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Commerce Media e First Party Data: un nuovo modo di scoprire il consumatore

Mappare il consumer journey è più che necessario, oggi, per capire che cosa vogliano veramente gli utenti, a maggior ragione se si lavora nell’ADV online.

A causa di molti cambiamenti nella legislazione sul dato (inteso come frammento d’informazione che posso/non posso trattenere a scopi promozionali), però, i professionisti del digital marketing vedono restringersi sempre di più gli spazi per estrarre informazioni di valore e erogare adversiting che sia realmente profilato. 

Diventa quindi centrale cambiare il processo di profilazione dei consumatori, con conseguente sviluppo di target sempre più definiti, andando oltre il semplice monitoraggio dei flusso di navigazione per entrare nel dettaglio dell’esperienza diretta dell’utente ed estrapolare così informazioni preziose e utili a definire a chi stiamo parlando, ciò che il nostro utente preferisce e ciò che non lo convince.

Un esempio concreto di situazione dove questo è possibile è l’acquisto online, un gesto che oggi compiono tantissimi e che è diventato, oltre che familiare, anche interessante per chi studia le modalità di raccolta del dato a scopo pubblicitario.

Il perché si sia arrivati a capire che anche i momenti d’acquisto sono preziosi per il tracciamento, dal punto di vista del marketer è abbastanza chiaro: con la pandemia causata dal SARS-CoV-2, l’eCommerce ha osservato un boom che ha rapidamente cambiato le abitudini dei consumatori.

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Si parla, tanto per definire un ordine di grandezza, di un giro di denaro che quest’anno toccherà 5 trilioni di dollari: una cifra incredibile, che sarà possibile raggiungere grazie anche a moltissimi utenti che, obbligati in casa durante i vari lockdown, hanno cominciato per necessità a usare il web come canale per comprare beni e servizi.

Ed ecco allora che in una situazione dove l’eCommerce diventa sempre più importante, e il consumer journey si trasforma in un sistema omnicanale, espandendosi nelle dimensioni digitali e fisiche, è necessario adottare un approccio nuovo.

Quello in cui il “commercio” diventi un vettore attraverso cui osservare, mappare e definire il profilo degli utenti, ottenendo una traccia concreta utile a erogare il messaggio promozionale.

Criteo, azienda global al top per l’esperienza nel digital marketing nell’Open Internet, definisce questo nuovo approccio al digital marketing Commerce Media: il risultato dell’unione fra “dati e l’intelligence del commerce allo scopo di targettizzare i consumatori sull’intero shopping journey e di aiutare i marketer e i media owner a generare risultati commerciali (vendite, revenue, lead)”.

Per capire fino in fondo però come si è arrivato al Commerce Media, e perché, è necessario fare un passo indietro e scoprire un concetto indispensabile: quello di First Party Data.

Fra un nuovo Millenium Bug e soluzioni di valore

Quante volte avete sentito parlare di addressability e deprecazione dei third-party cookies? Molte, vero?

Non potrebbe essere altrimenti: sono proprio questi i “cambiamenti” che hanno portato allo sviluppo del Commerce Media.

Il progressivo abbandono dei third-party cookie, infatti, non si preannuncia indolore e ininfluente: senza questa componente, difficilmente i brand fino ad oggi avrebbero potuto profilare i consumatori con informazioni in linea con il profilo di ognuno.

Google ha proiettato alla fine del 2023 il definitivo abbandono dei “biscotti” del web, ma pur avendo un biennio è stato necessario cominciare a pensare come attivare alternative efficaci.

Perdendo la capacità di tracciare i comportamenti degli utenti, infatti, anche l’esperienza che si vorrà proporre sarà decisamente depotenziata a causa della perdita di personalizzazione dei contenuti inviati. Il consumer journey risulterà essere decisamente meno ottimizzato, con un’addressability più complicata e frammentata: questo impatterà sulla capacità di misurare il successo di ogni campagna, con conseguente diminuzione delle revenue. 

Una delle possibili soluzioni per superare lo scoglio è affidarsi ai First Party Data, che sono anche l’elemento fondamentale su cui si fonda il concetto di Commerce Media.

In poche parole, i First Party Data sono tutti quei dati che vengono ricevuti direttamente dagli utenti con cui un’azienda ha già interagito.

Attraverso il tagging degli ambienti digitali, questi vengono mappati da piattaforme dotate di intelligenza artificiale, le quali sono in grado di interpretare e produrre dati di prima parte impiegabili poi nella produzione di advertising scalabile sempre più targettizzata e personalizzata, utile così a sviluppare esperienze di qualità per i consumatori.

Una di queste è il First-Party Media Network, un sistema integrato di dati commerciali e AI sviluppato da Criteo, che nasce con lo scopo di supportare inserzioni ed editori nell’erogazione di pubblicità altamente profilata indipendente dai cookie e dalle terze parti: creato sul principio di integrazione fra domanda e offerta (di dati), il First Party Media Network “pesca” le informazioni grazie a un complesso sistema di machine Learning, che interpreta i tracciati che si generano grazie ai percorsi dell’utente.

Questo è possibile, sostanzialmente, grazie all’inserimento da parte di inserzionisti ed editori di tag (generalmente un pixel) all’interno dei propri siti, o integrandoli nei propri server. Il Network, collegando i cosiddetti identificatori proprietari (quali ID anonimi, email con gas, numeri di telefono, RampID, Unified ID 2.0) crea un profilo cliente dettagliato, il quale permette di generare un’adv decisamente più preciso. 

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Come si lavora secondo le regole del Commerce Media

Grazie ai First Party Data, quindi, si può mappare il consumer journey dal primo touchpoint alla conversione e capire intenzioni d’acquisto, anticipando così i comportamenti e sottoponendo all’attenzione advertising veramente rilevante per il consumatore, nel posto giusto e al momento giusto.

La garanzia di muoversi in direzione corretta, sapendo districarsi nella miriade di momenti di verità che una customer experience di valore può garantire, la può dare proprio un approccio come il Commerce Media, che conta su tre diversi fattori.

  • Unique Commerce Data: grazie alla First Party Media Network, Criteo ha accesso ad un grande pool di data, indispensabile per mappatura del shopper journey. Una risorsa che rimarrà a disposizione anche quando le terze parti scompariranno.
  • AI: l’intelligenza artificiale, che è indispensabile nel processo e analisi del dato. 
  • Supply:  una rete di Publisher diversificata e in grado di rispondere a ogni interesse, dove poter distribuire qualsiasi tipo di ADV (anche in questo, Criteo può dire la sua).

Osservando queste caratteristiche, si potrebbe pensare che il Commerce Media sia isolato al web, ma non è così: siamo in una dimensione multicanale, dove online e offline si fondono (un po’ come capita quando parliamo di phygital, usando un termine in voga da un po’) e possono generare in esperienze che cominciano sul web e terminano magari nel punto vendita. Per questo una buona gestione dei First Party Data può anche essere la chiave per orientare il consumatore.

Prendiamo ad esempio il rapporto fra digitale e retail: con il giusto invito, chiunque può attratto da un contenuto online a spostarsi in negozio per completare un’azione. Se quel contenuto è originato da una profilazione ottimale, è chiaro che avrà più probabilità di convertire.

Un meccanismo che è la stessa Criteo a definire “full-funnel”, in una mappatura di tutto il consumer journey che si origina dalla scoperta e termina solo all’acquisto (e a volte continua anche oltre).

Tutto questo avviene in regime di trasparenza totale (in continuità con la trasformazione che è stata avviata proprio con l’abbandono dei cookies di terze parti): il Commerce Media è anche operare secondo una logica di controllo del dato, dal suo prelievo al suo utilizzo, agendo su tutta la Rete in maniera da osservare ciò che effettivamente l’utente è disponibile a condividere.

Sempre per citare Criteo: una sorta di marketplace dell’Open Internet.

Ci attende un futuro “tracciabile” (se si è preparati al meglio)

È chiaro che il digital marketing di domani si sosterrà secondo paradigmi radicalmente diversi rispetto a quelli attuali: il Commerce Media è un concetto frutto di un’intuizione che probabilmente faciliterà i marketer e aprirà la strada a un nuova serie di esperienze, dove la centralità dell’utente sarà sempre più determinante per essere rilevanti. 

Lo switch a un mondo dove i First Party Data saranno l’unico strumento per riuscire a soddisfare questa necessità obbliga quindi aziende e agenzie a prepararsi al meglio, dotandosi degli strumenti giusti e delle piattaforme migliori per comprendere fino in fondo l’utente: solo così sarà possibile capire il futuro che ci attende, e reagire di conseguenza. 

Il rischio? Non riuscire a capire chi si ha di fronte. In quel caso il futuro non sarà più così roseo.

tassazione e contabilità dei Bitcoin nell'impresa

Tassazione e contabilità dei Bitcoin nella tua impresa: ecco come non correre rischi

Accettare pagamenti in bitcoin. Oppure comprare cripto a nome dell’azienda. Ma anche detenerli a titolo personale.

Sono pratiche sempre più diffuse tra gli imprenditori, anche italiani, nell’anno in cui la Regina delle cripto ha raggiunto il massimo storico di sempre. Inevitabilmente questo comporta nuovi obblighi in termini di pianificazione fiscale e contabilità che non tutti (o meglio quasi nessuno) è in grado oggi di ottemperare. Anche perché la materia che dovrebbe disciplinare questi aspetti è a dir poco fumosa.

Le aziende che accettano pagamenti in bitcoin

Prima di analizzarla, vogliamo inquadrare il fenomeno.

Era il 22 maggio del 2010 quando il programmatore Laszlo Hanyecz dalla Florida inviò un pagamento di diecimila bitcoin (circa 30 dollari) per acquistare due pizze.

Un aneddoto divertente ma anche una data storica – per il pizzaiolo, se ha trattenuto quei 10mila coin che al cambio attuale varrebbero circa mezzo miliardo di dollari – ma anche per il mondo dei pagamenti.

Perché da quel momento è stata di fatto aperta la possibilità di pagare prodotti e servizi in bitcoin. Una possibilità che in Usa è stata sfruttata, fin dal 2014, dal retailer di elettronica Overstock.com; da Expedia, che li accetta in pagamento (negli Usa) per la sezione hotel; da PayPal. Sono solo degli esempi, che dimostrano quanto il mondo corporate si stia aprendo a quello cripto.

Secondo Glassnode , da inizio 2021 le transazioni in bitcoin hanno toccato un valore che è pari al 70% del Pil Usa, 15,8 trilioni di dollari.

bitcoin volume transfer

E in Italia? Anche da queste parti qualcosa si muove.

A marzo un volo privato per un valore di 500mila euro è stato pagato in bitcoin alla società di noleggio veronese Fast Private Jet. Ed è del 2017 la notizia che un’azienda di abiti sartoriali aveva accettato pagamenti in bitcoin dai clienti internazionali dell’eCommerce. Anche in questo caso sono solo esempi che spiegano un fenomeno sempre più mainstream.

Come trattare i bitcoin nella dichiarazione dei redditi (a seconda del modo e del prezzo a cui vengono acquisiti)

Come trattare dunque gli asset in bitcoin?

La materia è complessa stante da un lato in Italia un vuoto normativo, almeno per quanto attiene alla detenzione a titolo privato; mentre è più chiaro cosa fare quando la cripto è di pertinenza dell’azienda. Ma andiamo con ordine.

Per quanto riguarda la detenzione di bitcoin da parte di privati, bisogna distinguere tra due aspetti, quello del monitoraggio e quello impositivo. Nelle nostre linee guida suggeriamo di dichiarare il possesso nel riquadro Rw della dichiarazione dei redditi. Si sceglie insieme al cliente con quale modalità fare la dichiarazione, tra 5 diverse, in base al suo caso specifico che considera quando ha effettuato l’acquisto e a che prezzo e che tipo di giustificativi ha per tracciare la transazione.

L’aspetto impositivo è altro: sposiamo la tesi per cui non sia attualmente da pagare imposte, in quanto non esiste una legge che lo disciplini.

Di fatto, l’unico documento su cui si baserebbe la prassi di pagare un’aliquota del 26% sulle plusvalenze da bitcoin è una risoluzione dell’Agenzia delle Entrate (la numero 72 del 2 settembre 2016) arrivata in risposta a un interpello sull’inquadramento fiscale dello strumento.

Bitcoin price history

In estrema sintesi, la Risoluzione conclude che le operazioni a pronti (la compravendita di valuta) non produce reddito e dunque non è tassabile. Ma, avendo equiparato la cripto a valuta estera, molti commercialisti hanno ritenuto di dover far pagare la tassa sulla plusvalenza nel caso in cui si fossero detenuti più di 50mila euro per più di sette giorni.

Noi invece riteniamo di non dover assoggettare le plusvalenze a imposizioni fiscale, avvalendoci del principio del legittimo affidamento in base a cui se non c’è norma non c’è evasione fiscale. Nel momento in cui sarà varata una legge che disporrà diversamente e quand’anche la disposizione fosse retroattiva, si potrà fare un ravvedimento operoso e si sanerà la situazione (senza pagare multe).

Per i privati rileva anche la nazionalità dell’exchange o del wallet: per evitare il rischio di chiusura del conto da parte di banche italiane, consigliamo di effettuare le operazioni in bitcoin su piattaforma italiane, da YoungPlatform a The Rock a Conio.

… e come iscriverli a bilancio se sono asset dell’impresa

Per le imprese la situazione è meno controversa e le indicazioni su come trattare i bitcoin a bilancio sono reperibili nei principi contabili Ias/Ifrs della Commissione europea.

Per il legislatore europeo dunque, in contrasto con la nostra Agenzia delle Entrate, le criptovalute non sono moneta e dunque non possono essere contabilizzate tra le disponibilità liquide o tra gli strumenti finanziari ma vanno qualificate come rimanenze (in base allo Ias 2), se detenute per finalità di trading nell’ambito dell’attività ordinaria di impresa, oppure – diversamente – come attività immateriali in base allo Ias 38, perché posseggono delle attività immateriali tutte le caratteristiche (ovvero sono attività identificabili che possono generare benefici economici nel futuro e non sono accessibili da terzi).

Commercialista e algoritmi alleati fondamentali

L’iscrizione a bilancio delle transazioni in criptovalute non è semplice dal punto di vista pratico e sono ancora pochissimi i commercialisti esperti in questo campo nel nostro Paese.

Il Bitcoin, però, continuerà a essere sempre più mainstream, nonostante le recenti notizie del bando cinese, che probabilmente seguirà la stessa sorte da annunci simili fatti dal paese in passato.

Per questo, diventa fondamentale per le aziende dotarsi degli strumenti tecnologici adeguati, con funzionalità in grado di leggere e riconciliare le transazioni in cripto, in modo da fornire un dato comprensibile e immediatamente iscrivibile a bilancio. Sarà un’esigenza, questa, sempre più sentita ed è importante muoversi in anticipo.

Perché se ora le transazioni in bitcoin sono ancora poche, nel momento in cui diventeranno diverse centinaia e queste poste potranno finire nella tesoreria o investire in Defi, andranno riconciliate e rendicontate.

Bitcoin circulation

Non solo. Proprio questa occasione potrebbe rivelarsi un’opportunità per i commercialisti, che, secondo i dati ufficiali,  stanno vivendo una vera e propria crisi di vocazione tra i giovani (al primo gennaio 2020, i tirocinanti sono il 10% in meno sul 2019).

Questa fuga dalla professione, infatti, dipende in larga parte dai margini di guadagno sempre più risicati, come conseguenza del fatto che le mansioni contabili classiche sono sempre più automatiche ed eseguibili da algoritmi. Chi resisterà sarà il professionista in grado di offrire valore.

È già nelle cose: presentare la dichiarazione dei redditi è un’attività sempre più meccanica e fai da te, mentre la domanda di pianificazione fiscale è in forte ascesa. Rendere evidente il valore aggiunto della consulenza fiscale rispetto ai nuovi scenari potrebbe dunque essere anche un modo per riavvicinare alla professione i giovani. Nella nostra realtà, che è ormai prossima alla quotazione in borsa, sono già cinque i commercialisti specializzati in questo settore e la previsione è di una crescita fino a raddoppiare il numero di esperti entro il 2022.

social media strategy

Sei invisibile sui social media? Segui questi consigli

I social media sono diventati uno strumento indispensabile per le aziende. Quasi tutte sono presenti sulle piattaforme, ma quante usano i social network al massimo del loro potenziale?

L’abbiamo detto molte volte: creare semplicemente un profilo e pubblicare contenuti a caso ogni tanto non è più sufficiente. In realtà, non lo è mai stato. Eppure, molte aziende non sembrano avere una strategia di Social Media Marketing documentata che le porti al successo.

Potrebbe non sembrare un grosso problema all’inizio, ma non avere un flusso di lavoro ben impostato spesso significa non raggiungere risultati apprezzabili.

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Come fare un Social Media Plan step by step

Sapere semplicemente come creare un piano editoriale per i social media non è sufficiente: l’obiettivo è che il plan sia abbastanza efficace da raggiungere gli obiettivi. Ecco alcuni step da seguire per una Social Media Strategy di successo:

#1. Stabilisci un punto di partenza

Capire a che punto sei dovrebbe essere la prima cosa da fare. Prima di elaborare un piano di social media adeguato, analizza i tuoi profili e quelli dei competitor.

#2. Individua il tuo target

Conoscere (e comprendere) il tuo pubblico è fondamentale per una strategia di successo.

#3. Stabilisci degli obiettivi

Obiettivi intelligenti e dettagliati ti permetteranno di creare campagne ben strutturate, misurare i tuoi progressi e ottimizzare la tua Social Media Strategy a lungo termine.

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#4. Scegli i giusti canali di comunicazione

Non esiste solo Facebook: quando scegli su quali piattaforme comunicare, considera attentamente i vantaggi di ognuna di esse. L’obiettivo finale è scegliere i social network più utilizzati dal tuo pubblico di riferimento e che, allo stesso tempo, si adattano all’immagine del tuo brand.

#5. Diversifica i contenuti per ogni piattaforma

Crea post unici per ogni social network in base alle caratteristiche del media. Una buona idea è quella di inserire nella tua strategia i contenuti generati dagli utenti (UGC).

#6. Affidati ai tool più validi

Avrai sicuramente bisogno di strumenti efficaci non solo per gestire i team che si occupano dei social media, ma anche per la gestione dei profili e delle pubblicazioni. Scegli con cura quelli più adatti.

#7. Organizza i contenuti

La creazione di un calendario è un ottimo modo per tenere traccia di tutti gli appuntamenti, gli eventi e le ricorrenze importanti. Ricorda che le campagne social basate su eventi specifici tendono ad attirare maggiormente l’attenzione.

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#8. Massimizza la reach

Pubblicare il contenuto potrebbe non essere sufficiente per raggiungere la tua audience. Fortunatamente, è possibile massimizzare la portata del messaggio un questo modo:

  • Investi in campagne a pagamento
  • Usa strategie di retargeting
  • Collabora con gli influencer
  • Opta per campagne omnichannel.

#9. Analizza i risultati e ottimizza costantemente la strategia di Social Media Marketing

Capire cosa funziona e cosa no dovrebbe essere la priorità fin dal primo giorno. Tecnicamente, più sei in grado di tracciare i risultati ottenuti, meglio potrai agire per il futuro.

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Una Social Media Strategy vincente: qualche esempio

Gli step elencati non sono certo sufficienti a garantire il successo di una strategia per i social media, ma possono essere un ottimo punto di partenza, senza dimenticare che una Social Media Strategy va inserita in una più ampia strategia di marketing, di cui i social media rappresentano solo una parte, se pur essenziale.

Ecco alcuni esempi di brand che hanno pianificato le loro mosse con attenzione.

Mercedes Benz

Mercedes Benz raggiunge sempre ottimi risultati sui social media. Nel 2013, ha creato una delle migliori campagne di Instagram marketing mai viste: puntava a raggiungere il pubblico più giovane, così ha “assunto” cinque fotografi molto conosciuti su Instagram e li ha messi al volante di una nuova Mercedes CLA, chiedendo loro di postare contenuti sul social.

Chi ha ottenuto il maggior numero di like ha potuto tenere l’auto, quindi l’impegno è stato davvero al massimo!

Dove

Il brand ha spesso puntato sui contenuti emotivi per entrare in risonanza con il proprio pubblico.

La campagna Real Beauty Sketches aveva l’obiettivo di far sentire le donne bene con se stesse. L’azienda conosce bene il suo target di riferimento e crea contenuti che raccontano una storia nella quale le donne possano identificarsi.

Nutella

Ci hai mai fatto caso? Ogni contenuto di Nutella, trasmesso in tv o postato sui social media, ti fa venire l’acquolina in bocca. Molte persone fotografano il cibo prima di mangiarlo; Nutella fa lo stesso e la tecnica funziona: ti mostra la fetta di pane con la crema spalmabile pronta per essere consumata.

Inoltre, non perde mai l’occasione per “giocare e divertire” con il suo brand.

Airbnb

L’azienda utilizza la strategia di pubblicare i contenuti generati dagli utenti: invece di promuovere il suo servizio, il profilo appare come una sorta di diario di viaggio di visitatori e host e i post ottengono su Instagram un altissimo coinvolgimento.

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Nike

Nike ci regala una delle migliori strategie di social media. Il brand mantiene assoluta coerenza nella pubblicazione dei contenuti, mettendo in evidenza gli atleti con cui collabora e utilizzando un tone of voice motivazionale che funziona a meraviglia.

Anche se l’azienda ha profili separati per ogni linea di prodotto, queste caratteristiche rimangono comuni all’interno di una chiara Social Media Strategy generale.

 

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WPP Gioia e la ripartenza attraverso le testimonianze di artigiani e commercianti milanesi

WPP celebra la ripartenza delle attività in Italia con una campagna, la prima ideata dalle sue agenzie creative con sede nel nuovo WPP Campus di Milano, che incoraggia le persone a sostenere i piccoli commercianti, i negozi di quartiere e gli artigiani locali. 

 In un mercato in continua evoluzione e sempre più globale, le tante restrizioni e chiusure imposte dalla pandemia mondiale hanno messo in difficoltà chi gestisce le piccole realtà commerciali e artigianali di quartiere. WPP Gioia, campagna creativa pro bono, ha l’obiettivo di esaltare e celebrare la passione e l’abilità dei commercianti locali e il loro costante contributo alla comunità.

Ripartenza

WPP ha recentemente consolidato il suo impegno nel settore creativo italiano con l’apertura del WPP Campus di Milano, un hub innovativo all’interno di uno dei quartieri storici di Milano che, un tempo, ospitava la fabbrica della ex Richard Ginori. Il Campus, infatti, riunisce, in un’unica sede, la creatività e il talento di più di 2.000 dipendenti delle oltre 35 agenzie WPP. 

WPP Gioia ha visto lavorare insieme tutti i leader creativi, mostrando la sinergia che il WPP Campus di Milano è in grado di offrire. Ideata da Francesco Bozza, VP Chief Creative Officer Grey Italy, Lorenzo Crespi, Chief Creative Officer Wunderman Thompson Italy, Giuseppe Mastromatteo, Chief Creative Officer Ogilvy Italy e Francesco Poletti, Chief Creative Officer VMLY&R Italy, e realizzata in partnership con IGPDecaux.

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La campagna ha avuto inizio il 22 settembre, in occasione dell’inaugurazione ufficiale del nuovo WPP Campus di Milano, e riempirà di “gioia”, fino al 22 ottobre, gli spazi della fermata della linea metropolitana M2 Gioia di Milano. Un luogo scelto proprio per far emergere l’obiettivo dell’iniziativa di celebrare la gioia che, non è solo il nome di una fermata, ma rappresenta anche un meraviglioso stato d’animo e un augurio per il futuro. 

Dalla stilista emergente al barbiere, dal ristoratore al cameriere passando per le commesse e i personal trainer, la campagna racconta le loro storie di vita reale, in modo personale e intimo, e le emozioni che hanno provato quando sono stati in grado di tornare a una nuova normalità mentre riaprivano le loro attività dopo mesi di difficoltà.

La scelta di unire per la prima volta le competenze creative delle agenzie italiane di WPP in una campagna pro bono che celebra l’ottimismo della riapertura della città di Milano, è un segnale del nostro impegno per aiutare la comunità imprenditoriale locale a crescere. Attraverso la campagna WPP Gioia abbiamo voluto raccontare le storie delle persone che, con passione e dedizione, lavorano in piccole attività di quartiere.

Commenta Simona Maggini WPP Country Manager in Italia.

La creatività può e deve essere uno dei motori della ripartenza, ed è anche per questo che abbiamo voluto che il nostro nuovo Campus di Milano fosse un vero e proprio hub per il talento creativo. Aiutare le imprese a raccontare storie, obiettivi e idee nel miglior modo possibile non significa solo ritornare a una nuova normalità ma vuole anche essere uno stimolo per le persone a immaginare un futuro migliore e a impegnarsi per realizzarlo.

Instagram unisce video del feed e IGTV in un unico formato

Da oggi su Instagram i video di IGTV e i video del feed saranno combinati in un unico formato: Instagram Video. Comparirà sul profilo una nuova tab Video, che permetterà agli utenti di scoprire tanti nuovi contenuti in tutta facilità. La nostra community di creator sfrutta moltissimo i video per raccontare le proprie storie, intrattenere e connettersi con il pubblico: per questo vogliamo rendere sempre più semplice creare e scoprire video su Instagram.

Rendere più semplice caricare e scoprire video

I video di IGTV e del feed avranno un unico formato, ma il processo per caricare i video dal proprio rullino foto sarà lo stesso: cliccando sul simbolo + nell’angolo in alto a destra nella home page di Instagram e selezionando “Pubblica”.

Introdurremo anche nuove funzioni per ritagliare i video, nuovi filtri e nuovi tag di persone e luoghi.

I creator continueranno a fare cross-posting dei propri video nelle Storie, e a condividerli tramite direct. L’accesso a tutti i nostri strumenti offre ai creator tante possibilità per raccontare le proprie storie e coinvolgere la community. Le anteprime dei video nel feed saranno ora di 60 secondi, a meno che il video non sia idoneo per le inserzioni: in questo caso, l’anteprima resterà di 15 secondi.

Sono un creator e trovo fantastico che non ci sia più alcuna divisione tra i diversi formati: i video del feed e di IGTV sono semplicemente video. Quando una persona cerca un contenuto da guardare online, non lo seleziona in base alla durata del formato ma in base a cosa la può divertire e intrattenere. Sono contento di non aver più bisogno di navigare tra tante tab diverse per guardare video su Instagram.

Nuove modalità per guardare e analizzare i video

La nuova tab Video sarà la casa di questo formato combinato, e renderà più semplice per gli utenti trovare i contenuti dei creator che amano. Mentre guardano un video su Instagram, le persone possono toccare qualunque punto del video per visualizzarlo a schermo intero; inoltre, hanno sempre la possibilità di scorrere per scoprire nuovi contenuti interessanti.

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Per rendere più facile per le aziende e i creator conoscere i risultati dei loro contenuti video, stiamo realizzando una metrica che comprende sia gli insights sui post del feed sia quelli sui video.

Raggiungere nuovi utenti con le inserzioni video

Con Instagram Video, le inserzioni di IGTV si chiameranno inserzioni video in-stream di Instagram. I creator idonei potranno ancora monetizzare i contenuti di lunga durata, e i brand potranno raggiungere il pubblico coinvolgendolo con contenuti lunghi. Le aziende interessate a promuovere i propri video per raggiungere più utenti, potranno pubblicare video non superiori ai 60 secondi.

La tab Video è la nuova casa del visual storytelling. Siamo felici di vedere i creator su Instagram continuare a creare contenuti che ispirino gli altri ad essere creativi.

eCommerce: 5 consigli per gestirlo al meglio

Dallo studio di Forrester Consulting commissionato da THRON, piattaforma di Digital Asset Management utilizzata dai principali brand globali – da Furla a Valentino, da Dainese a Whirlpoolemergono consigli utili per risparmiare budget, accelerare il time to market e proteggere la coerenza del brand.

Gestire un eCommerce è da sempre un lavoro dispendioso, con forte strategia progettuale: i dati registrano una richiesta del 10% del budget di marketing e un 40% dei brand europei incapace di analizzare correttamente i dati di fruizione dei propri utenti quando provengono da fonti diverse.

Per gestire al meglio il catalogo online è necessario centralizzare su un’unica piattaforma gli asset digitali e i relativi flussi di creazione, approvazione e distribuzione. Questo porterebbe a beneficiare 7 aziende su 10, facendo aumentare i clienti (68%) e la loro soddisfazione (71%).

Di seguito, i 5 step per organizzare in modo più efficiente le diverse fasi che portano alla pubblicazione dei contenuti di un eCommerce.

  1. Centralizzare i flussi di lavoro, shooting compresi

Gli shooting fotografici di prodotto sono uno dei momenti più delicati della costruzione di un catalogo. Accentrare e facilitare le attività di tutti i membri coinvolti favorisce una gestione più efficiente sin dalle prime fasi. Se il team di prodotto, fotografi e agenzie esterni lavorano sulla stessa piattaforma, già a partire dal brief di lavoro, si facilitano i flussi approvativi e si accelera lo step di pubblicazione, perché le informazioni sono già associate agli scatti.

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  1. Curare i performance content per migliorare l’esperienza d’acquisto

Secondo un recente studio di Jellyfish, descrizioni di prodotto, di categoria e guide all’acquisto – i cosiddetti Performance Content – hanno un ruolo cruciale nel completare la shopping experience e nel convertire visitatori in vendite. Il 78% delle aziende, ad esempio, perde regolarmente traffico organico a causa di descrizioni di prodotto poco accurate. Curare questo tipo di contenuti è fondamentale per aumentare in modo costante le performance del proprio eCommerce. Per creare un’esperienza utente realmente efficace, il catalogo va arricchito con immagini di qualità, video che mostrano le caratteristiche e le funzionalità degli articoli in vendita e descrizioni il più possibile approfondite e complete, per permettere agli utenti di valutare ogni dettaglio e soddisfare la loro curiosità. Poter contare su una piattaforma centralizzata per contenuti e informazioni di prodotto, tramite la quale gestire anche la pubblicazione del catalogo i sull’eCommerce, permette di valorizzare al meglio questo tipo di asset.

  1. Centralizzare la distribuzione del catalogo

La pubblicazione del catalogo è una fase delicata. Centralizzare la distribuzione degli asset sui canali finali significa pubblicarli ovunque, eCommerce incluso, senza la necessità di trasferire lavoro, contenuti o informazioni su altri sistemi. Questo si traduce in risparmio di tempo e budget e attenzione alla brand reputation, con informazioni su diverse piattaforme – comprese vetrine intelligenti, digital signage, app e siti del brand in diverse lingue – sempre coerenti e aggiornate.

  1. Mantenere aggiornato l’eCommerce, in automatico

L’eCommerce è una vera e propria vetrina virtuale e, come tale, in evoluzione. Al momento di pubblicare la nuova collezione, aggiungere nuove immagini, video o aggiornare le descrizioni delle pagine prodotto, sarà sufficiente gestire il tutto attraverso una piattaforma di Digital Asset Management per vederle aggiornate in automatico sull’eCommerce e tutti gli altri canali del brand. Spesso infatti questo tipo di piattaforme conta anche su integrazioni native con i principali sistemi eCommerce, che permettono di mantenere aggiornato il catalogo in automatico e in tempo reale

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  1. Creare un’esperienza utente personalizzata

Gestire in maniera integrata gli asset digitali permette di analizzare in maniera univoca i comportamenti dei propri utenti per conoscere i loro interessi e preferenze. Alcuni sistemi di Digital Asset Management offrono strumenti di Analytics nativi, che permettono di raccogliere insight avanzati sulle performance dei contenuti dell’eCommerce e raccogliere informazioni sugli interessi e le abitudini d’acquisto dei propri utenti. In questo modo, sarà molto più semplice misurare il ROI della propria content strategy e costruire esperienze d’acquisto veramente personalizzate ed efficaci.

FACEBOOK DOWN

Instagram, Facebook e WhatsApp non funzionano, blackout totale del Zuckerverse

Instagram, Facebook e WhatsApp non funzionano più.

I malfunzionamenti sono iniziati alle 17.30, fino a rendere inaccessibili le piattaforme di Facebook, WhatsApp e Instagram.

Il fenomeno ha coinvolto Paesi di tutto il mondo e ha costretto l’azienda alle scuse.

Trionfa invece Twitter, dove gli utenti di tutto il mondo si sono riversati in massa scatenando l’ironia da meme, tipica dei feed del social.

facebook down

Intanto, Twitter gongola e saluta tutti “i nuovi arrivati” orfani delle piattaforme di Mark Zuckerberg.

Sotto il tweet dell’account ufficiale dell’azienda fondata da Jack Dorsey, hanno risposto moltissimi grandi brand, dando un cinque virtuale all’unico vero social funzionante. Tra i tanti. anche, McDonald’s, Burger King, Reddit, Warner Bros, Alexa, OnlyFans, Tumblr, KFC e non sono mancati all’appello anche gli account proprio di WhatsApp e Instagram.

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Quasi centomila commenti al saluto di Twitter e più di mezzo milione di retweet, più un milione e mezzo di cuoricini a incoronare l’indiscusso re dei social.

Festeggia anche Telegram che, in ogni occasione in cui WhatsApp ha alzato bandiera bianca, ha guadagnato milioni di iscritti in tutto il mondo.

E a un certo punto, alle 21.30 circa, ora italiana, è saltato anche Twitter, forse per la congestione causata dall’afflusso enorme di utenti sulla piattaforma.

twitter down

Le misteriose ragioni del blocco

Secondo Reuters, Facebook risulta inaccessibile perché gli utenti non vengono indirizzati nel posto giusto dal Domain Name System.

Gli esperti della sicurezza che seguono la situazione hanno dichiarato che l’interruzione è stata probabilmente innescata da un errore di configurazione che ha lasciato le indicazioni per i server di Facebook non disponibili. Potrebbe quindi essere il risultato di un errore interno, anche se il sabotaggio da parte di un insider sarebbe teoricamente possibile.

Facebook intanto non ha fornito alcuna specifica sulla natura del problema o quanti utenti sarebbero stati colpiti dall’interruzione, ma l’ipotesi della cancellazione dai registri DNS è stata confermata anche da Brian Krebs, un esperto di sicurezza informatica.

scuola e lavoro

Il pezzo di carta non basta più: cosa emerge dai dati sulle previsioni occupazionali

Il mantra che abbiamo sentito ripetere dalle generazioni più adulte è sempre stato “Senza un pezzo di carta non si va da nessuna parte”.

Per molto tempo il “pezzo di carta” fondamentale è stato il diploma di maturità; negli ultimi anni, sempre di più, il minimo indispensabile è diventato molto spesso un altro certificato, quello di laurea.

Senza laurea, infatti, si resta automaticamente esclusi da una gamma molto ampia di lavori. Non è un caso se il dato relativo ai laureati in Italia è andato via via aumentando, pur rimanendo al di sotto del livello medio europeo: nel nostro Paese, tra la popolazione tra i 25-64 anni, solamente un quinto risulta laureato rispetto al 32,3% europeo.

Il nuovo inizio dell’anno scolastico fa riflettere sempre sulla centralità della scuola e dell’università nello sviluppo della cittadinanza, ma apre sempre a nuovi dibattiti e riflessioni sull’efficacia delle stesse, sui contenuti e sui programmi, sulle modalità, sull’ibridazione tecnologica più o meno prevalente ed efficace.

Spesso si tralascia l’approfondimento sul metodo, rimanendo superficialmente a questionare su quali materie insegnare nelle scuole: il pensiero di molti è quello di basare la scelta dei contenuti scolastici a partire dalle richieste delle grandi aziende oggi sul mercato del lavoro.

Purtroppo, in questa accezione, esistono errori di prospettiva e di interpretazione che non possono essere tralasciati.

Formare specialisti richiede tempo e non sempre le richieste delle imprese rimangono le stesse per molti anni come in passato.

Come sappiamo, le necessità professionali cambiano vorticosamente e sono estremamente influenzate anche dalle mode e dalle opinioni che vengono diffuse incessantemente sul tema.

Il rischio mediatico è sempre di creare illusione e confondere le nuove generazioni per incapacità di immaginare concretamente il futuro del lavoro.

Purtroppo, è naturale che si tenga conto dei punti di vista delle grandi aziende che sono solitamente anche quelle che hanno voce per esprimere i propri fabbisogni professionali, ma questo non significa che valga lo stesso per le migliaia di piccole microimprese (che costituiscono la parte più cospicua del mercato) che in buona parte ricercano lavoratori in settori tradizionali e anche con bassa qualifica.

Proviamo allora ad analizzare cosa effettivamente emerge dai dati sulle previsioni occupazionali per decifrare quali siano i capisaldi da tenere a mente quando discorriamo di istruzione.

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Cosa richiede il mercato del lavoro

C’è da ricordare sempre, prima di ogni altra considerazione, che la percentuale di italiani che ha solo un titolo di scuola media o elementare raggiunge il 50%, più un ulteriore 8% di persone non-analfabete ma che non possiedono alcun titolo. In pratica, 6 italiani su 10 non hanno un titolo di studio superiore!

Molti sono anziani che probabilmente non hanno avuto in passato l’opportunità di proseguire gli studi. Questa è lo scenario che fa da base a tutti i ragionamenti.

Pensando ai laureati, questi sono solo il 9% del totale e, ogni anno, i nuovi sono circa 320.000, su una base di circa 1 milione e 800 mila studenti iscritti a corsi universitari o di alta formazione artistico-musicale.

Quindi i giovani sono complessivamente più istruiti: il 75% (pari al 9% dei 25-34enni); le facoltà dove orienta le proprie scelte chi si immatricola oggi all’università sono soprattutto Economia, Medicina, Ingegneria e le facoltà d’indirizzo scientifico.

Forse questo dimostra allora quanto i giovani siano, tutto sommato, allineati alle richieste del mercato del lavoro.

Il tasso di occupazione che infatti viene registrato per queste facoltà (a 5 anni dalla laurea) è intorno al 90%, contro un 75% per le facoltà di ambito letterario, giuridico e psicologico, dove i guadagni sono minori anche dal punto di vista retributivo.

Stando alle ultime analisi compiute da Unioncamere, attraverso il Sistema Informativo Excelsior nell’ultimo report “Previsioni Dei Fabbisogni Occupazionali e Professionali in Italia a Medio Termine (2021-2025)”, per il prossimo quinquennio si prevede un fabbisogno occupazionale dei settori privati e pubblici compreso tra 3,5 e 3,9 milioni di lavoratori, di cui 933mila-1,3 milioni di unità determinate dalla componente di crescita economica (denominata expansion demand), considerando anche l’impatto dei diversi interventi previsti dal Governo e dal piano finanziato Next Generation UE.

Il turnover riguarderà invece il restante 70% del fabbisogno di occupati.

Ecosostenibilità e digitalizzazione saranno quindi sempre di più i temi su cui si concentrerà l’attenzione rispetto allo sviluppo di competenze: la transizione verso la sostenibilità ambientale richiederà competenze green a professioni trasversali in più settori, oltre a tutte quelle professioni più tradizionali già esistenti.

digitalizzazione

Per quanto riguarda le competenze digitali, STEM e di innovazione 4.0, verranno ricercate con un e-skill mix (il possesso con elevato grado di importanza di almeno due e-skill) in una stima tra 886mila e 924mila unità.

La domanda di competenze digitali interesserà sia figure professionali già esistenti quanto nuove professioni emergenti, come data scientist, big data analyst, cloud computing expert, cyber security expert, business intelligence analyst e artificial intelligence system engineer, sia le figure più tradizionali che necessiteranno di digital skill per affrontare il mondo del lavoro che cambia.

Si stima inoltre che le professioni specialistiche e tecniche, con un fabbisogno intorno a 1,5 milioni di occupati nel quinquennio, rappresenteranno oltre il 40% del totale del fabbisogno occupazionale, in crescita rispetto al recente passato, soprattutto per la domanda del settore pubblico nei prossimi anni.

Inoltre, dall’analisi di settore, dopo un 2020 in forte sofferenza per l’ambito “commercio e turismo”, emerge una domanda di più di 500mila occupati nel quinquennio successivo, così come la carenza di profili medico-sanitari (stimata in circa 11-13mila laureati all’anno) dipenderà dall’invecchiamento della popolazione e dall’adeguamento dei sistemi sanitari post-pandemia.

Le altre filiere che potranno esprimere ampi fabbisogni occupazionali tra 2021 e 2025 sono “formazione e cultura” (453-492mila unità), “altri servizi pubblici e privati” (477-512mila unità) e “costruzioni e infrastrutture” (192-210mila unità).

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Sono però necessarie alcune precisazioni sulla base di questa domanda: chi si laurea in filologia romanza, è destinato a rimanere escluso dal mondo del lavoro?

Non ci sono certezze su questo: Stando ai dati, per i laureati, il confronto domanda-offerta (al netto dei laureati in cerca di lavoro già presenti sul mercato), evidenzia una situazione di lieve carenza di offerta, ma con notevoli differenziazioni per indirizzi. Si stima comunque una carenza di offerta negli ambiti medico-sanitario, scientifico-matematico-fisico, ingegneria e architettura.

Per i diplomati si riscontra invece un fabbisogno superiore all’offerta, in particolare per l’indirizzo amministrativo marketing, costruzioni, trasporti-logistica e agro-alimentare. Si delinea un sostanziale equilibrio per l’indirizzo sociosanitario e per l’industria-artigianato. Per l’indirizzo turistico e l’insieme dei licei emerge un rilevante eccesso di offerta di profili.

Tecnologia a scuola

Laurea o Diploma? Questo è il dilemma

In definitiva, è meglio il diploma o laurea per trovare lavoro?

Tra i vantaggi di un’educazione non universitaria troviamo la possibilità di apprendere competenze forse più direttamente spendibili, un costo e una durata complessiva del percorso di studio ovviamente minore, probabilmente un inserimento più diretto rispetto ad alcune tendenze di mercato o alle nuove tecnologie, ma di contro vi saranno svantaggi legati all’esclusione da quelle professioni che richiedono un titolo accademico, minori opportunità di ingresso nel settore pubblico o nelle grandi aziende per tipologie di lavori basati sull’economia della conoscenza.

Non esiste, ahimè, una risposta univoca, soprattutto in un contesto socio-economico come quello attuale dove tutto è sempre in un perenne cambiamento.

Le nostre scelte devono basarsi sempre su un’attenta valutazione di noi stessi rispetto anche alla nostra attitudine allo studio. Sono tanti i ragazzi e le ragazze che non hanno iniziato subito un percorso accademico dopo il diploma e che hanno iniziato a sperimentare il lavoro, per poi iscriversi magari dopo qualche anno ad una facoltà, con alle spalle le esperienze sul campo e decifrando solo in quel modo quale fosse il loro tragitto professionale.

In certe situazioni è interessante valutare anche l’offerta dei percorsi ITS, l’Istruzione Tecnico-Superiore che permette studi biennali nei campi della moda, del turismo, delle tecnologie e programmati su base regionale, in base alle peculiarità che quel tessuto economico offre.

Nello scenario del mercato professionale sarà molto rilevante anche il fenomeno dell’invecchiamento della popolazione: la trasformazione demografica potrebbe generare una carenza di offerta di lavoro, rischiando di peggiorare il mismatch nel breve periodo in mancanza di politiche adeguate di re-skill.

Insomma, non è mai troppo tardi per imparare e in Italia, diversamente da altri Paesi Europei, il 75% degli italiani fa un mestiere che non corrisponde al titolo di studio che ha ottenuto. Trovare subito un lavoro non significa anche mantenerlo per tutta la vita (come forse avveniva con le generazioni precedenti).

Come amava ricordare Maria Montessori “La caratteristica peculiare dell’Università consiste nell’insegnare a studiare. La laurea è solo la prova che si sa studiare, che si sa acquisire formazione da sé stessi e che ci si è trovati bene nei percorsi della ricerca scientifica… Se si è imparato ad imparare allora si è fatti per imparare. Una persona con una laurea è dunque una persona che sa meglio destreggiarsi nell’oceano della formazione. Ha ricevuto un orientamento

Il titolo di studio in fondo è un tassello a metà tra le nostre caratteristiche/attitudini e le opportunità professionali che si presentano e si presenteranno nel mondo del lavoro.

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La sfida è provare a superare quel principio di omologazione dove rimane un’idea di fondo che spinge tutti a limitare l’imprevisto, il rischio e le non conformità. La psiche umana desidera inevitabilmente e fisiologicamente soluzioni snelle e univoche (per la serie: se esistono 100 posizioni aperte servono 100 job seeker adeguati. Ergo, la scuola deve formare quei 100 che devono “fittare” perfettamente), ma con pensieri purtroppo semplicistici.

Tornando alla quaestio iniziale, tra chi ritiene che la scuola debba formare dei lavoratori o dei cittadini, la posizione più giusta è forse immaginarla come l’esperienza formativa che le persone hanno a disposizione per imparare a scegliere il proprio percorso individuale.

Una scuola efficace, equa, inclusiva e “ibrida”

In uno scenario professionale che lamenta la mancanza di competenze o di titoli specifici per esigenze specifiche, per migliorare la transizione tra il mondo dell’istruzione e quello lavorativo è probabilmente utile pensare ad elementi adattativi della scuola in termini di inclusione e ibridazione tra innovazione e tradizione (tecnologica, metodologica, contenutistica, etc.).

In termini generazionali, non dimentichiamo che quando si parla di “ascensore sociale bloccato”, spesso si sottovaluta il ruolo giocato dall’istruzione; da anni esistono dati che dimostrano un legame praticamente ereditario tra il titolo di studio dei genitori e quello dei figli.

Un’ultima ricerca INAPP porta nuove evidenze a sostegno di questa tendenza: tra i figli di genitori con la laurea, il 75% ha la probabilità di laurearsi a sua volta. Dato che scende al 48% tra chi ha alle spalle una famiglia dove il titolo di studio massimo è il diploma e al 12% se i genitori hanno la licenza media.

Come abbiamo visto, il sistema universitario italiano presenta comunque il problema di produrre un numero consistente di laureati, specie nei settori in cui le imprese ne hanno maggior bisogno. La difficoltà è dovuta anche al fatto che i costi per l’istruzione universitaria sono in aumento e i meccanismi di finanziamento risultano inadeguati (borse di studio insufficienti) o perché pongono il rischio di investimento su studenti e famiglie. Queste ultime spesso non sono in grado di tradurre le informazioni e valutare correttamente il valore dell’istruzione.

A livello di sistemi scolastici, non dobbiamo necessariamente replicare i modelli esteri poiché inevitabilmente non si può “fotocopiare” un metodo.

Cosa rende un sistema educativo migliore di un altro? È possibile stabilire delle regole generali? Secondo un report di Eurydice la risposta è affermativa se, oltre al perseguimento dell’efficacia, si considera l’obiettiva di una scuola equa e inclusiva.

Tra i sistemi educativi europei più virtuosi ci sono quelli di Irlanda, Estonia, Lettonia, Danimarca e Finlandia. Tutti questi paesi, tranne l’Irlanda, hanno un’organizzazione a struttura unica (elementari e medie in unico ciclo), che sembra quindi essere una formula vincente.

In particolare, i principi del modello educativo finlandese si pongono come obiettivi di offrire a tutte le persone equità nell’accesso all’istruzione, di far maturare nei ragazzi e nelle ragazze capacità di pensare in modo autonomo e di esercitare l’autovalutazione; in parallelo, l’autonomia del sistema scende a tutti i livelli (gestionale e amministrativo, delle scuole e degli insegnanti, che hanno piena autonomia pedagogica in termini di metodo, libri di testo, etc.).

Per attuare un cambiamento di mindset culturale è però necessario un ripensamento che parta dai principi di inclusione generazionale.

Per chi suona la campanella? La Scuola come comun divisore di inclusione generazionale

Quando proviamo a considerare quali siano i punti di contatto che possono permettere un dialogo virtuoso tra individui di età distanti, in primis viene in mente il tema della scuola.

L’istruzione scolastica è in fondo quell’esperienza, se vogliamo “inevitabile”, da cui siamo passati tutti.

L’istruzione obbligatoria, tra l’altro, esiste da più di 150 anni (venne introdotta in Italia già durante l’epoca napoleonica perseguendo un principio molto moderno di uguaglianza di opportunità e poi consolidata ulteriormente dalle Riforme scolastiche principali del nostro Stato come la Legge Casati del 1859 e la Legge Coppino del 1877), pertanto non credo esistano generazioni in vita oggi che non l’abbiano vissuta, anche solo per pochi anni di scuola elementare.

Ancor di più, le materie e la struttura dei programmi scolastici istituiti con la Riforma Gentile del 1923, sono rimasti invariati fino agli Sessanta e una buona percentuale di quei paradigmi contenutistici perdura ancora nei programmi scolastici attuali.

Tutto questo per dire che “parlare di scuola”, o meglio di apprendimento e educazione, può diventare una chiave di volta per raccontare le differenze generazionali ma anche soprattutto individuare gli elementi di contatto su cui è possibile sviluppare il miglioramento di un’istituzione, come quella dell’Istruzione, che proprio grazie alla condivisione di esperienze attuali mescolate a quelle di chi “ci è già passato”, può sviluppare idee nuove e progresso pedagogico a tutto tondo.

L’importante è non cadere nella tentazione da parte della popolazione adulta o genitoriale di dire “la scuola non è più quella di una volta” e di provare a pensare di più fuori dagli schemi.

Per anni abbiamo pensato a un’istruzione separata dall’educazione che ha trascinato con sé il disinteresse per la conoscenza e le discipline. Per cambiare le cose è necessario che un’intera generazione di adulti e millennials si fermi a riflettere su questa questione.

Forse attualizzando (provandoci ancora una volta) l’idea trasgressiva di Ivan Illich per cui “la scuola è l’agenzia pubblicitaria che ti fa credere di avere bisogno della società così com’è”, rivalutando la critica della modernità e della tecnologia verso una nuova coerenza: il dono e la sorpresa costituiti dall’altro possono solo apparire quando questo spazio è aperto.

Tecnologia a scuola

L’immediatezza dell’incontro con l’altro è ostacolata da quegli strumenti “non-conviviali” come la scuola laddove viene limitata a confezionare l’apprendimento o semplicemente a selezionare le persone “giuste”.

Ai fini dell’incontro intergenerazionale, il terreno dell’apprendimento e della condivisione di competenze può anche essere declinato per formulare una scuola migliore attraverso il dialogo tra chi vive o ha vissuto il mondo del lavoro e ne conosce i fabbisogni più concreti e chi sperimenta quotidianamente l’attualità e intravede i bisogni della società in cui sarà nel breve futuro più adulto.

Perché no, all’interno di un contesto aziendale, come un “hackathon” continuativo nel tempo con l’obiettivo di disegnare la scuola e il lavoro del futuro.

Quando una campana rintocca ci ricorda che noi non siamo degli individui isolati ma facciamo parte di una comunità: un concetto evocato da John Donne nel suo celebre sonetto “No Man is an Island”: «…And therefore never send to know for whom the bell tolls. It tolls for thee» («E allora, non chiedere mai per chi suoni la campana. Essa suona per te»).

E la campanella della scuola suona tutti gli anni per tutti noi, ricordandoci che l’individualismo o la visione unilaterale non aiutano al progresso della società. Pensare alla scuola e al mondo del lavoro è un processo sistemico poiché ogni cosa che facciamo si ripercuote, anche se forse non ce ne rendiamo conto, su tutto quanto ci circonda.