Google. Basta il nome per dire tutto. Con circa 2.095.100.000.000 di ricerche effettuate nel 2014, Big G è di gran lunga il motore di ricerca più usato al mondo. Uno strumento che da più di un decennio condiziona il nostro modo di navigare, e che nessuno sembrerebbe poter discutere: neanche colossi come Apple, Facebook o Yahoo.
Eppure, come tutte le cose, anche per Google si sta prefigurando l'esigenza di evolversi.
Prima, una piccola premessa.
Nel capitolo #7 del report pubblicato lo scorso gennaio da GlobalWebIndex sui 5 trends attesi per il 2015, si legge un dato interessante. Seppur confermandosi come player indiscutibile del web mondiale, Google ha un problema: e quel problema si chiama mobile.
Pensateci: quando usate il vostro smartphone, adoperate Google con la stessa frequenza di quando navigate con un laptop? Anche se avete uno smartphone che monta Android, quel gesto così normale su una tastiera è per così dire, meno automatico su uno schermo touchscreen di un iPhone o di un Galaxy.
Fino al novembre scorso, anche i device Apple avevano impostato su Safari Google come motore di ricerca di default: un cambiamento che non deve aver influito su queste statistiche, ma che probabilmente incideranno sul tasso finale alla fine di quest'anno abbassando una percentuale forse già abbastanza deficitaria.
Il 2015, secondo le previsione, potrebbe rivelarsi il primo anno in cui il motore di ricerca più utilizzato al mondo subisca una decelerazione rispetto al suo abituale trend di crescita. Certo: Google non si farà certo cogliere impreparato, no? E poi: perché preoccuparsi? In fondo la ricerca è ormai solo uno dei settori in cui Google eccelle. L'azienda di Mountain View è un provider di servizi diversificati, un player importante nel campo del social networking con Google Plus, oltre che la culla dell'innovazione per eccellenza.
Tutto vero. Ma è anche vero che Google ha, attraverso la ricerca, l'imput per erogare la pubblicità più perfetta che sia mai stata immaginata: quella profilata.
Io cerco qualcosa su Google, Google è in grado di suggerirmi prodotti e servizi attinenti alla mia ricerca. Il principio è ormai diventato parte integrante del nostro modo di pensare il web e il marketing digitale: ma, appunto, vede il suo hype nel gesto della ricerca, che è il link indispensabile per costruire la navigazione personalizzata.
Un principio mutuato anche nelle piattaforme in grado di memorizzare i cookie per "ricordarsi" l'utente che naviga: anche questo, un trend che il report di GlobalWebIndex prevede in discesa per quest'anno, considerando il proliferarsi dell'abitudine a navigare in modalità "anonima" per tutelarsi dalla privacy.
In ogni caso: una diminuzione del numero di ricerche possono portare, per forze di cose, a un depotenziamento del mezzo con conseguentemente possibile diminuzione di investimenti. Certo, stiamo parlando di un qualcosa di non epocale e che non ridimensionerà certo Google nel breve periodo: ma è certamente un segnale da registrare pe provare a interpretare ciò che succederà nel lungo periodo.
Proviamo quindi ad interpretare le scelte compiute da Mountain View e, in particolare, un investimento fatto negli anni scorsi che potrebbe esser considerato indicativo: quello in Uber, appunto.
250 milioni di buoni motivi per credere in Uber
Era il 23 agosto del 2013 e ilSole24ore batteva la notizia: Google Venture aveva investito nella startup Uber 250 milioni di euro. Gli analisti prevedevano già allora un'IPO sull'azienda creata da Travis Kalanick e Garrett Camp. Ufficialmente, questa non è mai avvenuta.
Ufficialmente: perché Google ha comunque mantenuto una sorta di "contatto diretto" con Uber.
Se si leggono infatti i nomi del board, si può appurare come fra i quattro consiglieri d'amministrazione ci sia David Drummond, della Google Inc. Una notizia risaputa, che può esser verificata semplicemente navigando su Bloomberg.
Chi è David Drummond? Il Chief Legal Officer, Senior Vice President of Corporate Development e Secretary di Google Inc.
Anche questo, niente di nuovo: è possibile leggere della sua presenza nel board Uber anche sul sito ufficiale di Google. Drummond è responsabile oltre che delle operazioni legali della società, anche della stessa Google Ventures e dello sviluppo aziendale.
Non è un mistero che Google stia cercando di sviluppare un sistema di trasporti senza conducente. Un ambito non esclusivo di Google, intendiamoci: aziende come Cruise stanno già provando a esplorare il mondo delle driveless car e le sue possibilità, e in rete è possibile trovare molte notizie sul tema, ad esempio su blog specializzati come Driveless Future.
Il terreno però rimane apparentemente lontano da Google stesso: anche se, a quanto si apprende da una notizia
apparsa su Telecrunch qualche settimana fa, non così lontana dal concretizzarsi. Pare infatti che lontano da Mountain View sia stato già avviato il laboratorio di ricerca per trovare la chiave di volta e lanciare un sistema di taxi robotici.
Rumors non confermati affermano che lo stesso Drummond abbia mostrato al board di Uber le prime bozze dell'app mobile di questo nuovo servizio, sentendosi chiedere dagli altri consiglieri d'amministrazione le dimissioni.
Eppure, come sottolinea in un'interessante analisi Formiche.net, Uber poggia il suo servizio sulla suite di Google Maps. Se si rompesse quest'alleanza, a rischio ci sarebbe addirittura la possibilità di erogare il servizio.
Posto che la questione è delicata e non siamo in grado di sapere quale sia la reale intenzione di Big G nei confronti di Uber (almeno a livello amministrativo), rimane però la domanda del perché tanti sforzi da parte di Google per un settore che non sembra poter influire concretamente sul suo core business.
Una teoria, però, l'abbiamo formulata: ve la esporremo nel prossimo post di questa serie.