Nello streaming dei nostri social media è facile riavvolgere il nastro e assistere a momenti passati, oppure crogiolarsi, scrollando il presente del proprio smartphone. Uno studio dell'Università di Houston, pubblicato dal prestigioso Journal of Social and Clinical Psychology conferma il tabù: i social media provocano stress, e lo stress è causato dall'assistere allo spettacolo delle vite degli altri e della loro apparente felicità.
Quando osserviamo qualcuno, infatti, diventa inevitabile comparare la qualità della sua esistenza alla nostra. Ma se le informazioni che di norma dovrebbero restare private o inaccessibili diventano di dominio pubblico, il banco salta. I social media non creano giocoforza depressione, ma i sintomi depressivi tendono ad emergere attraverso un uso particolare di questi mezzi, unito ad una certa predisposizione (ed immaturità) individuale.
C'è bisogno di fare chiarezza e tirarsi su di morale: niente di meglio che una bella chiacchierata con Sebastiano Zanolli, manager e scrittore (QUI potete leggere la sua bio). Sebastiano non ama definirsi “motivatore”, ma i suoi libri e le sue serate riscuotono sempre più successo tra chi, la motivazione, un po' l'ha persa. Succede nella vita.
“Alcune persone che si confidano con me hanno dentro un vero disastro emotivo, eppure dalle foto su Facebook sembrano vivere solo di momenti felici. Sui social media assistiamo ogni giorno alla narrazione di qualcosa di cui, di fatto, non sappiamo nulla. La questione è semplice: quando sfoglio la mia home non do un'occhiata nelle vite delle persone, ma al racconto che esse stesse fanno delle proprie vite”. E la differenza è gigantesca: la gran parte della gente tende a postare i momenti felici - o meglio, quelli che possono apparire tali - tralasciando quelli negativi. Nel mezzo c'è una brutta bestia: l'invidia, amplificata in “un tempo in cui i social media ci portano a fare più attenzione a quello che non abbiamo piuttosto che a quello che abbiamo".
Se siete tristi per Facebook, un po' ve lo meritate
“I social media sono un potenziamento delle capacità umane sia in negativo che in positivo: possono muovere ad invidia ma anche fare del bene agli altri”, ci spiega Sebastiano. Alla fine della fiera insomma è sempre tutta questione di individui e maturità: “Sì, e se per caso scambiamo un istante di felicità per la totale felicità... la depressione un po' ce la cerchiamo. E forse ce la meritiamo pure”.
“Se credi che un completo intimo sia bello di per sé e non capisci che è bello perché indossato da una modella, il problema è solo tuo. Se scambi una foto di un istante per la totale felicità, il problema è sempre solo tuo”. La buona notizia, dunque, è che la responsabilità personale gioca un ruolo fondamentale, almeno finché la società resta libera.
Contro la pianificazione della felicità
Sono in molti a confondere il “diritto alla felicità” con il “diritto alla ricerca della felicità”, due concetti che sembrano simili ma che hanno un oceano nel mezzo: quello che separa le dottrine filosofiche e politiche nate dalla rivoluzione francese e quelle sbocciate in seguito all'avvento degli Stati Uniti d'America.
Lasciamo stare il diritto e concentriamoci sulla ricerca:
“Paragonare la tua situazione a quella di altri è un pensiero antico quanto il mondo: c'è qualcuno là fuori che ha un letto più caldo del mio. Per risolvere questa (fastidiosa?) situazione hai due possibilità: o vai allo scontro (rubi il letto!) oppure ti metti in gioco e, in un sistema di mercato - che dovrebbe garantire a tutti pari opportunità - provi anche tu ad avere un letto caldo (o più caldo!) del tuo vicino. Ricercare la propria felicitá è la pulsione più umana che ci sia".
Insomma, abbiamo noi in mano il pannello di controllo delle nostre vite e non serve che qualcuno (la società, lo Stato) ci dica cosa è bene o cosa è male per noi, perché siamo in grado di comprenderlo da soli.
“È normale ipotizzare che ci sia sempre un modo migliore di vivere e i social media diventano un vero e proprio potenziamento del tuo benchmark. Basta essere consapevoli che ogni 'classifica' ha in sé gli spazi per creare l'infelicità, ma anche i margini per stimolare a migliorarsi”.
“Il dirigismo non paga mai, rende solo più fragile il sistema. Non ci serve qualcuno che ci dica che non si devono mangiare certi panini perché troppo grassi, non serve un sistema che ci considera dei minus habens. Altrimenti non miglioreremo mai”.
Le persone dunque potrebbero essere meno fragili e facili preda di invidie e rancori? “Sì, se ci fosse più libertà”.
Quel passato che resta tra noi
Alzi la mano chi non ha mai avuto un sussulto quando, aprendo Facebook, si è trovato davanti a foto risalenti ad un passato molto spesso già in archivio. La conversazione, grazie ai social media e alle app di messaggistica, si arricchisce di immagini, video, geolocalizzazioni, audio etc. ma (non dimentichiamolo!) resta pur sempre una conversazione: ovvero qualcosa di transitorio.
I new media ostacolano questo precetto fondamentale, fissando la conversazione nel tempo e nello spazio. Non ci saremmo mai sognati di immortalare per sempre le chiacchiere dei sabati sera spesi con gli amici davanti ad una birra, eppure oggi, basta un selfie per fissare momenti che fino a poco fa non avremmo mai sentito il bisogno di conservare. Le conversazioni infatti nascono per esaurirsi, non per restare sempre tra noi; e il passato che si confonde col presente porta all'inquietudine.
“È vero, i social media ti mettono davanti ad un passato difficile da cancellare, tutto è tracciabile, tutto è registrato. Ma è un problema che non riguarda solo Facebook ma la tecnologia a 360 gradi, si pensi alla videosorveglianza, ad esempio, piuttosto che ai sistemi satellitari. La presenza di un passato costantemente 'presente' fa emergere in noi necessità di coerenza. Con molti rischi, come un'ipotetica fidanzata gelosa che ti chiede di attivare il Gps come prova d'amore. Se restano le tracce di ogni cosa che facciamo, decade un po' il paradigma della imperfezione e casualità della vita”.
Questi ragazzini tutti al cellulare: pensassero alle donne
In una recente chiacchierata con Cesare Cadeo, il celebre televenditore Mediaset ci ha confidato di non sopportare proprio tutti quei ragazzi che si siedono attorno ad un tavolo, a Milano, a fare l'aperitivo e preferiscono lo schermo del proprio cellulare alle belle ragazze che hanno intorno.
Sebastiano se la ride: “Io Cadeo, Michele Serra e tanti altri, siamo inadatti a dare lezioni. E sapete perché? Perché non capiamo nulla del mondo dei giovanissimi di oggi, allo stesso modo in cui i miei genitori non capivano nulla di me quando mi chiudevo in camera ad ascoltare 'Made in Japan' dei Deep Purple”.
Ogni epoca insomma ha le sue routine, i suoi linguaggi, i suoi riti che, visti da fuori, possono sembrare stupidi e insulsi. Ma attenti a non cadere nel relativismo: “Questo sforzo di comprensione non significa che tutto andrà bene”, conclude Sabastiano “Non sappiamo nulla delle vite di questi ragazzi ma probabilmente non lo scopriremo mai”.
Perché quando sarà tempo di fare bilanci saremo troppo vecchi o troppo stanchi. O la storia sarà andata troppo avanti e ai comandi della nostra mente - come ci insegna “Inside Out” della Pixar - ci sarà un'emozione nuova. Quanto più lontana possibile, ci auguriamo, dal palinsesto del sentimentalmente corretto.