Si può coinvolgere i dipendenti dell’azienda e incoraggiarli a diventarne brand ambassador quando usano il loro profili social?
Ted Rubin, Social Marketing Strategist, uno dei più seguiti Chief Marketing Officer (CMO) su twitter secondo il SMM Magazine, CMO di Brand Innovators sostiene di sì.
Nel 2009 ha coniato e da allora pubblicizza l’espressione ROR: Return on relationship™.
Nel suo articolo Turning disengaged employees into advocates evidenzia che soltanto il 30% dei dipendenti ama ciò che fa e ed è profondamente impegnato a contribuire al successo aziendale.
Per far diventare gli altri ambasciatori del proprio brand, specie quel 52% disimpegnato secondo i dati Gallup raccolti in USA, occorre, secondo Rubin, curare la relazione coi dipendenti esattamente come se fossero clienti dell’azienda.
Secondo l’indagine quanto è social la tua azienda realizzata due anni fa su un campione di 338 aziende da eCircle Italia (oggi integrata in Teradata) il 57% delle aziende italiane usano i social per consolidare e trasmettere i valori del proprio brand, e il 53% li usa per comunicare e interagire coi clienti.
Nonostante questi dati non siano più stati aggiornati da altre indagini analoghe, la sensazione è che Rubin abbia ragione: sembrerebbe una ottima idea e opportunità avere a bordo della propria azienda dipendenti-ambasciatori.
Quali sono però i rischi e le sfide da affrontare per avvicinarsi a questo ideale obbiettivo?
Non dobbiamo dimenticare, infatti, che secondo un interessante indagine pubblicata da Altimeter Group , ben il 52% delle aziende ha subito una violazione delle regole d’uso dei social media, e secondo una ricerca condotta da Onepoll per Samsung nel 2014 ben l’86% degli Italiani si fa gli affari propri sul lavoro: dedicano fino a 45 minuti per consultare le proprie reti sociali (63%).
Molte aziende (40%) vietano l’uso delle postazioni aziendali per accedere ai social network ma questo ostacolo è facilmente aggirato con l’uso di tablet e smartphone e ben il 32% di italiani lo fa, accedendo a Facebook, o Twitter (26%).
I giovani millenials, tra i 18 e 34 anni, sono quelli più propensi a violare queste regole: appare chiaro, come vietare l’utilizzo dei social network sia inefficace e, anzi, possa creare maggiori problemi.
Sono diventati frequenti infatti i casi di licenziamenti dovuti ad un uso improprio di internet sul posto di lavoro o di social media fail social causati dipendenti che, in mala fede o involontariamente, pubblicano notizie lesive per la reputazione dell’azienda, confondono i profili e pubblicano notizie personali su quello aziendale, o interagiscono coi clienti dando risposte non conformi con la filosofia aziendale.
Abbiamo voluto sentire il parere in proposito il parere di alcuni esperti italiani nel settore dei social media, del marketing, della formazione e abbiamo rivolto a loro questa domanda:
Pensi che in Italia sia possibile dare libero accesso ai social ai dipendenti di una azienda, incoraggiandoli a diventare brand ambassador, condividendo le notizie?
Mauro Baricca - Imprenditore, scrittore, Responsabile Marketing di Casa Imbastita Campus e Casa Imbastita Relaxliving
Bella domanda: "Vale la pena incoraggiare i dipendenti a usare i social in azienda facendoli ambasciatori del brand?" Certamente si ma non si può obbligarli. Oggi in Italia molte aziende piccole e grandi pretenderebbero che i dipendenti diventino ambasciatori del brand utilizzando i loro profili social per promuovere le attività in azienda ma impediscono l'accesso a internet ai dipendenti da cui pretenderebbero il contributo. In moltissime aziende l'accesso ai social è bloccato e i dipendenti non possono usarli, questa è un grave errore se si vuole che diventino degli ambasciatori del brand. Certamente, soprattutto nelle aziende grandi, certe limitazioni di accesso a specifici siti ci devono essere ma non ai social. Anche perché, se io blocco l'accesso ai social ai dipendenti loro li utilizzeranno ugualmente con i loro smartphone in orario di lavoro con danni e perdita di produttività ancora maggiori.
Sull'esempio di molte società U.S.A. si dovrebbe iniziare a promuovere, in azienda, un codice etico di utilizzo dei social: regole chiare, semplici e precise, che tutte le persone interessate a questo tipo di attività devono conoscere, condividere e sottoscrivere. Sicuramente chi opera a contatto con il pubblico, commerciali, marketing, assistenza clienti e altre funzioni potrebbe dare un grande contributo allo sviluppo del brand dell'azienda. Le persone però vanno trattate da adulte e devono essere coinvolte in modo che diventino loro stessi dei prosumer in modo autonomo grazie appunto alla condivisione e non all'imposizione.
E' facile? No, per questo pochi ci riescono, il segreto non è l'uso della tecnologia ma la condivisione con le persone che sono il motore di qualsiasi azienda.
Gianni Catalfamo - Consulente di Digital Transformation
I social sono un mezzo espressivo aperto a tutti. Ogni dipendente - è bene ricordarlo - prima di essere tale è una persona e il suo rapporto con l'azienda dovrebbe essere caratterizzato dal massimo rispetto reciproco.
Quattro regolette facili facili:
- Non spetta all'azienda decidere se il dipendente possa o voglia essere un advocate o un detractor dell'azienda stessa, in quanto questa decisione spetta unicamente al dipendente e può anche cambiare a seconda del momento / situazione.
- E' fondamentale definire e diffondere capillarmente la policy che l'azienda intende seguire in tema di Social. Questa policy dovrebbe indicare:
- Le linee guida per l'utilizzo del brand, che è di proprietà esclusiva dell'azienda;
- Dove trovare informazioni (il più oggettive possibili) che possano supportare il dipendente che decidesse di prendere parte sui Social a discussioni che riguardano l'azienda, predisponendo una apposita pagina ad accesso controllato sulla intranet;
- Che ogni post/tweet recante l'identificativo aziendale (es. @PincoPallinoSpA e/o eventuali hashtag "aziendali") potrà essere oggetto di ripresa o condivisione da parte degli account aziendali, in linea con le regole di funzionamento dei social;
- Che ciascuno parla a titolo personale.
- Il modo migliore per incoraggiare è l'esempio: se l'amministratore delegato è attivo sui social, i dipendenti capiranno che la ritiene un'attività meritoria. Viceversa "incoraggiare" solo a parole suonerà falso e strumentale.
- A ogni errore si rimedia chiedendo scusa (e cercando di fare in modo che non si ripeta). Questo vale anche nel caso in cui chi commette l'errore è un dipendente che magari credeva di far bene.
Dato che moltissime aziende italiane sono gestite con una logica imprenditoriale, può capitare che l'azienda sia vista come "cosa mia" dall'imprenditore; quello che difetta in questi casi è la condivisione di informazioni all'interno dell'impresa stessa.
In mancanza di informazioni puntuali anche lo spirito di corpo più gagliardo si spegne perché non ha argomenti, oppure rischia di essere frainteso come sudditanza nei confronti della dirigenza.
Riccardo Scandellari - Giornalista e consulente per il marketing online
Le aziende strutturate devono tentare questa via, consapevoli che saranno pochi i dipendenti che la potranno attuare in modo corretto e che si renderanno disponibili. Ho tentato di percorrere questa strada in alcune aziende, ma devo rilevare che il dipendente non sente l'azienda come una cosa sua e non concede la disponibilità a comunicare nei propri profili informazioni riguardanti il suo lavoro. La mentalità del dipendente italiano è spesso in conflitto con l'azienda e non ritiene debba invadere la sfera privata. In alcuni casi, in figure commerciali che vengono remunerate anche in base al volume di profitti che generano, la sensibilità è decisamente più alta e c'è la possibilità di fare qualcosa di buono.
L'azienda, che vorrà impegnarsi su questo fronte, dovrà prevedere un corso di formazione e forme di incentivi concreti ai dipendenti che aderiranno.
Non si può obbligare la gente ad essere quello che non è....
Marco Camisani Calzolari - Digital activist
I social media sono strumenti molto semplici da interpretare se vengono fornite le giuste chiavi per capirli. Ogni strumento ha le proprie caratteristiche, ma chi lo usa è sempre una persona e sono le persone a fare la differenza.
Un brand ambassador non è molto diverso da un amico, così come le dinamiche del rapporto con l'azienda in cui lavora non sono molto diverse da una relazione tra umani. Le aziende sono fatte di persone, e definire dogmi assoluti su come convertire i propri dipendenti in brand ambassador sarebbe come fornire un manuale per convertire i conoscenti in amici. Esistono principi di fondo, come la lealtà, il dare prima di ricevere, il saper ricevere, essere presenti, etc. Ma l'amicizia è una forma di amore così come lo è anche quello per un brand. Kevin Roberts ne ha spiegato le dinamiche per primo. L'unico consiglio che mi sento di dare è: il digitale è solo un mezzo, non provate a comprare amore per il vostro brand. Non funziona.
Alessandro Donadio - Partner Hitrea. Digital Transformation strategist. Esperto di impatti social e digital sulla funzione HR.
Il tema dell’advocacy come leva di sollevamento motivazionale è interessante in sè.
Al netto di facili tecno-entusiasmi, va detto che autori e studiosi di motivazione da tempo chiariscono come questa sia una dimensione che “deve” nascere dentro la persona. Alle organizzazioni il compito di abilitarla con operazioni di ingaggio in cui autonomia, creatività, contribuzione sono promosse continuamente.
L’advocacy come strumento funziona certamente in questa direzione se riusciamo a trovare un equilibrio generativo fra la necessità della persona di esprimersi portando il suo entusiasmo e stile, e le necessarie compliance che tutelano l’organizzazione.
Gli impatti sono ancora tutti da dimostrare su larga scala, ma c’è del vero in quello che dice Daniel Pink quando sostiene che “There is a mismatch between what science knows and what business does”. Ma in effetti questa è anche una opportunità.
Emanuele Quintarelli - Director, Social Business and Future of Work, EY EMEIA Advisory Center
Penso che sia impossibile non dare accesso ai canali social da parte dei dipendenti ed ancora di più penso che l'accesso non sia sufficiente. Perchè i dipendenti possano contribuire in sicurezza ad un'efficace attività di employer branding è necessario che l'azienda abbia un "purpose" che questi condividono, capisca e li abbia aiutati a capire dinamiche e potenziale delle nuove modalità di ingaggio online, abbia predisposto una strategia, linee guida, policy e meccanismi di supporto all'esposizione online dei dipendenti. Molto più dell'aprire un canale, l'azienda deve coinvolgere i dipendenti nel coinvolgere i clienti online.
Piero Tagliapietra - Vive tra la Security, l’Agile e il Marketing: è un Digital Strategist convinto che il digitale non sia sempre la risposta giusta.
In teoria direi che è possibile, in pratica direi che è improbabile (soprattutto quando iniziamo a parlare di realtà con dimensioni importanti). Quando infatti parliamo di accesso ai social media bisogna considerare differenti aspetti: i dipendenti sanno usare i social media? Sanno quali sono i documenti e le informazioni che possono essere condivise? È chiaro lo stile di comunicazione dell’azienda? Sanno come proteggersi dagli attacchi informatici sui social media (rivolti verso l’azienda)? E molto altro.
C’è quindi un grosso tema di processi, formazione e consapevolezza: tre elementi non facili da trovare nelle imprese.
Prendiamo ad esempio il recente hack di Ashley Madison: ci sono persone che hanno usato l’email aziendale per registrarsi (e probabilmente la password non è lontana da quella usata per accedere ai servizi in ufficio). Ma anche andando su Instagram si possono vedere foto degli uffici con i post-it attaccati ai monitor con le password e tutto questi può applicare anche al CRM: quante persone sanno gestire un utente arrabbiato online (senza insultarlo)?
Ci sono aziende che si stanno muovendo bene a mio avviso nella creazione di Brand Ambassador e nel coinvolgere buona parte dei dipendenti, ma sono nel mezzo di progetti iniziati anni fa e, come detto prima, a valle di un lavoro importante di formazione e definizione dei processi.
Pensare che di punto in bianco sia possibile dare libero accesso ai social ai dipendenti di un’azienda in mancanza di questo lavoro significa replicare un episodio di Willie il Coyote nel mondo reale.
Emanuela Zaccone - Co-founder di TOK.tv, Social Media Strategist e autrice del libro "Social Media Monitoring: dai dati alle strategie"
Secondo me in generale bloccare l'accesso ai social media non è necessariamente una buona strategia per evitare che i propri dipendenti "perdano tempo" su questi canali, accessibili - come anzi avviene nella maggioranza dei casi - da mobile.
D'altra parte mi sembra una violazione lasciare "liberi" i dipendenti di accedere ai social a patto che contribuiscano alla generazione di buzz.
Il giusto atteggiamento dovrebbe invece essere quello di informare i dipendenti della presenza online dell'azienda e di invitarli - solo nei tempi e modi e se lo ritengano opportuno - a ricondividere contenuti dell'azienda stessa. Senza alcun obbligo.
Sarebbe quindi bene stabilire una precisa policy che ad esempio vieti l'uso per fini non legati all'attività lavorativa durante gli orari di ufficio (fatta salva magari la pausa pranzo) o codifichi i casi in cui ai dipendenti non è consentito parlare a nome dell'azienda.
Sarebbe bene ricordare infatti che prima di essere un proprio dipendente ognuno di noi è anche una persona con propri interessi e una propria vita personale di cui i Social sono spesso riflesso e il lavoro rappresenta solo una delle "dimensioni" di vita di ciascuno.