Le fake news (e il modo di combatterle, o quantomeno contenerle) hanno dato il via a un acceso dibattito che si è intensificato nelle ultime settimane.
Notizie false, bufale, opinioni superficiali o distorte, si diffondono velocemente e a macchia d’olio. La verità oggettiva sembra non contare più, o ha comunque un peso minore rispetto a notizie che sollecitano reazioni emotive o sono affini a opinioni personali già radicate. È l’era della post-verità.
Secondo gli esperti tra il 2015 e il 2016 l’aumento dell'uso di questa parola (post truth, in inglese) è stato di ben il 2000% e non a caso è stata scelta come parola dell’anno 2016 dall’Oxford Dictionary.
Non analizzeremo qui la genesi e le ragioni di questo fenomeno. Le bufale, le fake news o, (come si chiamavano una volta) le leggende urbane, le dicerie e i pettegolezzi sono sempre esistiti e probabilmente sopravviveranno alla guerra che è stata loro dichiarata, tra i tanti, anche da Facebook.
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Sono le armi che si propone di usare in questa guerra, quelle che preoccupano. Armi che rischiano di annientare non solo le post verità, ma anche la struttura (Internet e i social) che supporta la loro diffusione e con essa anche la verità intesa come fatto o conoscenza verificabile e dimostrata.
La situazione è sicuramente difficile e complicata.
Nel maremagnum di notizie e informazioni circolanti non è sempre semplice rilevare cosa sia attendibile e cosa non lo sia.
Il fact checking sembra essere una attività snobbata dai più e coltivata solo da alcuni che, se particolarmente appassionati, diventano debunker, cacciatori (e annientatori) di bufale, spesso però ignorati, derisi o, peggio, minacciati dai padroni delle post-verità..
Non solo pigrizia nel verificare i fatti però: un altro forte contributo alla diffusione delle post verità proviene da un sempre più diffuso analfabetismo funzionale, l’incapacità per chi ha completato un percorso di scolarizzazione di usare le competenze acquisite per comprendere ciò che legge, vede, osserva, ascolta.
Post-verità e responsabilità
L’anonimato in internet è secondo alcuni, una delle origini del problema.
Confortati dalla presunta protezione di questo manto dell’invisibilità molti danno sfogo alle pulsioni peggiori: creare e propagare notizie false (in malafede) o compiere atti di vandalismo digitale.
Penserete che le notizie false siano riconoscibili più o meno facilmente, e che sarebbe quindi più una responsabilità del lettore capirne l’attendibilità.
Ma non sempre è così, in molti casi fonti autorevoli hanno ripreso (o purtroppo generato) notizie false, accrescendone la portata e l’attendibilità.
Possiamo citare, a livello internazionale, il famoso caso di Amina, blogger lesbica Siriana, le cui sorti preoccuparono la comunità internazionale nel 2011. Per 4 mesi i suoi racconti di vita a Damasco appassionarono i giornali occidentali, e a giugno di quell’anno la sua sparizione provocò grande allarme. Nacquero gruppi su Facebook con oltre 14mila membri che richiedevano la sua liberazione.
Ma Amina era in realtà Tom MacMaster, un americano residente a Edinburgo, che ammise l’inganno dopo che alcuni avevano passato mesi a investigare i punti dubbi delle vicende raccontate dalla "blogger".
Sono anche frequenti i casi in cui un'azienda si trova a dover contestare o contrastare notizie false sul proprio conto. Non ne viene risparmiata nessuna: dalla multinazionale al piccolissimo ristorante, sono molti i casi in cui c’è stato un danno economico o di reputazione a causa della diffusione di una bufala o una notizia infondata o distorta. Senza dimenticare le modifiche di contenuti su siti come Wikipedia, la cui affidabilità dovrebbe essere garantita dalla saggezza del gregge (come l'immunità di gregge per i vaccini), ma che è messa a rischio dal singolo che, per goliardia o malafede, inserisce fatti falsi o distorti.
Eliminare l’anonimato è una soluzione?
La più ovvia e facile sembrerebbe quella di eliminare l’anonimato.
Dopo tutto, se è proprio questo che incoraggia leoni da tastiera, vandali e truffatori ad agire sicuri e impuni, perché non creare un sistema in cui l’anonimato non sia più una protezione per i cattivi cittadini digitali?
Secondo molti però l’anonimato è una garanzia di libertà o anche una risorsa vitale per coloro che, magari in minoranza, o vittime di situazioni difficili.
Si pensi al dissidente in un regime totalitario, o al whistleblower in una grande organizzazione, o alle vittime di bullismo (o altre forme di violenza e discriminazione) che possono grazie all’anonimato denunciare e portare a conoscenza del mondo fatti importanti o trovare una soluzione alla loro situazione.
Eliminare l’anonimato per garantire la tracciabilità delle notizie diffuse filtrerebbe gli errori e le falsità, ma col forte rischio di filtrare anche verità scomode.
Eliminare l’anonimato, come qualcuno propone anche in Italia, è una soluzione rischiosa, inefficace e… fasulla.
Vedremo perché tra poco.
Aveva forse visto giusto il poeta R.Tagore, che in tempi pre-social, scrisse: “Se chiudete la porta a tutti gli errori, anche la verità rimarrà fuori”.
Che sia meglio investigare e controllare?
Si potrebbe, suggeriscono altri, lasciare l’anonimato lì com’è ma rafforzare vari sistemi di verifica e controllo che rilevino notizie potenzialmente dannose o false e allertino chi di dovere.
Attraverso controlli automatici o giurie popolari, si propone di creare sistemi che garantiscano la veridicità e attendibilità di ciò che si pubblica e puniscano quando i parametri non sono rispettati.
Ma, un momento… quali parametri? Chi potrà davvero stabilirli in maniera corretta e non distorta dai propri interessi o bias cognitivi?
Una soluzione rischiosa e anche costosa: le indagini per verificare e controllare una notizia (ed eventualmente identificarne l’origine) costano tempo e denaro.
Questa soluzione non solo è pericolosa come togliere l’anonimato, ma ne spiega anche l’inefficacia.
Perché, a ben guardare, l’anonimato in internet in realtà non esiste.
Non sempre in maniera facile o con strumenti utilizzabili dai più, ma in realtà è quasi sempre possibile rintracciare chi si nasconde dietro quel paravento.
L’anonimato è una protezione basata più sul disinteresse (e sul costo) di identificare qualcuno, toglierlo significherebbe solo (forse) abbassare la difficoltà di farlo (e i costi), trasferendolo però sui singoli, sotto forma di maggiori rischi e minore conoscenza circolante.
Come la mancanza di anonimato, le indagini e controlli mettono a rischio la diversità e la libertà di circolazione di notizie e conoscenza su internet.
Una possibile soluzione
Sono molte le ricerche che hanno dimostrato che noi essere umani non sempre siamo egoisti e guidati solo dall’opportunismo nel proprio interesse.
L’altruismo e il senso di appartenenza alla comunità, la collaborazione hanno avuto un ruolo importante nell’evoluzione umana e continuano ad averlo, anche e soprattutto nei social network: dopotutto, se ci pensate bene, spesso chi condivide una bufala in buona fede ha proprio questo tratto in comune con chi le combatte. Fare qualcosa di utile per gli altri. Nel primo caso contribuendo a avvisare gli amici di un pericolo, o di qualcosa per loro di interessante o prezioso. Questa è anche una delle leve della viralità di certi contenuti, no?
Nel secondo caso la stessa volontà di prodigarsi per gli altri e la comunità porta a custodire la fondatezza delle notizie e proteggere la reputazione degli amici, avvertendoli che stanno diffondendo notizie pericolose o fasulle.
Karen Frost-Arnold, professoressa del Hobart & William Smith College propone, in un interessante articolo accademico (Trustworthiness and Truth: The Epistemic Pitfalls of Internet Accountability ) una soluzione interessante e, forse, ragionevole: aumentare la consapevolezza degli utenti sulle conseguenze possibili delle loro azioni e fare leva sul loro senso morale, facendo leva proprio sul loro altruismo e senso di comunità.
Nel primo caso, per esempio, basterebbe mostrare all’utente che ha diffuso una notizia falsa quali ne siano le conseguenze negative per qualcun altro.
La foto di un persona vittima di una bufala, la presa di coscienza sui danni (di ogni tipo) che provoca una notizia falsa dovrebbero far riflettere e di conseguenza limitare l’impulso alla loro propagazione.
Se, da debunker, vi dicessero “Ma che male c’è? Nel dubbio condivido”, sarebbe opportuno quindi mostrare quale sia davvero il male. Esempi non mancano, purtroppo, nelle cronache di persone che hanno subito violenza o si sono suicidate perché esposte a una bufala. Nel secondo caso, suggerisce Karen Frost- Arnold, bisognerebbe evidenziare ancora di più le regole e procedure a cui si aderisce iscrivendosi e frequentando una comunità online.
Termini di servizi e policy andrebbero ricordati con maggiore frequenza e fatti riemergere dalle cantine digitali in cui a volte sono seppelliti.
Non li legge mai nessuno, direte, ma forse se si facesse lo sforzo di renderli più leggibili ed evidenti, ricordandoli con maggiore frequenza, il meccanismo potrebbe funzionare.
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