Se i media tradizionali assumono ancora oggi un ruolo preponderante nella propaganda politica, i social sono diventati un terreno per sperimentare una comunicazione più diretta con l’elettorato attraverso l’uso di un linguaggio più immediato e la possibilità di costruire una narrazione di sé che sia coinvolgente e con la quale l’audience possa facilmente identificarsi.
È grazie ai social media se assistiamo a un cambiamento nel modo di interagire online tra elettore ed eletto, se è possibile non solo veicolare contenuti in una maniera più fruibile ma anche studiare la propria audience basandosi su una serie di dati analitici disponibili in tempo reale, capaci di restituirci una visione complessiva dell’evoluzione di uno scenario politico, di un territorio, di un candidato e dei suoi potenziali elettori.
Ecco che gli utenti social diventano sempre più il nucleo centrale della strategia di ogni azione politica, da cui ormai non si può prescindere.
Cambiano le forme e le strategie di comunicazione online e sempre più il personaggio politico che decide di essere sui social è soggetto alle stesse "regole" che vengono applicate a qualsiasi brand.
Diventa fondamentale, allora, riporre la massima attenzione a ciò che si vuole comunicare e al modo in cui lo si fa, perché un semplice post di Facebook di cattivo gusto o un tweet sbagliato possono diventare delle armi pericolose nella mani di chi comunica e conduce una campagna elettorale, scatenando un vero effetto boomerang sull’immagine del candidato o del partito che rappresenta.
Ma in che modo le piattaforme di social media stanno cambiando la politica?
Alla fine è la pubblicità che è cambiata (le lobby no)
Negli anni '80 c’erano la televisione, i quotidiani, le radio. Oggi, grazie agli strumenti social i politici possono permettersi di parlare direttamente agli elettori senza filtri, ma soprattutto di aggirare gli elevati costi che una campagna elettorale tradizionale prevede, e di investire nella pubblicità sulle piattaforme social.
Del resto siamo ben consapevoli dei gruppi d’interesse che da decenni investono in pubblicità "politica". Negli Usa, le più grandi lobby interessate a questo settore sono perlopiù oppositori del controllo delle armi, compagnie energetiche e farmaceutiche.
YouTube costa meno di tv e radio
Ma, a prescindere dagli interessi dei singoli gruppi, è diventato molto più semplice e meno oneroso gestire campagne politiche investendo, ad esempio, in annunci pubblicitari da poter pubblicare gratuitamente su Youtube anziché pagare per essere presente in tv o in radio. Gli stessi giornalisti che coprono le campagne politiche oramai attingono dalle informazioni che ricavano dopo aver visto un messaggio pubblicitario passare su YouTube o su un altro altro canale, per poi trasmetterli in radio o scriverne sui giornali, veicolando quello stesso messaggio a milioni di persone.
Un ottimo strumento e un vantaggio per i politici che così abbattono parecchi costi, guadagnando in visibilità.
I rischi
Le pubblicità a pagamento hanno però un risvolto della medaglia. Basti pensare al cosiddetto fenomeno del Russiagate, l’indagine sul presunto coinvolgimento della Russia nella campagna elettorale americana del 2016 per ostacolare Hillary Clinton e favorire la vittoria di Donald Trump. Proprio in questi giorni, a seguito dell’incriminazione di Paul Manafort, l’ex capo della campagna Trump che rischia ottanta anni di carcere per 12 capi di imputazione fra cui riciclaggio di denaro e cospirazione contro gli Stati Uniti, i tre giganti della Silicon Valley, Facebook, Twitter e Google, sono stati chiamati a testimoniare nell’ambito dell’inchiesta condotta dal Senato americano.
Un’indagine alimentata dalla stessa testimonianza depositata da Facebook presso la commissione Giudiziaria del Senato, in cui emerge che circa 126 milioni di americani, più o meno la metà dei potenziali elettori, durante l’ultima campagna elettorale avrebbero ricevuto su Facebook contenuti ‘sponsorizzati’ dalla Russia, per un valore di 100.000 $.
Ecco che ci si muove su un terreno scivoloso, perché se è vero che le opportunità legate agli investimenti sui social sono sempre più elevate e allettanti, è anche vero che che le azioni che vengono messe in atto su queste piattaforme spesso sfuggono al controllo di chi li governa, ponendo una serie questioni sulla tenuta democratica di quello che ormai è a tutti gli effetti un luogo pubblico, la piazza virtuale in cui la politica deve essere presente per cercare il consenso.
Viene in ogni caso da chiedersi se quello in cui ci muoviamo sia un luogo di espressione di libertà, di ascolto, interazione e condivisione o piuttosto un mondo senza regole, in cui tutto è concesso, l’epoca del Far West sul web.
Quanto pesa (controllare) l'opinione pubblica
Quando il 22% della popolazione mondiale usa Facebook, l’88% di chi fa affari utilizza Twitter, e YouTube raggiunge una fascia di persone così ampia da superare qualsiasi network televisivo negli Stati Uniti, diventa fondamentale capire il ruolo giocato dai social media nel processo di consolidamento delle nostre percezioni politiche.
Queste piattaforme sono diventate oramai strumentali all’organizzazione delle campagne elettorali. Una semplice condivisione o un retweet permettono di veicolare notizie e informazioni ad una velocità tale da raggiungere facilmente la viralità.
Ad esempio, Trump
Se guardiamo a ciò che è accaduto negli Usa, ci rendiamo conto di come Donald Trump sia il re di questa strategia politica in cui i social media hanno ricoperto un ruolo predominante, determinando la sua vittoria elettorale. E questo nonostante le mille gaffe, i post polemici o volti a disprezzare i suoi ‘nemici’, di cui Twitter è stato un po’ l’emblema e il protagonista. Non viene da sorprenderci, quindi, che la sua vittoria era già stata decretata su queste piattaforme, ancor prima di arrivare alle elezioni.
Ma quanto l’opinione pubblica online è in grado di incidere realmente sul successo elettorale di un candidato?
Oggi nessun politico si sbilancia troppo prima di capire che opinione ha il suo elettorato su determinate questioni, in modo da pianificare come muoversi strategicamente per conquistare la propria audience. Ed è qui che Facebook e Twitter entrano in gioco, perché, ricorrendo ai dati analitici, sono in grado di misurare come risponde il pubblico a tutto ciò che facciamo, di cui parliamo, che postiamo; è grazie a questi strumenti se i candidati possono mettere in atto un aggiustamento delle loro campagne, e soprattutto di farlo in tempo reale, riducendone i costi anche in termini economici.
Del resto, Trump, una volta compreso il potere di questi strumenti, ha adattato la sua retorica per rispecchiare i valori e gli interessi dei suoi follower.
Ma già prima di lui, l’allora candidato in corsa alle presidenziali, Barack Obama, aveva ben colto l’importanza dei social, tanto da metter in piedi una delle campagne mediatiche più significative, in cui l’uso magistrale dei social media fu determinante per l’imposizione della propria agenda. Grazie ad una narrazione incentrata sulla sua figura come sinonimo di cambiamento, Obama arrivò a costruire una intera rete di fan/elettori che lo aiutarono a vincere prima le primarie e poi la competizione per la presidenza.
Gli strumenti social hanno inoltre fatto sì che, in virtù della sua funzione di ‘aggregatore sociale’, gruppi di persone legate da medesimi interessi e obiettivi si unissero per presentare una petizione al governo e ai loro funzionari eletti, facendo leva sulla loro numerosità per arginare l'influenza dei gruppi di pressione o degli interessi dei più ricchi.
Non che ciò abbia minato il reale potere dei lobbysti, che da sempre detengono un grande vantaggio negli Usa, ma di certo si inizia a comprendere come poter utilizzare queste piattaforme per permettere a cittadini di agire in una maniera che sia altrettanto incisiva e potente.
Il legame tra brand e politica
Cosa hanno in comune i brand e le scelte dei consumatori con la politica? È possibile traslare una strategia di brand awareness sulla figura di un personaggio politico?
Negli Usa è stata recentemente pubblicata una ricerca condotta da due docenti di marketing della Columbia Business School, Oded Netzer e Verena Schoenmuelle, incentrata sul ruolo che stanno assumendo i social media nella politica americana, a un anno dalle elezioni.
I ricercatori partono dal presupposto che le opportunità di imparare qualcosa rispetto agli atteggiamenti e ai comportamenti dei consumatori, a partire dai dati a disposizione sui social media, sono effettivamente aumentate. E così, analizzando l’interesse degli utenti di Twitter per determinate marche o personaggi politici (Donald Trump, Hillary Clinton, Bernie Sanders…), gli studiosi hanno mostrato come tutte queste informazioni potessero essere utilizzate al fine di comprendere e identificare la posizione politica di ogni specifico brand.
Come spiegano i ricercatori: “La nostra ricerca ha esaminato i follower su Twitter sia di Donald Trump che di Hillary Clinton, così come le fonti di informazione e i brand che i loro sostenitori seguono: complessivamente sono 648 i brand seguiti da 19 milioni di sostenitori di Trump e della Clinton”.
Ed è proprio attraverso lo studio incrociato di questi dati che si è potuto delineare il profilo dei rispettivi follower dei due candidati.
“Gli universi di marca”, come li hanno definiti i due docenti, di Donald Trump e di Hillary Clinton “supportano le credenze comunemente diffuse riguardo ai profili e agli aspetti demografici dei sostenitori dei due candidati. Ad esempio, i follower su Twitter del presidente Trump registrano una forte affinità con alcune marche alcoliche quali Budweiser, Coors, Jim Beam e Marker’s Mark; brand legati al mondo dello sport quali Ping, the Golf Chanel and Fox Sports, o a quello dei media e della finanza come SmartyPig, Mint, MarketWatch, Fox Business e il Drudge Report. Mentre i follower del segretario Clinton, hanno mostrato un forte interesse per quelle marche che vengono associate alle donne e ai millennials quali Gap, Maybelline, Cover Girl, J. Crew e canali mediatici rivolti ad un pubblico liberale come The Atlantic, Vox, Aljazeera America and Ebony Magazine”.
Successivamente i ricercatori hanno hanno collegato l’associazione brand-politico con i dati dei consumatori del modello Young & Rubicam’s Brand Asset Valuator (BAV), e sono riusciti a dimostrare come la ‘personalità’ dei brand seguiti dai follower dei diversi politici rispecchiasse la personalità dei politici stessi. Inoltre, i ricercatori si dicono anche in grado di comprendere cosa voterà un utente in futuro con un’alta possibilità, a partire dalle sue preferenze sui social media.
Tutte informazioni che possono divenire utilissime nelle mani dei brand manager, o di chiunque si occupi di definire una strategia politica basata sulla costruzione di relazioni più forti con i propri clienti/consumatori/elettori.
Dunque, in futuro, la partita della comunicazione politica si giocherà sempre di più sui social, grazie all’utilizzo di dati profilati, alla possibilità di targetizzare in maniera sempre più precisa la propria audience, di influire sul loro ‘comportamento’ e predire le loro scelte.