Le più belle pubblicità del Super Bowl dal 1972 al 2018
Manca poco alla finale del campionato NFL 2019, uno dei momenti più importanti anche per l'advertising
18 Gennaio 2019
Domenica 3 febbraio, al Mercedes-Benz Stadium di Atlanta, avrà luogo la 53esima edizione del Super Bowl, la finale di campionato della National Football League. Un evento di portata mondiale che, ogni anno, raccoglie cifre spropositate e tre particolari “cluster” di spettatori: i tifosi delle squadre finaliste, i fanbase delle popstar e ogni pubblicitario del pianeta. Le tre macro categorie sono enunciate in ordine crescente, valutando un attento mix di emozioni tra cui adrenalina, gioia, isteria collettiva e pensieri di autoflagellazione. In questo caso, i tifosi sono quelli che presentano i sintomi meno invasivi: alla fine rimarranno due team e solo uno prevarrà, ma questo si saprà appena pochi giorni prima dell’ora fatale.
Halftime Show: un evento nell’evento
Sei arrivato fino a qui senza chiederti il perché abbia citato le parole fanbase e popostar? Nel caso non lo sapessi, a metà partita si svolge un evento nell’evento: l’Halftime Show. 15 minuti in cui intere carriere di cantanti possono essere distrutte o consacrate. E per loro – i fan – il countdown parte molto prima. Già con i primi venti autunnali si scatenano i rumors, i fanbase si scaldano, incitano, twittano, postano. In quei 15 minuti potranno vedere un’esibizione speciale dei loro beniamini, un mini show (“mini” è solo ed esclusivamente riferito alla durata limitata della performance) in cui, da ormai 30 anni, ci si scatena per concentrare i migliori giochi pirotecnici giocandosi l’opportunità di una vita. Nella storia dell’umanità entrano di diritto gli halftime show di Madonna, cheerleader faraonica, Michael Jackson, il precursore dei grandi effetti speciali, il seno sfuggevole della sorella Janet che in feat. con Justin Timberlake si è riscattata da anni di oblio mediatico, Lady Gaga che si lancia da una paratia, Bruce Springsteen E Street Band, Prince, The Who, U2 e tantissimi altri. Arriviamo quindi al livello estremo di paranoia: i pubblicitari. Perché sì, signori, un evento che catalizza centinaia di milioni di spettatori è la corte suprema di ogni creativo, l’arena in cui combattono come gladiatori alla mercè del pollice alzato o abbassato dall’Imperatore Consumatore. E in questi anni, abbiamo davvero visto il meglio del meglio, solo lì, in pochi secondi che cambiano la storia di brand, agenzie e team.Il Super Bowl in numeri
Per suffragare la mia definizione di “evento di portata mondiale”, vi porto qualche numero. Stando a Forbes, la finale NFL è l‘evento più ricco al mondo, superando di numero i Giochi Olimpici e la Coppa del Mondo di calcio. 110 milioni di spettatori solo negli U.S.A., 50 milioni nel resto del mondo. Senza contare che uno stadio contiene una media di altri 70 mila spettatori profumatamente paganti, che spendono fino a 22.000 dollari (vi assicuro che non ho sbagliato, sono ventiduemila) per un biglietto. Lo scorso anno, 30 secondi di pubblicità sono costati più di 5 milioni di dollari. Il Dipartimento dell’Agricoltura statunitense dichiara che in America si mangia di più solo durante la festa del Ringraziamento: nello specifico, lo scorso anno si parlava di 1,035 milioni di alette di pollo consumate insieme a 14 milioni di patate fritte, tutto annegato in 52 milioni di litri di birra. Il lunedì successivo, il 10% degli impiegati americani chiamerà il suo capo per darsi malato (di questi, almeno il 15% non avrà alcun problema, perché il capo stesso userà la stessa scusa). E se in Italia “di Venere e di Marte non si sposa e non si parte”, in America invece la domenica del Super Bowl è quella in cui statisticamente si celebrano meno matrimoni. Ecco, intendevo questo.Oreo, l’instant marketing come non ce l’hanno insegnato su Facebook
Nell’economia di questo post, e a distanza di 4 anni, doveva trovare posto una piccola digressione sul “Caso Oreo”, la genesi dell’instant marketing. Cosa accadde la notte del 4 febbraio 2013? Al Superdome di New Orleans, durante la partita delle partite, un blackout generale costrinse a sospendere la partita per ben 34 minuti. Ed è proprio in quei 34 minuti che l’instant advertising (che già stava muovendo i suoi primi passi) diventò il protagonista della scena, alle 20.48 della Louisiana, le 3.48 in Italia, con milioni di persone incredule, che si riversarono su Twitter e Facebook per postare la loro frustrazione, sorse Oreo. Con questo post. E se gli altri sborsano almeno 5 milioni per pochi secondi di spazio durante il Super Bowl, Oreo con un tweet – quello giusto e al momento giusto – e 5 minuti di lavoro, ha generato un traffico di 15mila retweet e 20 mila like Facebook nelle 14 ore successive all’evento. LEGGI ANCHE: La differenza tra tattica e strategia nel Content Marketing. ATTENZIONE: Sì, le fonti dichiarano che ci siano voluti solo 5 minuti per concepire e produrre questo post, ma l’agenzia digitale 360i, che in quel momento si occupava del brand, aveva messo in campo un’intera squadra per monitorare ogni singola azione, momento, minima espressione della partita. Questo va sottolineato, sempre nell’ottica di difendere con tutte le mie forze il fatto che niente si possa fare in 5 minuti, nemmeno mettere una firma su un foglio. I 5 minuti di Oreo erano frutto di una strategia mirata, alla quale è venuta incontro, forse, un briciolo di fortuna.Gli Spot che hanno fatto la storia del Super Bowl
Abbiamo parlato dell’evento, delle sue cifre, delle persone che sono sentimentalmente coinvolte. Adesso parliamo dei prodotti, cioè dei migliori spot che hanno debuttato sul campo da football, portandosi a casa la vittoria. Nessuno dovrebbe poterne fare una classifica, sono tutti spot eccelsi in ogni fase, dal concept, al copywriting all’esecuzione. Per questo ho deciso di selezionarne solo alcuni e presentarli in ordine puramente cronologico. Ci sarà da imparare.Coca Cola: “Hilltop”, 1972
L’America del 1972 è un paese in guerra su due fronti: da una parte c’è il Vietnam, dall’altra i dissidi interni, le proteste di massa i figli dei fiori che invocano la pace a gran voce. In questo contesto arriva Coca-Cola, producendo uno spot che dovrebbe far parte del bagaglio culturale di ogni attore del mondo dell’advertising. LEGGI ANCHE: Coca-Cola celebra la diversità da sempre e oggi lo fa con una lattina arcobaleno Hilltop, pubblicato un anno prima e firmato da McCann Erickson, rappresenta un esempio di presa di posizione netta (e furba), dove è l’unità dell’essere umano ad essere protagonista. Che è un po’ quello che succede durante il Super Bowl, quando l’America intera si unisce davanti ad uno schermo. In questo caso, invece, è il mondo intero che si riunisce con una bevanda. Ma non una qualsiasi, perché di Coca-Cola si può dire tutto e niente, ma non che non sia un pilastro dell’intera cultura umana. LEGGI ANCHE: L’autenticità paga, 10 casi di pubblicità che lo dimostrano Tanto forte da essere diventata una parte cruciale di Mad Men (dopo tutti questi anni, se non l’hai ancora visto, lo spoiler lo meriteresti eccome, ma ti concedo ancora un po’ di tempo).Apple: “1984”, 1984
60 secondi, quasi 35 anni di miti e leggende. 1984 non è solo uno spot visionario, girato da un regista al culmine del suo talento creativo, Ridley Scott ( quello che nel ’79 ha firmato Alien e nel 1984 aveva mandato nelle sale qualcosa come Blade Runner) ma un manuale di stile per le generazioni a venire. Ispirato al capolavoro di Orwell, chissà come e quanto influenzato da Steve Jobs. Se non sei ancora in piena sindrome di Stendhal, vorrei farti notare come il prodotto che dovrebbe sponsorizzare (il Macintosh) non appaia minimamente nel girato, e sia solo nominato nell’epico copy finale.FedEx: “We Apologize”, 1998
FedEx già da tempo aveva scelto un tone of voice ironico ma nel ’98, ha deciso di sorprendere tutti con uno spot di 30 secondi (abbiamo già parlato delle cifre che ci vogliono) fatto dalle barre colorate dei televisori fuori uso e un copy eccezionale, surreale. Uno spot che sembra gridare “ho sprecato milioni” e che invece apre la porta ad un’inception di meta concetti. Il primo su tutti: la semplicità spesso paga.Budweiser: “Wassup – Girlfriend”, 2000
Da puro servizio di messaggistica si sta trasformando in un vero e proprio Social Network. Grandi teorici (e pratici) del marketing lo inquadrano come il futuro dell’advertising, il grande driver per superare la cecità data dal sovraffollamento dei messaggi. Eppure a me, poco più che 30enne (cof, cof, un pò di più), oltre a non aver ancora imparato solidamente a scriverlo, riesce spesso a strapparmi una risata. Ogni volta che qualcuno mi dice: “Ti mando un Whatsapp”, le mie sinapsi vanno in fibrillazione, nella recondita speranza di ripetere questo spot. Tutta colpa di Budweiser. Lo spot originale era di due anni prima, ma nel 2000 Bud sceglie di percorrere la strada del sequel per la sua presenza al Super Bowl, strizzando l’occhio alla cultura dei meme che stava già sviluppandosi nel sottobosco della prima era di internet e che sarebbe poi esplosa qualche anno più tardi con i Social Network. Per un mondo fatto di poesia, vi riporto anche l’originale.ETrade: “Monkey”, 2000
Facile fare spot iconici quando il tuo prodotto si chiama Coca-Cola o Apple, direte voi. E anche con una certa dose di ragione. Provate invece a tirare fuori qualcosa di iconico dovendo comunicare prodotti finanziari. Ecco, se lavori per questa particolare industry e tutte le volte che ti chiedono qualcosa di interessante ti metti le mani nei capelli, guarda cosa è riuscita a fare 19 anni fa Goodby, Silverstein & Partners. Completo dadaismo pubblicitario, concretizzato in un copy conclusivo ancora più spudorato.Well, we just wasted two milion bucks What are you doing with your money?