Stop!
In data 2 Ottobre 2006 l'alcalde di San Paolo del Brasile, Gilberto Kassab, ha detto basta. Tra battaglie legali, scetticismo diffuso e numerose manifestazioni di plauso, dal 1° Aprile di quest'anno la capitale paulista si è definitivamente spogliata di tutti i suoi orpelli pubblicitari. O meglio, di tutti quelli presenti negli spazi esterni.
Billboard, manifesti, locandine, flyer, mega insegne, affissioni e installazioni a fini promozionali di ogni tipo - comprese quelle di ambient, stickering e guerrilla - sono stati inesorabilmente risucchiati dal vortice igienista generato dalla Legge Municipale 379/06, ribattezzata "Clean City" law.
La risacca populista, d'un sol colpo, ha trascinato via con sè le effigi più peculiari della civiltà del consumo; di quelle effigi, così familiari e rassicuranti per "noi" occidentali, non vi è più testimonianza tangibile.
Sulla battigia l'impronta del modo tradizional/occidentale di fare comunicazione è scomparsa, lasciando posto a qualcosa di nuovo e antico al tempo stesso.
Il paradigma Kotleriano del marketing mix, assurgendo la promozione a componente irrinunciabile di un'efficace strategia commerciale, aveva dato il "la" all'incontrollabile inondazione pubblicitaria del mondo post-industriale; da allora, nel mondo capitalista, questo flusso non aveva conosciuto battute di arresto significative - se non in seguito a congiunture economiche sfavorevoli.
Il 2 Ottobre 2006 a San Paolo hanno eretto nuovi argini... l'alta marea non tornerà più.
Stop!
Una precisazione doverosa: non vivo a San Paolo e non ci sono mai stato. Di conseguenza non ho esperienza "diretta" nè di quale fosse la situazione prima dell'Aprile di quest'anno, nè di quale sia quella attuale. Articoli, foto, blog, discussioni e, nondimeno, l'aver visitato qualche altra megalopoli americana mi hanno aiutato a farmi un'idea.
Detto questo, con le dovute proporzioni, non è difficile notare come gli eccessi dello scenario paulista che hanno portato ad un tale ridimensionamento della disponibilità di spazi pubblicitari collimino con quelli riscontrabili in molte altre città; città sempre più simili, sempre più interdipendenti e in contatto, sempre più consce di un destino comune.
Città in cui il benessere e la continua, subdola induzione al consumo trasformano i bambini di 10 anni in decisori d'acquisto e lo spazio urbano in mero supporto per la diffusione di messaggi commerciali, dove edifici, monumenti e spazi verdi ormai sono accidentali elementi di discontinuità tra un cartellone e l'altro.
Città in cui le persone sono quotidianamente aggredite da un quantitativo abominevole di messaggi pubblicitari invadenti, pressanti, per lo più brutti. E qualcuno comincia ad averne la palle piene!
Insomma, in molte città si è andati ben oltre il limite sostenibile; è per questo che l'assassinio dell'outdoor advertising consumato a San Paolo non dovrebbe stupire più di tanto.
Questa è la cronaca di una morte annunciata.
Di una morte probabilmente ingiusta, eccessiva, fascista - come è stata definita dalla Border, l'Associazione brasiliana dei pubblicitari - ma comunque prevedibile... a maggior ragione nella capitale carioca.
I moventi ipotizzabili sono di natura economica, sociale e ambientale.
In primo luogo, ogni nazione che vuole sopravvivere deve riuscire a bilanciare le domande tra loro in contrasto di consumi, protezione e investimenti. Un paese in ascesa, come il Brasile, avverte questo bisogno ancora più forte; perciò, tentare di frenare i consumi a fronte di una capacità produttiva interna impreparata a fronteggiare i nuovi desideri è spesso una strategia di sopravvivenza: evita sprechi e destina agli investimenti produttivi e militari una quota maggiore di risorse.
In secondo luogo, nonostante i lustrini del benessere della downtown, la realtà sociale paulista è ancora molto difficile. Milioni di abitanti non censiti vivono nelle enormi favelas e lottano tutti i giorni per la mera sussistenza; va da sè che in un tale contesto l'invito insistente al consumo suona un po' come uno sberleffo alla miseria profonda.
In terzo luogo, l'inquinamento visivo dei troppi messaggi pubblicitari non giova a nessuno. E' sempre più difficile per le aziende riuscire a farsi notare in un marasma indistinguibile e sempre più difficile per i cittadini riuscire a riconoscere il proprio spazio urbano vitale prescindendo dall'architettura pubblicitaria; e questo - consentitemi - è aberrante!
Detto questo, l'esilio dell'advertising a San Paolo è una misura eccessiva che poteva essere evitata, e che comunque non durerà per sempre (come paventato anche dal battagliero sindaco Kassab). Ora, agenzie di pubblicità e inserzionisti farebbero bene a meditare sugli eccessi e a rimboccarsi le maniche per non farsi trovare impreparati al nuovo giro di vite che, presumibilmente, presenterà uno scenario con spazi più risicati e una legislazione più restrittiva.
Come? Beh, il dilemma è: come combattere la ridondanza visiva che inquina, stufa, avvilisce e svuota di significato? La risposta, come sempre in pubblicità, è una sola: creatività! Creatività dei mezzi e dei modi e non solo dei messaggi. Creatività irrispettosa dei clichè ma rispettosa del contesto ambientale in cui si esprime.
C'è bisogno di un nuovo paradigma. C'è bisogno di tendere verso nuove forme di advertising che sappiano inserirsi in modo discreto nel tessuto sociale e nello spazio urbano, che sappiano comunicare efficacemente senza "urlare", che si accompagnino armoniosamente all'ambiente circostante senza divenirne l'elemento preponderante (deturpandolo), e che, pur attingendo alla preziosa fonte della contaminazione globale, rispettino e rispecchino le peculiarità locali: architettoniche, culturali, estetiche.
E, perchè no, c'è bisogno di un advertising che sia capace di veicolare l'immagine dei prodotti diffondendo messaggi positivi, o quantomeno non indissolubilmente legati al trittico sesso-denaro-potere.
Sarebbe già un inizio!
Intanto São Paulo riscopre la sua identità e qualcuno ne ha approfittato per dare una mano fresca di vernice...
Tutte le foto provengono da un Set Flickr di Tony de Marco, São Paulo No Logo.
Fonti: Businessweek e International Herald Tribune