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  • Da brand a educatori: sui social i marchi possono creare community di valore

    Il ruolo delle aziende sta cambiando insieme alle community che hanno contribuito a far crescere

    6 Maggio 2019

    Nelle scorse settimane ha fatto molto discutere la vicenda che ha investito il moderatore della pagina Facebook di Inps per la Famiglia. Risposte piccate agli utenti che chiedevano informazioni (con termini e modi al limite del fantasioso, a dirla tutta) sul Reddito di Cittadinanza, e che hanno avuto un’eco pazzesca dato il clima politico non proprio disteso che si respira nel Paese. Come fare il pitch perfetto [HOW TO] La notizia è stata affrontata anche sulle nostre pagine e ha fatto riemergere l’annosa questione dei limiti che un community manager deve avere nell’interagire con la comunità che è chiamato a guidare, a maggior ragione se il contesto è un ente per i servizi pubblici.

    Se le marche diventano community, cambia il loro ruolo?

    Il caso esula dal semplice modo di gestire i social, e sconfina nel ruolo che le aziende e i brand recitano all’interno della nostra società. LEGGI ANCHE: Anche UniCredit non sarà più su Facebook, Messenger e Instagram. Ecco cosa ci hanno detto Quanto la marca (a maggior ragione se espressione di un ente pubblico) deve percepirsi come “educatore” degli utenti che interagiscono con lei? Quanto deve agire e lavorare consapevolmente allo scopo di contribuire alla crescita culturale, sociale, comportamentale? Questi quesiti sembrano essere lontani dal mondo di chi lavora. Anzi: si può dire che nel sistema economico moderno, tale quesito sia completamente fuori posto. Una marca, pur attenta agli aspetti legati alla sostenibilità ambientale, sociale ed economica, vede il suo proposito ultimo nel produrre profitto… o no? Certamente, il generare valore è parte integrante di ogni impresa. Negli ultimi anni, però, riflessioni come quelle di Samil Ismail su ExO e Massive Transformative Purpose hanno evidenziato quanto il ruolo delle aziende stia cambiando, a maggior ragione in considerazione delle community che attorno ad esse hanno saputo crescere. Il web ha influito molto sul ruolo delle community rispetto ai brand e alla crescita degli utenti che ne fanno parte. Nel libro “Reputazione, apprendimento e innovazione nelle imprese. Il ruolo delle online community”, edito da Franco Angeli, l’autrice Claudia Dossena evidenzia come vi siano tipi di comunità digitali che nascono e si sviluppano espressamente per “favorire la creazione e il trasferimento di conoscenza”. L’autrice ne cita nell’opera in particolare due tipi: “- Le comunità d’interesse (Pickering and King, 1995), il cui scopo è quello di diffondere informazioni d’interesse su uno specifico argomento, per esempio un forum tematico sul mercato borsistico; – le comunità di apprendimento (Brown and Campione, 1990) in cui, oltre allo scambio di informazioni d’interesse, vi è anche un bisogno di socializzazione fra i membri. (Dossena, 2012) Entrambe le tipologie citate dall’autrice presentano caratteristiche riferibili ai mondi di marca, dove un interesse comune (che parte da un bisogno), coagula utenti simili e li porta a interagire, favorendone in seguito anche la socializzazione e la crescita. Ciò passa, necessariamente, da una fase di creazione e co-creazione, di contenuti ed esperienze, che fa evolvere il ruolo dell’utente da semplice membro a co-creatore della community. Questo si evidenzia sempre di più non solo in ambito esterno, ma anche internamente alle stesse aziende, che vedono nelle proprie risorse umane un media attivabile e in grado di espandere il prestigio della marca attraverso la condivisione delle esperienze che maturano in essa, sia in contesti individuali che collettivi. Dietro ogni brand, quindi, si nasconde un tratto distintivo comune a tutti, quello della comunità che si nutre di esperienze, e che ne produce. La domanda che ci dobbiamo porre, quindi, non è tanto correlata alla netiquette da adottare per abitare (e gestire) tale comunità, ma quanto il fattore polarizzante degli individui che la abitano, la marca appunto, sia responsabile anche dell’evoluzione di suddetti individui. La risposta non è semplice, anche perché è evidente come il ruolo negli anni sia cambiato, e stia cambiando tutt’ora, di pari passo con le pretese che il pubblico avanza.

    Community di prodotto, community di valori

    Già in un articolo del 2013 su Business Insider, Mark Quinn faceva notare come il successo dell’iPad fosse arrivato non solo grazie alla bontà del prodotto, ma per il lavoro di “educazione” fatto da Apple sui propri consumatori per preparare alle nuove modalità di consumo il proprio pubblico. Un lavoro che ha portato a conquistare il mercato in tempi ragionevolmente rapidi. In questo caso, Apple ha fatto leva sulla propria capacità di coagulare interessi e passione della propria audience per sfruttare il proprio ruolo di guida, cominciando a stimolare la propria community verso un nuovo modo di concepire i device mobile (ricordate il mondo pre tablet?). Da un sottile lavoro di educazione dell’utente, la marca ha saputo trarre un vantaggio importante. Ma non poteva bastare. La community non può essere educata solo al consumo. Oggi i brand hanno fatto un passo oltre, e si schierano su livelli diversi, più alti, perché sono le community ad essi collegati a chiederlo.

    Dall’educazione al brand activism

    Prendiamo il fenomeno del brand activism, che ha visto un suo definitivo sdoganamento con il Muslim Ban e le relative prese di posizione di molte aziende americane. Un’occasione che ha messo in condizione i brand di esprimersi anche su piani valoriali e ideologici.
    La lettera inviata da Mark Parker, CEO di Nike, a tutti i dipendenti in occasione della promulgazione del Muslim Ban ad opera dell’amministrazione Trump.
    Dal 2016, sono passati solo tre anni. Eppure, parliamo di una tendenza ormai registrata da diversi studi, che ne attestato l’attualità. LEGGI ANCHE: La campagna Nike che sta facendo il giro del mondo, spiegata Secondo il rapporto di ricerca di Accenture Strategy From Me to We: The Rise of the Purpose-Led Brand, riportato da Impact lo scorso dicembre e basato su un sondaggio su un campione di 30.000 persone in 35 paesi, quasi due terzi (63%) dei consumatori preferiscono premiare le aziende che sono disposte a prendere posizione sulle questioni attuali. I risultati della ricerca di Accenture sono coerenti con uno studio di Edelman Earned Brand pubblicato all’inizio di ottobre 2018, che ha rilevato come il 64% dei consumatori in tutto il mondo prenderà una decisione di acquisto in base alla posizione sociale o politica di un marchio. I marchi, ormai, sono opinion leader per community non di consumatori, ma individui.

    Anche i brand ispirano come gli influencer

    Non solo influencer: ispiratori. Figure equiparabili a un leader politico, per certi versi. Entità cui rivolgersi con attenzione, perché in grado di incassare quel sentimento che ormai parte della stampa e sicuramente la politica hanno disperso con gli anni: la fiducia. Viste sotto questa luce, le marche non possono esimersi dal concepire il proprio ruolo nel mondo come responsabili di una crescita che va al di là del rapporto basato sul consumo, ma che arriva anche a livelli più ampi. Pensiamo allo sviluppo di esperienze collettive in cui brand e utenti si uniscono allo scopo di raggiungere uno scopo comune. e in cui la marca recita il ruolo di guida. Per questo è necessario prendere coscienza che ogni touchpoint di marca diventa occasione d’incontro dove lasciare ciò che di più virtuoso ed “educativo” possa esserci. Un’abitudine sana di consumo, o una semplice divulgazione di buone pratiche per far crescere la società: tutto ciò che può portare l’audience a crescere, sotto tutti i punti di vista.

    L’audience deve crescere non solo numericamente

    Da questo punto di vista, il community manager è uno dei ruoli essenziali per permettere alla marca di recitare questo ruolo, trasferendo nei meccanismi sociali che nella comunità si sviluppano i contributi che il brand può dare, allo scopo di elevarne lo statement. Questo deve avvenire se -a maggior ragione – a essere protagonisti sono enti pubblici, i cui spazi (digitali e non) diventano luoghi d’aggregazione e di scambio, in cui le persone possono veramente crescere e migliorarsi. Prodotti e servizi si stanno avvicinando sempre più a diventare non solo veicolo di soddisfazione di un bisogno, ma espressione di un modo di intendere il mondo. Per questo la community diventa il luogo in cui la marca può farsi portatrice sana di evoluzione ed elevazione, anche personale, dell’individuo e non solo del consumatore. Una visione che in quest’epoca di grandi sfide, in cui a esser messo in pericolo c’è molto di più che lo status quo di ognuno di noi ma l’intera civiltà (il Global Warming ci guarda…), può permettere, forse, anche all’intero sistema economico di riscattarsi dopo secoli in cui l’unico grande fine è stato il guadagno indiscriminato. Social Media manager Le aziende raggiungeranno tale livello di maturità? Sarà il tempo a dircelo. Nell’attesa, è meglio cominciare a guardare con occhi nuovi ogni community di brand: non più solo insieme di clienti, ma piccolo campionario di una società più liquida, e per questo più plasmabile su nuovi paradigmi. Magari, ci auguriamo, un po’ più virtuosi.