Giurista di impresa, da anni impegnata nella compliance legale delle startup e dedicata alla finanza per l’innovazione, ma anche advisor per le startup e attiva nella formazione del capitale umano al Sud e in particolare in Sicilia. Abbiamo incontrato Paola di Rosa per parlare con lei di innovazione e tecnologia in Italia e al Sud, dell'ecosistema startup siciliano, ma anche di donne e imprenditoria e del prossimo evento presso la Scuola Politecnica dell'Università degli Studi di Palermo: un hackathon dedicato all'Internet of Things.
Paola Di Rosa ci racconta di AtFactory, dell'Hackathon del 20 e 21 ottobre a Palermo e dell'ecosistema startup in Italia
Abbiamo scoperto il percorso che la ha portata alla creazione del suo AtFactory e come sia possibile operare anche nel Meridione per le startup, costruendo sinergie con l'ecosistema più sviluppato di Roma e Milano, oltre ad una serie di spunti e consigli sui trend da seguire per i giovani che vogliano puntare sulle proprie idee innovative in Italia.
Da avvocato a mentor per le startup, ci spieghi come si è evoluta la tua carriera e perché hai scelto di dedicarti alle idee innovative?
Sono una giurista di impresa, che è una figura professionale ancora poco conosciuta in Italia, mentre è più nota nel mondo anglosassone, che siede nei board delle aziende e partecipa alla strategia decisionale, valutando il rischio strategico delle proposte degli amministratori delegati. In Italia questo ovviamente non avviene.
Ho da sempre una passione verso l'economia e il diritto aziendale, ma quando mi sono laureata a Palermo in Giurisprudenza non c'era l'indirizzo aziendale, quindi ho completato la mia formazione con un Master specifico. La mia formazione sul Diritto d'impresa mi porta a valutare l'azienda non solamente dal punto di vista legale, ma anche da quello economico-gestionale, quindi per tutto ciò che riguarda le strategie di mercato o come affrontare le barriere all'ingresso.
Un esempio su tutti: le aziende che introducono i loro servizi in un mercato sanitario, che è profondamente regolamentato da leggi, devono tenere in considerazione queste barriere all'ingresso. E questo modo di procedere è di base lo stesso che hanno le startup in fase iniziale, quando devono validare la propria idea rispetto al mercato potenziale e ai potenziali clienti. Bisogna fare una valutazione ex-ante delle scelte strategiche.
Mi sono quindi avvicinata al mercato delle startup perché lavorando con molte aziende, a partire dal 2008 mi sono resa conto che subivano sempre di più la crisi economica e in particolare il credit crunch: era il periodo in cui le banche non erogavano più servizi finanziari, quindi non davano più credito. Allora lavoravo per un'azienda torinese dell'indotto Fiat, che non trovava più la liquidità per poter pagare fornitori, operai e dunque anche se aveva degli ordini non riusciva ad evaderli per pagare le risorse chiave. Cercando soluzioni alternative al credito bancario - contratti di finanziamento in gergo legale - mi sono avvicinata come studio alla finanza dell'innovazione, al venture investing e al venture capital, ma mi sono resa conto che si trattava di figure adatte non tanto alle imprese (anche se nel tempo la legge ha introdotto anche le cosiddette PMI innovative come beneficiarie di questo tipo di investimenti), quanto alle startup.
Ho iniziato a capire cosa fosse una startup, quale fosse la fenomenologia e ho iniziato anche ad avere contatti con l'Associazione Sicilian Venture Philantrhopy, che si occupava di startup e da lì è stato quasi automatico diventare loro mentor.
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In Sicilia hai fondato AtFactory: di cosa si tratta esattamente?
Quello che mi veniva naturale fare per i ragazzi che incontravo in fondazione era affiancarli e supportarli, mettendoli in contatto con community composte da investitori, associazioni o realtà come Italia Camp che allora aveva come focus l'innovation technology digitale e che oggi ha virato un po' sull'innovazione sociale, vedendo nascere anche realtà interessanti come Orange Fiber e Green Rail.
Ho quindi intrapreso la sfida di una associazione locale che avesse sede sul posto per fare scouting di realtà interessanti siciliane per metterle poi in contatto con il network milanese o romano delle startup e con l'ecosistema dell'innovazione italiano. Il ruolo di AtFactory, in pratica, è quello di un link tra queste due realtà.
Quello che facciamo con AtFactory io la chiamo innovazione sociale, perché soprattutto in Sicilia temi come tecnologie e open data sono ancora relativamente nuovi. Ci piace definirci per questo una "nave rompighiaccio", perché realizziamo eventi su Blockchain, Healthcare e così via, per far capire ai ragazzi come realizzare meglio le proprie idee, trovando relazioni, confronto con aziende importanti e terreno fertile per lo sviluppo delle loro idee.
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Flazio, Orange Fiber, Green Rail sono solo alcuni dei nomi delle startup siciliane che ci vengono subito in mente: in realtà il Sud può essere un terreno fertile per le buone idee?
Attualmente sto facendo mentoring per un'altra startup molto interessante, Pharmap, e stiamo valutando delle ipotesi di sinergia e partnership strategica con un'altra startup milanese. Intanto la società ha stretto un accordo commerciale anche con un'azienda tedesca. Quindi il Sud è terreno fertile per la generazione di idee, mentre per l'execution, per le relazioni e per la ricerca di investitori e partnership strategiche dobbiamo guardare all'ecosistema tra Milano e Roma che funziona bene.
Abbiamo il nostro network in Lombardia e in altre regioni e lo usiamo per veicolare i ragazzi e le idee del Sud verso quell'ecosistema.
Il 20 e 21 ottobre l'appuntamento è a Palermo per un hackathon sull'Internet of Things. Quali sono secondo te i settori nei quali lo IoT può avere maggiore futuro in Italia e quindi quali progetti consigli di seguire con più attenzione agli aspiranti startupper?
Sposterei il focus, perché l'Internet of Things è qualcosa di molto trasversale, quindi non c'è un settore che può prediligere rispetto ad un altro. Il fatto è semmai che settori produttivi come quello manifatturiero, che in Italia costituisce ancora un asset fondamentale dell'economia, sono tra i settori che possono beneficiare maggiormente di queste tecnologie.
Lo IoT, naturalmente, impone anche un po' un cambio di paradigma culturale. Un'industria di arredi come Vitra (un'azienda molto importante, anche se non italiana), si è avvalsa della collaborazione di un famoso architetto italiano, Ratti, che lavora anche all'MIT di Boston, per far diventare intelligente un divano, LiftBit. Il divano non è più solamente un prodotto, ma si trasforma in qualcosa che offre un servizio, un'esperienza alle persone.
Se le nostre PMI del manifatturiero vogliono diventare più competitive, vogliono conquistare più fette di mercato, devono produrre questa tencologia e devono cambiare il loro modello, non pensando più a fare solo prodotti, ma a creare cose che offrano servizi alla persona.
Poi, in questo ambito, possiamo guardare anche alla manutenzione predittiva: l'Internet of Things è essenziale in ambito industriale perché genera dati e consente di assumere una manutenzione preventiva piuttosto che aspettare che il macchinario subisca effettivamente un guasto, con un risparmio in termini di gestione.
In Italia vedo lo IoT molto legato in questo senso anche alla sanità, dove l'acquisizione dei dati a distanza è essenziale, per una medicina sempre più personalizzata.
La cosa bella dell'Hackathon del 20 e 21 ottobre a Palermo è anche che l'Istituto Superiore Mario Boella di Torino ha donato tutte le schede Arduino che i ragazzi utilizzeranno durante questo appuntamento per arrivare alla fine dei due giorni a produrre un prototipo reale di un prodotto. Un esempio di come sia possibile creare sinergie per far imparare ai ragazzi anche le soft skill digitali.
Parliamo di donne e imprenditoria: a che punto siamo oggi in Italia? Il Paese si sta davvero trasformando per dare maggiore possibilità di affermazione anche alle lavoratrici senza dover necessariamente rinunciare alla famiglia, ad esempio?
Le difficoltà sono ancora molte per le donne, ma altrettanto sinceramente posso affermare che - anche semplicemente per un fatto numerico - le donne sono destinate ad affermarsi nel lavoro oggi. Tempo fa ho letto un libro di Henry Miller nel quale si diceva che nel 2000 sarebbero state tutte donne nei posti di vertice, solamente per un fatto numerico, visto il rapporto di uno a sette tra uomini e donne. Siamo nel 2017 e non è ancora così, quindi non possiamo parlare di una profezia, ma se pensiamo a tutte le donne che oggi fanno azienda, o siedono in ruoli di leadership anche in politica, siamo sulla buona strada.
Il lavoro di oggi poi, specie quello digitale, è un tipo di lavoro più liquido, che ci consente di organizzarci molto meglio: io ho una collaboratrice che che è mamma di due bambine e riesce perfettamente ad organizzarsi. Chiaramente è tutto il contesto sociale che è cambiato e così alla donna non si chiede più la rinuncia a tutti i costi, ma il lavoro è molto più legato alla finalizzazione di un progetto, con delle scadenze, mentre i tempi e l'organizzazione è stabilito da chi lavora e punta al risultato.