I social media danno a tutti un palcoscenico nel quale esibirsi. Le aziende che danno credito ad ogni show quanto perdono in autorevolezza? Su questo tema, qualche settimana fa, alcune dichiarazioni di Umberto Eco hanno scatenato un bel polverone. Il famoso semiologo ha detto:
“I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. (...) Il dramma di Internet è che ha promosso lo scemo del villaggio a portatore di verità”.
Nonostante le numerose critiche, piovute specialmente dagli addetti ai lavori, il problema mosso da Eco esiste davvero e ci spiazza. Nella vita quotidiana e nel nostro lavoro “ragioniamo social”, impariamo ad usare questi nuovi mezzi e studiamo le loro dinamiche, ma le nostre superstizioni sono ancora legate ai bei tempi andati, dove l'unico mezzo per comunicare era un cartellone, un tabellare o uno spot. Spieghiamoci meglio.
Il web democratico
Il rapporto tra pubblicità e fruitore, nella comunicazione tradizionale, poteva e può essere riassunto nel binomio propaganda-popolo. Ai cartelloni nelle strade nessuno può rispondere (se non con una bomboletta spray!) ma nel web ogni consumatore la fa da padrone, può esprimere le proprie opinioni, invettive, critiche e osservazioni allo stato brado; non importa quanto sensate, non importa quanto sgrammaticate, non importa se autentiche o artefatte ad hoc per qualche scopo.
Prima dell'avvento dei social media la comunicazione era unidirezionale: il brand mandava un messaggio, il consumatore (o potenziale tale) riceveva. La massima interazione era il telecomando.
Oggi il rapporto emittente-ricevente è decisamente mutato: siamo stati catapultati in strani giorni dove i marchi, i brand e le aziende - che per anni hanno contribuito a costruire il nostro immaginario POP - adesso ci rispondono, si umanizzano, scendono dal piedistallo e si fanno raggiungibili.
Il nostro pensiero potrà anche essere social ma le nostre abitudini sono ancora da carta stampata, prova ne è il fatto che sempre più spesso non sappiamo pesare l'importanza di ciò che viene scritto da un utente qualsiasi. Diamo eccessivo valore ad ogni messaggio, quasi alla stregua di una lettera al giornale, scritta da una personalità importante. Non sappiamo distinguere chi ha una voce importante da chi non la ha perché ci hanno insegnato che nel web democratico sono tutti uguali e tutti meritano una risposta educata, esaustiva e politicamente corretta.
Rassicuriamo ogni troll: sì, i vostri messaggi mandano in tilt le aziende
C'è qualcosa che non va: questa invasione dal basso non l'avevamo prevista, ci piace la democrazia ma ne siamo stati travolti. Viviamo in un quotidiano paradosso per cui ogni messaggio diventa improvvisamente oro. Non è raro vedere casi, all'interno di aziende, dove un post sui social, una mail o un commento di critica finiscono per paralizzare per ore alcuni reparti, la cui priorità schizofrenica diventa improvvisamente quella di rispondere in maniera adeguata al primo pazzoide di turno. Tutto tempo sottratto alle cose ben più importanti da fare nel lavoro di tutti i giorni. Possiamo dunque rassicurare i troll: sì, le vostre tattiche vanno a segno.
Il paradosso del social media manager e della commessa
Il customer care "alla Gianni Morandi", diciamoci la verità, è un gioco che non vale la candela, oltre ad andare a beneficio di ignoranti e provocatori. Si arriva al paradosso: su Facebook le aziende rispondono “Ciao carissimo, salute!” se un utente scrive “Etciù!” ma quando lo stesso utente si reca al negozio, spesso e volentieri, la commessa gli regala a malapena un “Buongiorno”. In certi casi il nostro consumatore offline avrà persino la sensazione che lo staff del punto vendita gli stia facendo quasi un favore.
La scollatura tra online e offline è forte e la prassi di rispondere a tutti la rende ancora più profonda: non siamo negli USA dove in qualsiasi catena sei accolto da calorosi sorrisi a trentadue denti e “How are you doing?”. Perché sono addestrati e pagati per farlo, direte voi. Certamente: in Italia manca proprio questo training trasversale che rende la conoscenza del brand coerente con l'esperienza d'acquisto. Tuttavia la rete vendita non è un social media manager, e viceversa.
Chi ha ragione: le aziende e le loro agenzie o l'esercito delle commesse? Forse nessuno dei due.
La crisi dell'autorevolezza
Se il brand vuole umanizzarsi non dovrà sembrare finto: il social media customer care a tutti costi, il politicamente corretto, le risposte sempre-comunque-a-chiunque non sono naturali. Come non sarebbe naturale se nella vita quotidiana rispondessimo a tutti con lo stesso garbo e il medesimo tono di voce: ci prenderebbero per matti! La democrazia rende dunque il web più distante dalla realtà e non certo più umano, come vorrebbero le aziende.
La distanza sociale tra interlocutori è sempre stata una variabile fondamentale per cogliere le sfumature della comunicazione e il tono della conversione: l'asimmetria di linguaggio è invece bandita dal nuovo servizio clienti virtuale in favore di un livellamento verso il basso; il brand è come la gente, è uno di loro e parla come loro (magari con qualche congiuntivo in più, ma comunque come loro). È una rese all'ignoranza? È una manifesta debolezza?
Lo abbiamo chiesto al prof. Carlo Lottieri, filosofo e docente all'Università di Siena e Lugano.
“È in atto una crisi dell'autorevolezza, a tutti i livelli. Faccio l'esempio dei media: un tempo c'era l'articolo di fondo del Corriere della Sera, c'era chi lo apprezzava e c'era chi lo contestava ma rimaneva un punto di riferimento. Oggi quel pezzo c'è ancora ma i lettori sono cambiati e spesso li ritroviamo a preferire a Galli della Loggia la lettura dello status su Facebook di qualche amico, che reputano più interessante e in sintonia con il proprio pensiero. Tutto questo è il risultato di una società incapace di selezionare, che pretende che un commento scritto su TripAdvisor abbia lo stesso valore di una recensione sul Gambero Rosso. Ma una società che non seleziona non può funzionare”.
Che guaio la società incapace di selezionare
La democrazia a tutti i livelli sembra la vittoria finale della società aperta, per dirla con Popper. Eppure non è così. Tolleranza non significa essere tolleranti con gli intolleranti. Al famoso filosofo liberale non sarebbe andato giù il social media customer care, almeno come è in voga adesso.
La società aperta infatti affida ad ogni individuo un grande dono e, al tempo stesso, un grande fardello: la responsabilità individuale. L'autorità delle proprie coscienze guida il comportamento. Ma se viene meno questo senso di responsabilità cosa accadrà alla moltitudine di persone, che non trovano né al proprio interno né all'esterno, alcun appiglio d'autorità?
Succede che il pubblico smette di esser tale e diventa folla. La distinzione non è sottile: il pubblico è formato da più individui, spesso distanti tra loro anche fisicamente, e spesso capaci di elaborare diverse opinioni, non correlate le une dalle altre. Le opinioni del pubblico (esempio: le lettere ad un giornale, le chiamate ad una radio) erano, e sono, variegate. La folla invece ha un atteggiamento uniforme, sia nella gioia che nella tensione (si pensi ad un concerto o ad una partita di calcio). I social media – in certi contesti – possono rendere il pubblico una folla: si può arrivare persino ad episodi di “pestaggi virtuali”, come ad esempio nel caso di Lorella Cuccarini insultata pesantemente (da un folla inferocita, si sarebbe detto) per avere difeso il “Family Day” su Twitter.
L'ignoranza strutturale e l'ignoranza razionale
Cosa dovrebbero fare le aziende di fronte al fenomeno dilagante dei clienti analfabeti, ignoranti, arroganti? L'ignoranza è una colpa? Continua il prof. Lottieri:
“C'è un'ignoranza strutturale e un'ignoranza razionale: quella razionale è tipica della politica: non posso sapere tutto del candidato o del programma, perché non ho tempo, e quindi voto secondo schemi predefiniti (destra/sinistra, più Stato/meno Stato). Poi c'è l'ignoranza strutturale che non ha a che fare con la pigrizia. Le aziende spesso sono vittime di quest'ultima”.
Se le aziende, rispetto ai politici, hanno “certamente più interesse nel rispondere a tutti” è necessario venire fuori dall'impasse del web democratico. Le “legioni di imbecilli”, per tornare alle parole di Eco, prosperano intorno a noi e il sorriso posticcio non è l'arma giusta per combatterle. Ammesso che si voglia affrontarle e non continuare ad assecondarle, ammettendo la nostra crisi di autorevolezza.
Una democrazia ponderata per il web
La democrazia sul web si trova ad un bivio pericoloso da cui è necessario venire fuori con nuove condotte. Il concetto di democrazia ponderata, ad esempio, rifiuta l'idea che il mio voto e il mio giudizio abbiano pari valore di quello di un premio Nobel, ad esempio; sono le capacità e la storia di ciascuno a raccontare quanto un giudizio possa essere competente o ignorante, giusto o sbagliato, fazioso o equilibrato. Il tentativo di dare nuovamente una gerarchia di importanza alle cose e alle persone non ha nulla di autoritario, anzi, ripristina la coerenza con la realtà quotidiana in cui noi - anche come imprenditori - discriminiamo (legittimamente) chi o cosa non ci va a genio, chi non si rivolge a noi con un tono adeguato o chi non ci è utile.
Un approccio che sui social media potrebbe essere vincente? Chissà.
Rimane il fatto che l'umanizzazione dei brand ha reso il tono di voce dei marchi falso e mieloso, drasticamente incoerente e distaccato dalla realtà. Riportare in equilibrio questa bilancia, e combattere per salvaguardare l'autorevolezza delle marche, sarà una delle principali sfide del futuro che ci attende.