Marco Magnaghi si occupa di Media e Digital. Sin dal 1996 si dedica con passione al web, affiancando agli studi le prime esperienze con portali e start up. Dopo la laurea in Economia lavora nel mondo del Consulenza Direzionale e del Largo Consumo, dove si occupa non solo di strategia aziendale, marketing, innovazione, comunicazione e digitale, ma anche di formazione. Ai manager e i professionisti offre una visione sui trend evolutivi e spiega loro come calarli concretamente nei processi aziendali di comunicazione e contatto. Sarà lo special guest della seconda giornata del Corso Intensivo in Social Media Marketing della Ninja Academy. È autore del libro Social CRM, email, social media e web 2.0: creare nuove relazioni con i clienti, edito da Hoepli.
Marco, ne parlano tutti con disinvoltura, ma a mio avviso pochissimi ne hanno una piena consapevolezza. Che cosa intendiamo per big data?
Bella domanda. Ti posso rispondere in modo accademico, dicendoti che i big data si chiamano così perché sono misurabili in termini di Petabyte (non è una parolaccia: sono un migliaio di terabyte, ovvero 10 alla quindicesima byte) o addirittura Exabyte, Zettabyte, YottaByte (1024). Nella realtà, sono pochissime le aziende che hanno moli di dati così importanti. Più utile, quindi, pensare ai Big Data, come dati destrutturati (che non seguono regole, formati, standard) e che cambiano spesso nel tempo, come tutti i commenti sui social network, blog, forum. Per fare un esempio, pensiamo ai tweet prodotti durante la partita d’esordio della nazionale Italiana contro l’inghilterra: 415.000 tweet, apparentemente una infinità, ma pur sempre gestibili, per lo meno a livello basico, all’interno di un file di MS Excel 2010.
Il Big Data è quindi una moda (basta fare una ricerca su Google Trends per vedere l’impennata dell’interesse attorno a questo tema) ma è comunque un fenomeno positivo perché rappresenta l’evoluzione di un modello culturale che tende alla raccolta dei dati e alla valorizzazione e traduzione in informazioni.
Dal CRM al Social CRM: quanto e come sta cambiando il modo di trasformare strategicamente in output i dati dei clienti?
Il CRM è una di quelle parole che andavano molto di moda anni fa, che serviva per descrivere la “cura del cliente” in generale, dal call center che risponde ai problemi alla raccolta punti che dà diritto a sconti e premi.
Nulla di nuovo. Sin dai tempi antichi i commercianti si prendevano cura dei loro clienti, dai mercanti che conoscevano per nome i loro clienti e le loro preferenze, a forme di fidelizzazione come le raccolte punti: le prime si fanno risalire al 1793 quando, nel New Hampshire, un commerciante offriva ai suoi clienti piccoli gettoni di rame che potevano essere collezionati e poi convertiti in prodotti gratuiti. La collezione della prova di acquisto cartacea vera e propria, utilizzata ancora oggi, si fa risalire alla Babbitt Company, la produttrice del primo sapone da bucato confezionato: nel 1851, raccogliendo 25 involucri del sapone, si riceveva in regalo una litografia a colori.
Il CRM “moderno” in Italia nasce negli anni ’90, con l’introduzione dei programmi di fedeltà basati su carte elettroniche esibite in cassa, che permettono ai consumatori di collezionare i punti a ogni loro acquisto, per poi accedere a sconti o premi, e alle aziende di raccogliere i dati in modo strutturato per analizzare le abitudini dei consumatori.
Per farti un esempio di quello che si può fare con i dati delle carte fedeltà: negli Stati Uniti il retailer Target ha messo a punto un modello, attraverso raffinate tecniche statistiche di data mining, che permette di calcolare un “pregnancy index” sulla base di alcuni acquisti che devono avvenire in contemporanea: latte detergente, calcio, zinco e magnesio, sapone, grosse confezioni di cotone idrofilo, salviettine, liquido igienizzante per le mani, una borsa più grande del solito, e altri prodotti. Nessun acquisto, da solo, fa pensare che la persona dopo 6 mesi avrà un bambino ma, dall’acquisto combinato di questi articoli, si può predire con un’attendibilità dell’87% dei casi che la cliente partorirà. Bisogna però andarci piano. Se legalmente un’azienda può raccogliere e analizzare i nostri comportamenti e preferenze, con il consenso dei clienti, altra cosa è assumere un atteggiamento commerciale troppo aggressivo: sempre negli Stati Uniti, un padre ha scoperto che la figlia sedicenne era incinta quando gli sono arrivati a casa solamente buoni sconto di vestitini e pannolini da spendere nei punti vendita di Target!
Si intuisce che il numero di informazioni che seminiamo ogni giorno su web e social media – le pagine che visitiamo, i form che compiliamo, i post che commentiamo, gli amici che abbiamo, ecc – offrono molte più informazioni rispetto a quelle descritte dai nostri acquisti. Ecco il potenziale del Social CRM: un patrimonio di informazioni incredibili che va gestito con cura per trovare nuovi clienti e fidelizzarli. L’abuso di questo approccio rischia di generare l’effetto “Grande Fratello” e quindi, la perdita del cliente.
É il ritorno alla conoscenza diretta del consumatore, per nome e cognome, dei suoi gusti e preferenze, anche se mediato dalle tecnologie e applicabile a milioni di clienti e reso possibile anche grazie ai Big Data.
Big data e PMI: quali sono le aspettative delle aziende italiane?
I dati, snelli o ciccioni che siano, servono per perseguire degli obiettivi. Il primo passo per aziende grandi o piccole è capire quali obiettivi ottenere: desidero incrementare l’apertura delle mail dirette (DEM)? Posso farlo richiedendo maggiori informazioni ai miei clienti, capirne gli interessi e suddividerli in segmenti e comunicare in modo più affine alle loro aspettative. Voglio proporre un nuovo prodotto e favorirne la prova? Posso proporre buoni sconto digitali e valutarne l’efficacia in tempi molto rapidi, modificando l’offerta o il valore dello sconto. Voglio pubblicizzare un mio prodotto ma solo in una città e per una precisa tipologia di consumatori? Posso creare inserzioni specifiche attraverso Facebook e ottimizzare gli investimenti, senza disperdere i messaggi. La metodologia di lavoro è la stessa sia per le grandi multinazionali che per le microimprese, perché le domande di base sono le stesse: come farmi conoscere? Come rendere rilevante la mia offerta? Come essere commercialmente più efficace? Sia per vendere un biglietto di un traghetto, sia per vendere un corso di cupcake (esempi non a caso perché descritti nel libro) la conoscenza del mio cliente mi può assolutamente agevolare. Una PMI può quindi iniziare inserendo una form di registrazione sul proprio sito, magari in una pagina un po’ curata e con un incentivo alla registrazione, e da lì fare analisi, dotarsi di uno strumento di email marketing (ce ne sono di gratuiti fino a 2000 invii), e provare a comunicare in modo diretto.
Social Media Marketing: quali tool deve utilizzare il marketer moderno?
Il tool principale è il buon senso: evitare di approcciare tutte le novità, tutti i nuovi canali “perché ci sono tutti” o perché “ ci stanno andando tutti”. Occorre capire cosa serve realmente all’azienda per raggiungere i risultati di marketing e, auspicabilmente, di business. Il Marketer deve quindi pretendere l’allineamento con gli altri colleghi, per essere certo che il suo lavoro sia utile all’azienda e possa realmente contribuire al raggiungimento di risultati importanti.
In termini operativi, per quanto concerne l’analisi dei risultati, web e social media prevedono nativamente degli strumenti per valutare l’andamento e la qualità delle visite, il numero di persone coinvolte in un social network, la progressione delle acquisizione, l’engagement rate, etc. La Social Analytics è la fase successiva, per chi desidera confrontare i propri risultati con quelli dei competitor o di pagine significative a cui ispirarsi. Per quanto riguarda il dialogo, all’aumentare del numero di pagine e account social gestiti serve introdurre strumenti per gestire centralmente la linea editoriale: penso a tool come Hootsuite.
Per quanto concerne il contatto diretto, disintermediato rispetto ai Social Network, imprescindibile è strutturare il sito web con landing page fatte bene, che chiedano poche informazioni e, possibilmente, diano incentivi alla registrazione (ebook, digital goods, concorsi, ecc). Con strumenti di email marketing si cerca di chiudere il cerchio: ho comunicato via social o via adv, ho offerto la possibilità per gli utenti di registrarsi, ho un database che posso usare per contattare direttamente le persone attraverso e-mail dirette.
Questo è l’insieme minimo di strumenti per chi voglia fare efficacemente il marketing (digital o social, anche se mi chiedo per quanto tempo continueremo a dover usare questo aggettivo).
Social Media marketing e lavoro: quali sono le figure richieste dal mercato e quali competenze devono possedere?
Qui lascio la parola a chi ne sa molto più di me. Non a caso nel libro intervisto Giulio Xhaet che, con il suo “Le nuove Professioni del Web”, risponde in modo puntuale a questa domanda. Mi limito a dire che i Data Analyst (per poi approdare ai Data Scientist) oggi possono essere molto utili quando si cerca di ottenere di più dal Digital Marketing in generale. Non intendo solo persone laureate in statistica o matematica con il massimo dei voti, ma chiunque sappia usare in modo un po’ evoluto excel: dalla classica Pivot e Vertical LookUp all’uso dell’R quadro (cose che si possono imparare tranquillamente, senza ambire a lanciare i razzi nello spazio).
Big data e contextual advertising: è possibile un approccio cookie-less, che rispetti la privacy dei clienti e dei prospect? Se sì, come?
Il tracciamento dei cookies è una realtà imprescindibile. Esistono tecnologie super spinte e raffinate per conoscere le persone e fornire messaggi pubblicitari il più affini possibili alle caratteristiche delle persone: visto che dobbiamo essere esposti all’adv, tanto vale che sia interessante! Programmatic Buying, Real Time Bidding.
L’ultima parte del tuo libro è destinata al Social caring: quali sono le nuove frontiere del customer care?
A lungo le aziende hanno creduto di poter usare i canali social per dialogare, ma nel rispetto di una linea editoriale pre impostata in modo unilaterale. Poi le persone, secondo le previsioni del Cluetrain Manifesto del 1999, hanno iniziato a saperne più delle aziende, a manifestare insofferenza e a pretendere spiegazioni. Rispetto alla riservatezza dei call center, una lamentela su una pagina di Facebook o su Twitter è pubblica, quindi potenzialmente dannosa per la reputazione aziendale. La censura è l’ultima delle possibilità, come dimostrato da alcuni casi clamorosi di qualche anno fa, e l’unico modo per mostrare credibilità è rispondere tempestivamente alle sollecitazioni praticamente in tempo reale o quasi: alle persone poco importa se una risposta, per essere confezionata, dovrà passare attraverso 4 uffici diversi in azienda. Tecnicamente le aziende posso usare direttamente Facebook o Twitter per rispondere, o trovare supporto nelle tecnologie dedicate (un esempio: www.socialbullguard.com), che ha senso utilizzare solo se viene definito un processo che regoli chi prende in carico le richieste, a chi devono essere inoltrate, chi deve rispondere, secondo quali tempistiche e canoni di risposta.
Vincenzo Cosenza, di BlogMeter, pubblica regolarmente una ricerca dove evidenzia le aziende da prendere come esempio, in termini di quantità di risposte assolute e relative e di tempo medio di risposta. Alcune nuove tecnologie a disposizione per fare Social Caring, o Social Customer Care, offrono anche la possibilità di tracciare le richieste pregresse, vedere se e quante volte le persone hanno richiesto assistenza (evidenziando, quindi, i “perditempo” e chi ha la “lamentela facile” da chi ha davvero bisogno), valutare il klout score di chi scrive e collegare il profilo al CRM aziendale, per segmentare le richieste e valutare anche diversi gradi di urgenza nella risposta da fornire. Può non piacere l’idea che chi abbia un Klout score più alto potrà, teoricamente, ottenere una risposta prima di altri. In effetti, anche chi ha tessere gold nei programmi di raccolta punti e chiama i call center, quasi sempre ha una corsia “preferenziale” nella risposta.
Marco, svelaci qualche curiosità dal mondo dei big data.
L’università di Cambridge ha pubblicato uno studio nel 2013 dove emerge come è possibile descrivere i tratti della personalità dalla semplice analisi dei Like degli utenti di Facebook.
Gli attributi analizzabili sono l’orientamento sessuale, l’origine etnica, l’orientamento politico, la religione, il livello di soddisfazione della propria vita o anche l’uso di sostanze stupefacenti. Il modello proposto può essere applicato a qualsiasi insieme di dati in grado di descrivere una nostra preferenza, come le ricerche via web, la musica ascoltata in streaming (vedi i dati della carta fedeltà di Target, descritti in precedenza). La differenza è che i dati di Facebook sono pubblici e, attraverso Facebook Connect, sono facilmente ottenibili, sempre previa autorizzazione delle persone. L’aspetto curioso è vedere che chi ha fatto Like su “Thunderstorm”, o anche su “curly fries” appaia mediamente più intelligente degli altri; chi invece ha tra i suoi like “I love being a mom” o “Lady Antebellum” risulterebbe invece meno intelligente.
L’algoritmo è stato sviluppato implementato da una start up Italiana, Cube You e può essere testato andando sul sito. Le applicazioni per le aziende sono interessanti: possono accedere a tutti socio-demo-psicografici delle persone, che accettano volontariamente il trasferimento dei dati, e possono quindi capire con chi si sta parlando, segmentare l’utenza in funzione delle caratteristiche e comunicare meglio.