterne; inoltre tali dati non vengono mai caricati sul Cloud.

Apple ha persino reso sicuro l’utilizzo di applicazioni in Cloud come Siri: infatti ogni volta che facciamo una richiesta all’assistente virtuale, la richiesta arriva al server con una chiave identificativa generata casualmente, per fare in modo che le nostre richieste non vengano in nessun modo associate con il nostro dispositivo o con la persona che le ha fatte.

Android viceversa, essendo un sistema operativo molto più aperto e modificabile, può in linea teorica presentare maggiori problemi di sicurezza; dal momento che spesso gli forniamo tutte le nostre informazioni più importanti, come le nostre impronte digitali, ecco che si comprende facilmente perché qualcuno come Apple scateni una vera e propria guerra sul tema della privacy.

WWDC apple 2020

Ma cosa ha annunciato Apple alla WWDC 2020 di così interessante per continuare la sua battaglia?

Ebbene, con l’arrivo del nuovo macOS arriverà anche un aggiornamento di Safari con tante novità legate alla privacy, tra le più importanti quelle sulle estensioni e i cookies.

Gli annunci sulla privacy del nuovo MacOS alla Worldwide Developer Conference 2020

Tante le piccole, grandi novità per tutelare i dati degli utenti Apple, che in maniera nemmeno troppo velata “attacca” direttamente i suoi competitor meno sensibili a questo argomento.

La possibilità di condividere dati relativi alla posizione approssimati invece che precisi; notifiche nella barra di stato se un’applicazione dovesse far uso della fotocamera o del microfono; l’elaborazione dei dati quanto più possibile nel dispositivo, invece che nel Cloud o inviandole a terzi.

Ma tra le novità più sostanziali, e che avranno un maggiore impatto sugli stakeholders allargati di Apple, ci sono soprattutto quelle legate a Safari e all’Apple Store.

Le estensioni nel nuovo Safari

Nei browser attuali, per esempio Chrome, possiamo accedere ad una vastità di estensioni per “ampliare” e personalizzare la nostra esperienza di navigazione, per la maggior parte gratuite.

Ma quale può essere il problema legato a queste “aggiunte“? Che una volta che un’estensione viene installata, può accedere a tutte le pagine su cui navighiamo in maniera indiscriminata, e questo potrebbe essere un rischio soprattutto se scegliamo estensioni non sicure e poi inseriamo dati sensibili da qualche parte.

Apple ha deciso di tagliare la testa al toro dando all’utente la possibilità di decidere a quali pagine una data estensione può accedere e per quanto tempo.

Ora quindi le estensioni sui dispositivi Apple saranno molto più limitate e starà a noi utenti decidere come e quando utilizzarle.

I Cookie di Safari

Altro grande “nemico” di Apple, la Mela aveva già dichiarato guerra ai cookies: quest’anno aveva introdotto il “Safari Intelligent Tracking Prevention”, ovvero un meccanismo che rende molto più difficile ai cookies tenere traccia di cosa visita l’utente.

In questo modo, quando cerchi una lavatrice da comprare, Apple voleva evitare che ti trovassi circondato di pubblicità di lavatrici per i successivi 10 giorni.

Con l’ultimo aggiornamento Apple ha deciso di mettere ancora di più sotto i riflettori i cookie.

Infatti, ha introdotto un nuovo pulsante che ti permette di vedere quali di essi sono stati bloccati in una data pagina.

E visto che Apple sembra bloccare in maniera indiscriminata la maggior parte dei cookies, compresi quelli di Google Analytics, questo potrebbe rivelarsi un problema crescente per tutte quelle aziende che li utilizzano per la pubblicità tracciando il comportamento dell’utente;

ma anche e soprattutto per Google stesso, che vede ridotta la propria “affidabilità” agli occhi degli inserzionisti.

Apple store e privacy

Apple non ci va leggera neanche con le app, e gli sviluppatori staranno sudando freddo in questi giorni che seguono gli annunci da Cupertino. Infatti adesso tutte le App pubblicate sullo Store dovranno avere una Privacy Policy molto chiara e rispettare regole ferree.

Queste informazioni tra l’altro dovranno essere messe ben in evidenza per gli utenti: per farlo, al momento del download verrà mostrata una sorta di “tabella nutrizionale” che contiene un accurato elenco di ciò a cui l’app avrà accesso una volta installata.

app apple privacy wwdc 2020

Ma non solo, Apple imporrà anche agli sviluppatori ad integrare nelle app il “Sign In With Apple, modalità di registrazione che, a differenza degli altri servizi di Login come Google o Facebook, non permette di catturare gli indirizzi e-mail degli utenti o altri dati.

Insomma, chi sviluppa app si dovrà adeguare alle nuove regole di Apple per la privacy degli utenti.

Marco Mignano di Rough Code Studio commenta: La pubblicazione di app sullo store di Apple è sempre più rigida, gli standard sono alti, non solo l’app deve avere certi standard di qualità e performance, ma ora l’attenzione sulla privacy si fa sempre più pressante; per questo noi sviluppatori dovremo fare molta attenzione alle scelte fatte in fase di progettazione, pena la non pubblicazione sullo store di Apple.

LEGGI ANCHE: Privacy: le future possibilità di Facebook che potrebbero spaventarti

Chi vincerà la guerra per la privacy? E a scapito di chi?

Probabilmente questa è una guerra che Apple ha già vinto in partenza, in quanto l’unica ad aver impostato il suo modello di business non sui dati degli utenti ma sulla sola vendita di hardware e software.

Scelta opposta a quella fatta da concorrenti come Google, che danno tutto gratis, dai motori di ricerca alle mappe, dai documenti online fino addirittura al sistema operativo mobile. A patto però di poter utilizzare i dati che per la pubblicità che poi ci propongono.

Una differenza di forma più che di sostanza? Forse.
Anche se oggi sempre più persone si mostrano sensibili al problema della privacy, come ha dimostrato il caso dell’app Immuni: molte persone hanno addirittura finito per annunciare su Facebook (paradossalmente) la scelta di non utilizzarla a causa di dubbi legati all’uso dei dati.

Ma quello della privacy, oltre ai motivi visti sopra legati alla sicurezza, è un tema caldo perché effettivamente garantisce la supremazia e il “monopolio” dei giganti del web, che in pratica mettono una barriera di prezzo all’ingresso enorme per qualunque altro competitor che voglia provare a fare loro concorrenza.

Ma forse c’è qualcosa di più: con sconcertante tempismo, infatti, il 18 giugno il Parlamento Europeo ha votato a grande maggioranza un provvedimento che vieta la pubblicità personalizzata su internet, ovvero la principale merce di scambio per i dati degli utenti online.

Insieme alle scelte di Apple per il futuro, e alla famosa e dibattuta frase pronunciata da Mark Zuckerberg ormai più di un anno fa, “the future is private, sembra che i paradigmi della tecnologia e del marketing siano pronti a ricevere una bella scossa…sarà forse l’anno del cambiamento, anche su questo fronte?

google pubblicità mobile

Cosa accadrà quando Google inizierà a bloccare gli annunci che consumano la batteria

  • Dopo un secondo semestre in calo per gli annunci di ricerca, Chrome si prepara a introdurre nuovi standard sia per il formato desktop sia per quello mobile.
  • L’obiettivo è limitare quelli che richiedono molta energia della batteria o dati di rete da parte degli utenti e migliorare la loro esperienza di navigazione.

 

Come tutte le crisi, anche per Google l’emergenza degli ultimi tre mesi è stato argomento di riflessione.

Dopo un inizio anno di ottimi risultati sul fronte pubblicitario, nel mese di marzo l’azienda ha perso circa il 7% degli inserzionisti del settore viaggi, ristorazione e intrattenimento. In particolare, sul web.

Come chiarisce eMarketer in un articolo dello scorso aprile:

“La ricerca è un canale pubblicitario lower-funnel, tipicamente orientato a guidare le conversioni – anche all’interno dei negozi – e molte di queste conversioni non possono avvenire in questo momento a causa di quarantene, carenze di inventario e problemi correlati. I budget non sono impegnati in anticipo e possono essere messi in pausa o ritirati in qualsiasi momento”.

Ecco spiegato il perché di questo calo.

Un panorama che ha spinto Google a preparare il terreno per un probabile passo in avanti.

Google blocca la pubblicità su Chrome

L’impatto negativo della pandemia sugli investimenti pubblicitari e l’uso crescente di internet ha messo Google – con il suo motore di ricerca e con il suo browser Chrome – in una posizione forte per supportare i suoi affari e le rinnovate necessità degli utenti.

Dalla ricerca allo shopping, passando per l’apprendimento e il lavoro a distanza: milioni di persone durante il lockdown hanno dimostrato un’elevata dipendenza dai suoi servizi.

Un terreno fertile per Google che ha promesso di bloccare quella pubblicità su Chrome che risulta mal programmata e non è ottimizzata per l’uso della rete.

pubblicita google chrome

LEGGI ANCHE: Google Shopping vs Amazon: il sorpasso?

“Abbiamo recentemente scoperto che una certa percentuale di annunci consuma una quota eccessiva di risorse del dispositivo, come la batteria e i dati di rete, senza che l’utente lo sappia”, ha spiegato l’azienda in un blog post dello scorso maggio.

Questi annunci (come quelli che servono a minare criptovalute, sono mal programmati, o non sono ottimizzati per l’uso della rete) possono prosciugare la durata della batteria, saturare le reti già sovraccariche, e costano soldi ha concluso, preannunciando nuove limitazioni per la pubblicità su Google Chrome.

Il browser, sviluppato per essere veloce e reattivo senza esperienze dannose o fastidiose, limiterà le risorse che un annuncio display può utilizzare prima che l’utente interagisca con esso.

pubblicità su Google Chrome

LEGGI ANCHE: TikTok Ads: come creare il primo annuncio per la tua azienda

Banner, video e altri contenuti promozionali che supereranno i 4 MB di dati rete o 15 secondi, su 30-60 di utilizzo totale della CPU, passeranno a una pagina di errore che segnalerà all’utente l’utilizzo eccessivo delle risorse.

Bloccare la pubblicità su Chrome è un modo per migliorare l’esperienza di navigazione degli utenti.

Ma cosa cambierà?

Il lancio in programma per bloccare la pubblicità su Chrome

Al fine di salvaguardare le batterie e i piani dati degli utenti, la decisione di Google in programma per bloccare la pubblicità su Chrome è oramai certezza.

Al momento, gli annunci che superano la soglia dei 4MB sono solo lo 0,3%, ossia il 27% di quelli che utilizzano i dati di rete e il 28% che impiegano tutta la CPU degli annunci.

L’obiettivo di bloccare la pubblicità su Google Chrome è in programma per la fine di agosto, il tempo giusto per permettere agli addetti ai lavori e ai fornitori di strumenti per preparare e incorporare queste soglie nei loro flussi di lavoro.

Nel complesso? Una scelta pensata per aumentare il valore della navigazione senza incidere negativamente sulle entrate pubblicitarie, ma che potrebbe dare ulteriori indicazioni anche in ottica SEO sul ruolo sempre più fondamentale del mobile e della user experience per il colosso del web.

whatsapp pay

Il Brasile sospende WhatsApp Pay (e i sogni di gloria di Facebook)

Il Brasile, il secondo mercato per importanza per WhatsApp, ha sospeso il servizio di pagamento mobile dell’applicazione di messaggistica istantanea nel paese una settimana dopo il suo lancio.

In una dichiarazione, la banca centrale brasiliana ha dichiarato di aver preso la decisione di “preservare un ambiente competitivo adeguato” nello spazio dei pagamenti mobili e di garantire “il funzionamento di un sistema di pagamento che sia intercambiabile, veloce, sicuro, trasparente, aperto ed economico”.

Le banche del Paese hanno chiesto a Mastercard e Visa, che sono tra i partner di pagamento di WhatsApp in Brasile, di sospendere il trasferimento di denaro sull’applicazione. Il mancato rispetto dell’ordine comporterebbe per le società di pagamento l’applicazione di multe e sanzioni amministrative.

Nella sua dichiarazione, la banca centrale brasiliana ha suggerito di non aver avuto la possibilità di analizzare il servizio di pagamento di WhatsApp prima del suo lancio.

LEGGI ANCHE: Pagamenti digitali: Zuckerberg lancia Facebook Pay. No, non è Libra

whatsapp pay

La battuta di arresto per WhatsApp Pay

L’annuncio di martedì è l’ultima battuta d’arresto per Facebook, che ha iniziato a testare WhatsApp Pay in India due anni fa e non ha ancora ricevuto l’approvazione normativa per espandere il servizio di pagamento a livello nazionale.

Oltre all’India, che è il più grande mercato per l’app, WhatsApp sta testando Pay anche in Messico.

L’azienda ha lanciato il suo servizio di pagamento mobile in Brasile la scorsa settimana. È stata la prima volta che WhatsApp è stata in grado di condurre un rollout del proprio servizio di pagamento a livello nazionale.

Il servizio consente agli utenti di scambiare denaro tra loro e di pagare anche le aziende, senza commissioni per gli utenti nell’invio o nella ricezione di denaro, mentre per le aziende è prevista una commissione di elaborazione del 3,99% per ricevere i pagamenti.

Non è chiaro se WhatsApp, Mastercard e Visa abbiano già recepito l’avviso della banca centrale brasiliana. Il richiamo però costituisce un precedente che il social non può ignorare nei suoi progetti di espansione del servizio.

Starbucks

La roadmap e il mindset per reinventare la tua Customer Experience

  • Siamo entrati nella fase 3: perché nessuno compra?
  • La Customer Experience come asset per fare riemergere il business
  • Tre traiettorie dove orientare gli sforzi di marketing e business

Siamo entrati da qualche settimana nella fase 3, ma aziende e business faticano ad accorgersene. Si chiama ‘Effetto Caverna’ e può essere riassunto così: in queste condizioni e dopo 3 mesi di stanziamento domestico, chi ha più voglia di rimettere la testa fuori casa?

E così, soprattutto in Europa, mentre ci sarebbe gran bisogno di spendere e tornare (con senno e nel rispetto delle regole) a uscire e consumare per fare ripartire l’economia, noi fatichiamo. Se aggiungiamo poi i timori del futuro imminente, il pranzo è servito.

E allora, cosa possiamo fare come marketer, imprenditori, consulenti e business strategist? La risposta finora ha un nome, ho meglio un acronimo: CX, ovvero Customer Experience. Tutto, o almeno la maggior parte, sta lì. Se le crisi sono gravi ma offrono tante opportunità ai pensatori laterali, comprendere per davvero cosa vogliono i consumatori e come deliziare le persone oggi – qualcosa di molto diverso rispetto a 3 mesi fa – è decisivo.

Cosa significa Customer Experience e perché oggi più che mai è decisiva

Partiamo dai fondamentali, ovvero da cosa significa CX.

Per Customer Experience intendiamo le reazioni emotive che i nostri utenti hanno quando entrano in contatto con noi attraverso una comunicazione, un’interazione, un touchpoint, …

Dunque, il focus della CX è sull’output, sul risultato concreto. Da sempre, sulla stessa Customer Experience aleggiano miti e leggende, già in una ricerca di alcuni anni fa, SAS e Harvard Business Review sottolineavano numeri contraddittori:

  • il 53% degli executive intervistati valutava la CX una leva di vantaggio competitivo;
  • di conseguenza, il 45% considerava la gestione della CX una priorità strategica;
  • nonostante tutto, la stessa percentuale (45%) valutava difficile misurarne il ROI.

Oltre a queste statistiche sfidanti, capiamo un altro motivo per cui oggi, rispetto alla CX, è davvero il tempo di passare dal dire al fare. Perché è cambiato tutto!

  1. I consumatori sono sul divano;
  2. Anche se possono muoversi, valutano questa opzione ancora poco conveniente;
  3. Amazon ha scardinato tanti indecisi digitali, facendo capire loro che con 2 soli click possono avere a casa e il giorno dopo (quasi) tutto ciò che serve;
  4. [Potrei continuare con decine di altre motivazioni…]

Una notizia positiva, è che il consumatore comunque non è sparito; come citato nel punto uno, è ‘semplicemente’ a casa e vuole buoni motivi per spostarsi dalla conca del divano che si è comodamente creato in queste settimane di remote working e social distancing. Dopo le settimane dell’empatia digitale, dove tutte le ricerche – in primis, quella di McKinsey legata a come declinare la Customer Experience al tempo del Coronavirus – erano concordi sulla necessità di rimanere digitalmente vicini ai clienti, dobbiamo adesso passare all’azione.

Tre stimoli di Customer Experience a prova di Covid-19

Ne abbiamo sentiti tanti, forse troppi: webinar, consigli, white paper, ricerche più o meno solide contenenti le linee guida per reinventare il dialogo con i customer.

Ma poi, cosa funziona davvero? Da tutto questo mare magnum di stimoli e contenuti, ti riporto tre pensieri su cui consiglio di ragionare e iniziare a lavorare.

Pensa poli-canale, non (più) omni-canale

Ivan OrtenziChief Innovation Evangelist del Gruppo BIP – ha provato a tracciare una nuova architettura dell’esperienza. Tra gli stimoli, uno mi sembra particolarmente efficace: almeno per un po’ di tempo, sarà difficile pensare omni-canale.

Se per anni abbiamo disegnato e progettato con il cliente al centro, semplicemente adesso il cliente al centro non vuole stare. Ha paura, preferisce mettersi di lato o non esserci proprio. Alcuni canali, dunque, saranno molto meno efficaci rispetto a prima: uno tra tutti lo store fisico. Il suo suggerimento è di pensare invece poli-canale, dando la precedenza ad alcuni touch-point rispetto ad altri.

Tieni comunque il mindset omni-canale nel tuo cassetto in ufficio: tornerà, tornerà. ?

Ripensa gli spazi

A proposito di precedenze, è indubbio che gli spazi fisici stanno soffrendo. Già soffrivano in parte prima del Coronavirus, ora fanno proprio fatica a riemergere. Non parlo solo del +400% che ha segnato l’eCommerce nelle ultime settimane: come anticipato le persone hanno paura, temono il contatto diretto, e in generale non vivono una bella esperienza in store con tutta quell’amuchina e quei guanti.

L’ultima trimestrale Inditex – il gruppo di Zara, per intenderci – non lascia spazio a dubbi ed è ben analizzata sul suo blog da Romano Cappellari, Professore di Marketing e Retailing: saranno chiusi nel triennio 1.000-1.200 punti vendita (il 13-16% della rete attuale e il 10-12% della superficie complessiva), ma nonostante queste chiusure la superficie complessiva della rete fisica è destinata a crescere del 2,5% annuo per effetto di 450 nuove aperture. Saranno negozi più grandi, più belli, più sostenibili e in grado di offrire una migliore Customer experience completamente integrata con l’esperienza online.

Già, l’online… non pensare che anche gli spazi digitali non debbano essere rivisitati. Come ho avuto modo di sottolineare in un recente articolo pubblicato sul mio blog, qualsiasi trasformazione digitale deve partire dai disobbedienti. Troppo spesso progettiamo per noi, o anche solo per una personas ‘media’: di ceto medio, di consapevolezza digitale media, e così via. Dobbiamo invece progettare per coloro che di digitale non capiscono molto, che fanno fatica ad avvicinarsi per via delle paure che solo il nome mette. La UI di Amazon è brutta, diciamocelo. Ma funziona benissimo. Pensa a spazi digitali a prova di… chiunque.

Rispetta il cliente

Una banalità, vero?

Quello del(la) cliente al centro è un grande mantra, che ogni tanto si perde in moda o in semplice linguaggio. Basta dire ‘Customer Centricity’ e pouf, ci sentiamo in pace verso il customer: stiamo facendo la cosa giusta, qualunque cosa sia. Tale dinamica ci fa perdere il contatto reale con le persone. Altre volte, il troppo successo ci rende sbruffoni e poco rispettosi, quasi come di così tanti clienti non ne avessimo bisogno. Quante volte abbiamo dovuto fare la fila, al caldo, per entrare in un posto? E quante volte abbiamo avuto a che fare con un front office poco cortese? Tutti abbiamo notato il cambio di orientamento della forza vendita nel post Covid-19: grandi saluti, grandi cerimoniali, grandi sorrisi (nascosti dalla mascherina, ma l’occhio non mente). Il problema, è che questo dovrebbe essere lo standard!

Approfitta di queste settimane per fare formazione di Customer Centricity ai sales assistant e a tutte le persone che si interfacciano giornalmente con gli utenti: è una buona occasione per allacciare i rapporti con clientela nuova, o per riscoprire un ‘pezzo’ di customer base che se ne stava lì, dormiente.

Magari seguendo casi eccellenti come Gucci, che ha nella boutique Gucci Wooster di New York ha sperimentato un nuovo modello di vendita attivando i Gucci Connectors. I visitatori sono infatti accolti da questo gruppo di ambasciatori della marca, il cui scopo sarà quello di coinvolgere i clienti nel brand storytelling. Il loro scopo? Non è solo la vendita, ma piuttosto la creazione di un legame profondo fra Gucci e il cliente.

Il rispetto del(la) cliente passa anche però da tutte le variabili che compongono il prodotto, prezzo compreso. L’economia ci insegna che il rapporto tra il prezzo di un servizio e il suo costo determina il markup che desideriamo ottenere. La riorganizzazione degli spazi, dei servizi e di molto altro che Covid-19 ha reso necessaria ha comportato per tutti investimenti più o meno ingenti, certamente sostanziosi. Diversi giornali hanno riportato una presunta tassa Covid-19 che alcuni commercianti e imprenditori hanno esplicitamente incluso nello scontrino mostrato al cliente finale.

Mi trovo ancora una volta pienamente d’accordo con l’analisi di Romano Cappellari: se certamente le spese ci sono state a discapito dell’efficienza e dei margini, considerare i costi il principale riferimento per determinare il prezzo è sbagliato. Il cliente oggi compra la maggior parte dei prodotti e dei servizi perché vuole sentirsi coccolato, servito, e desidera vivere un’esperienza. Paga volentieri per questo motivo; considera invece implicito che il prezzo copra anche il fatto che vengano adottate tutte le precauzioni e le norme attualmente in vigore per la migliore igiene, qualunque esse siano e qualunque cosa esse comportino.

In effetti, è anche generalmente poco interessato a capire che impatto abbiano tali precauzioni sui costi di chi gli fornisce il servizio. Evita dunque di mostrare la tassa Covid-19 e concentrati al contrario su come incrementare il valore percepito dell’offerta attraverso l’esperienza più opportuna: se il cliente è disposto già a pagare 40 Euro per un servizio completo, forse puoi proporgli un’esperienza ancora più ricca capace di inglobare implicitamente i costi sostenuti? Così facendo, tra l’altro, quando in futuro i protocolli di sicurezza consentiranno di tornare a una maggiore efficienza potrai anche godere di un incremento del markup.