La scorsa settimana abbiamo letto la prima parte del faccia a faccia tra startupper ed il Gruppo di angel investor, IAG, che ha istituito l’application fee per l’invio di BP tramite il sito web . Ci siamo lasciati con una raccolta di opinioni in generale concordanti nel disapprovare una pratica che, a parer di chi fa impresa, può mortificare l’imprenditorialità e scoraggiare l’innovazione.
Ma è realmente così?
Oggi leggiamo la replica di Italian Angels for Growth attraverso l’intervista a Lorenzo Franchini, socio fondatore e managing director del Gruppo IAG.
Il microfono alla controparte IAG: il punto di vista dell’investor sull'application fee
Lorenzo, puoi fornirci una panoramica sul contesto in cui operate e sul “traffico” di BP che investe IAG periodicamente, in modo da aiutarci a contestualizzare la decisione presa in merito alla fee? Dacci qualche numero:
“Il mercato early stage è strutturalmente un mercato di grandi numeri. Solo l’1-2% degli imprenditori che cercano investitori vengono effettivamente finanziati e questa percentuale non varia da mercati più maturi e evoluti come US a mercati giovani e più immaturi come l’Italia.
Noi di IAG riceviamo circa 500 BP all’anno e nel 2011 abbiamo fatto 9 investimenti (tra primi round, follow on, investimenti di gruppo e individuali) per un ammontare di 2,6 milioni di euro. Il 25% del nostro deal-flow e dei nostri investimenti è estero, abbiamo quindi una finestra comparativa privilegiata che altri investitori o imprenditori non hanno.”
Continua Lorenzo:
“La nostra piccola struttura è subissata di BP provenienti dal sito. Negli ultimi 3 mesi, 25-30 al mese. Noi abbiamo la buona-cattiva abitudine di rispondere a tutti e leggere con attenzione tutto quello che riceviamo e questo ci porta a passare troppo tempo su opportunità non in linea con le nostre attese (il 95% circa del deal-flow dal sito viene scartato al primo filtro) invece di concentrare la nostra attenzione sui deal di qualità e sullo scouting degli stessi”.
Necessità di scremare le proposte che pervengono alla società attraverso il canale di accesso più utilizzato, internet, per elevare la qualità dei progetti presi in esame, e ridurre un’ondata di application che risultava essere time-consuming senza un adeguato risultato in termini qualitativi e quantitativi: sembrano essere queste le ragioni che hanno reso necessario un intervento.
Chiudere il sito sarebbe stato anti-democratico. Trasformare l’application form in un documento troppo strutturato avrebbe fatto perdere di vista chi è realmente il soggetto imprenditore che si cela dietro una proposta, obbligandolo ad uniformarsi a qualcosa di impersonale, mortificando l’originalità che lo contraddistingue.
La scelta della fee da pagare prima di fare la submission di un BP è parsa, quindi, la scelta vincente.
Chiediamo a Lorenzo se l’origine dell’idea abbia altri genitori, quindi, se magari hanno introdotto in Italia una pratica in realtà già diffusa altrove.
“Nella scelta della fee ha inciso la nostra attività di benchmarking”
risponde Lorenzo, e continua:
“Abbiamo visitato con business trip approfondite i mercati più strategici del mondo early stage (US, Israele, UK, Cina, India e Svezia, tra le prossime tappe abbiamo Germania e Brasile). La application fee è ormai pratica diffusa in molti gruppi di angel americani, addirittura qualcuno la usa per tutti i canali del deal-flow.
Guardando alle best practice in Europa, Halo Business Angel Network (insieme a noi, London Business Angel, e Sophia Business Angel, considerato uno dei top 4 angel group in Europa da EBAN nel 2010) mette una fee per la application online di 150€, mentre London Business Angel fa pagare 750£ per le aziende che, passata la selezione dello screening, presentano ai soci.”
Quella della application fee risulta, quindi, essere una pratica già diffusa tra i “cugini” americani ed europei che possono solo fare scuola al mercato dell’early stage investment italiano. E i buoni esempi, si sa, vanno imitati.
Questa fee può essere meglio percepita come “pillola zuccherata”?
Prima di trarre le conclusioni, abbiamo fatto due ultime cruciali domande al nostro portavoce di IAG.
Lorenzo, cosa meglio dei primi risultati dall’introduzione della fee può dimostrarci se la vostra scelta sta funzionando o meno? Com’è cambiato il “traffico” in IAG con la fee?
I dati dei primi 20 giorni di deal flow con la fee sono confortanti. La bottom line è che ci sembra che stia funzionando e molto bene, mi spiego: negli ultimi 3 mesi ricevevamo appunto 25-30 pportunità al mese dal sito e 15-20 dalle altre fonti.
Nei primi 20 giorni di Marzo, invece, abbiamo ricevuto 5 opportunità dal sito a pagamento e 24 alle altre fonti registrando un miglioramento qualitativo del deal flow significativo rispetto agli ultimi mesi, al momento al di la di ogni più rosea previsione.
E’ passato poco tempo, sarà un caso, ma se i dati si confermano questi siamo molto soddisfatti della scelta fatta.
Lorenzo, alla luce anche dei primi risultati positivi che state registrando, ritenete giustificato il polverone che si è sollevato attorno alla Vostra decisione? Come suggerite agli startupper di leggere l’introduzione della fee?
“No, affatto. C’è un misunderstanding di fondo. La fee è assolutamente un’opportunità. Con questa fee riusciremo a dare un servizio migliore sia a chi applica online che a chi segue altri canali. Potremo rispondere più tempestivamente, mentre prima si arrivava ad aspettare anche 2-3 settimane per un primo feedback.
Si eleverà il tasso di buone opportunità individuate sul mercato, riducendo il rischio di perdere di vista buone proposte per la mancanza di tempo, dedicato invece ad un lavoro di lettura poco qualitativo.”
Inoltre, IAG ha fornito la possibilità di inserire il BP, se scartato, in un box online nella loro area riservata del sito, dove possono accedere tutti i soci e magari fare follow-up su un’iniziativa che non corrisponde alle attese del loro Gruppo, ma potrebbe essere appetibile in un’ottica di investimento individuale.
In un contesto imprenditoriale come quello italiano, dove c’è un buon livello di ricerca e innovazione, con un deal-flow quantitativamente adeguato, ma con un livello di value proposition ancora in media qualitativamente basso per cultura imprenditoriale e formazione del team ancora non ai livelli esteri, c’è bisogno di premiare la “qualità” ed incentivare a perseguirla, qualora venga ritenuta un aspetto di second best.
L’istituzione dell’ application fee va intesa proprio come incentivo ad affinare i progetti, diventare perfezionisti, dando il meglio a chi deve aiutare al lancio dell’impresa, pretendendo in cambio il meglio in termini di feedback costruttivi ed accordi conclusi.
Sarà un pillola inizialmente, e le pillole non piacciono, ma il retrogusto alla fine sarà zuccherato.
Ringraziando i partecipanti a questo dibattito in due round, speriamo di aver chiarito un po’ le idee agli startupper sintonizzati e tranquillizzato un po’ gli animi.
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