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  • Venti anni dopo l’11 settembre: come è cambiata la comunicazione di talebani e USA

    L'extreme makeover dei talebani, la comunicazione politica che diventa subito un meme, gli scaffali vuoti dei supermercati, oggi come allora

    10 Settembre 2021

    Sono già passati vent’anni dall’11 settembre 2001 e qualcuno in più da quando, una sera di agosto, mia madre mi accompagnò sulla cima delle Torri Gemelle a guardare le luci di New York. Il 16 agosto del 1998 avevo 16 anni e un ridicolo marsupio, come usava allora. Al World Trade Center faceva così caldo fuori e così freddo dentro che all’entrata le enormi vetrate, dalla indimenticabile forma ad albero, erano tutte appannate. Per anni ho tenuto nel portafoglio il bigliettino di ingresso, adesso è in una cornice insieme a una foto, scattata da Ellis Island, qualche giorno dopo. Erano le 8:20 PM, così dice quel foglietto, e nella hall del World Trade Center c’era ancora molta fila. Ricordo che due cose toglievano il respiro: la velocità dell’ascensore e l’oscillazione che avvertivi in cima all’Observation Deck, un suggestivo percorso all’aria aperta nella Torre Sud, con ringhiere bianche e parecchio vento. Dagli articoli di Oriana Fallaci alle storie Instagram dei reporter da Kabul nell’estate della riconquista talebana: dopo vent’anni si torna al punto narrativo di partenza, come se la storia si fosse ripiegata su se stessa in una spirale dove il mezzo si arrende a non essere più il messaggio. Gli anni ’90 tornano nelle nostre vite con tutto il loro carico di ricordi e ce li ritroviamo improvvisamente nell’epoca della pandemia, come in uno di quei film sui viaggi nel tempo. Ci sono infinite domande a cui nessuno di noi sa ancora rispondere, ma ce n’è una di cui tutti abbiamo sempre conservato la certezza: dove eravamo l’11 settembre del 2001.

    I biglietti di ingresso alla Torre Sud del World Trade Center e all’Observation Deck “Top Of The World”.
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    Come cambia la narrazione dei protagonisti: i talebani 2.0

    Quando nel 1996 i talebani presero il potere in Afghanistan vietarono ogni forma di intrattenimento, compresa la televisione e la nascente rete internet che, a loro parere, era portatrice di contenuti volgari, immorali e anti-islamici. Oggi, il loro portavoce Zabihullah Mujahid, comunica su Twitter, vanta 400 mila follower e come foto profilo ha un microfono stile Elvis. Così come Suhail Shaheen (quasi mezzo milione di follower, ma foto profilo canonica), portavoce per i media internazionali che però i suoi tweet li scrive solo in inglese. Per i comunicati ufficiali del nuovo governo il portavoce sta utilizzano https://justpaste.it/, un editor online molto semplice, registrato in Polonia, diventato celebre con l’utilizzo che ne faceva l’ISIS. Il dominio .it in questo caso non è utilizzato per il riferimento all’Italia ma per il significato dell’acronimo: Information Technology. QUI il comunicato dei telebani riguardo alla posizione sugli accordi di Doha, e sulla black list americana che secondo loro violerebbe quegli stessi accordi. È quella che Politico chiama la “Extreme Makeover” dei talebani, prendendo a prestito il titolo di un fortunato reality show. In questi venti anni, internet si è diffuso in Afghanistan (ci sono circa 23 milioni di cellulari e 10 milioni di accessi internet) con l’89% degli afgani che ha un qualche accesso alle telecomunicazioni. Percentuali inimmaginabili prima della lunga opera di nation building americana e internazionale. In un simile contesto mediatizzato, i talebani 2.0 hanno pensato che essere parte del sistema fosse decisamente più vantaggioso che imporre divieti. Tuttavia, il loro utilizzo dei new media, non è cosa recente: già nel settembre del 2015 i militanti barbuti si facevano selfie a Kunduz, dopo la prima vera e propria battaglia vittoriosa dal 2001. Ma cosa significa nel 2021 che la comunicazione dovrà “soddisfare la legge islamica?”. Un bell’interrogativo per tutte le aziende tech che vorranno continuare ad operare nel Paese. A una precisa domanda sulla libertà di parola, Zabihullah Mujahid ha risposto di chiedere a Facebook: «Questa domanda dovrebbe essere posta a loro». I nuovi talebani dimostrano di aver studiato bene il dibattito che si sta consumando in Occidente intorno alla censura sui social media, che si fanno sempre più editori. (Ne abbiamo già parlato su Ninja: QUI). I talebani hanno imparato anche a rispondere a chi prova a trollarli: “Qual è il tuo formaggio preferito?”, chiede Joe. Ecco la risposta: I talebani non violano i celebri “standard della community”? Per Facebook e Instagram la risposta è affermativa: la presenza di “hate organizations” non è consentita nelle piattaforme di Zuckerberg. Anche TikTok ha bollato i talebani come organizzazione terroristica e continua a rimuovere i loro contenuti. Su Twitter, però, è un’altra storia: qui ai talebani è permesso di mantenere gli account attivi, mentre – come molti hanno notato – l’ex presidente Trump è stato bannato a vita. Interrogato sul perché, Twitter ha glissato non rispondendo alle sollecitazioni aggiungendo solo che avrebbe «continuato a far rispettare in modo proattivo» le sue regole che vietano la «glorificazione della violenza, la manipolazione della piattaforma e lo spam». Cosa c’è poi di meglio che parlare di cambiamento climatico per essere internazionalmente accettati? Succede così che Abdul Qahar Balkhi, membro della “Commissione Culturale” dei talebani, in una intervista a Newsweek citi la lotta al cambiamento climatico come una delle grandi sfide per il futuro. Abduld si dice anche preoccupato per la “sicurezza mondiale”, sicurezza di cui proprio i talebani erano finora una delle principali minacce, assieme alle organizzazioni terroristiche da loro ospitate e protette.

    Come cambia la narrazione dei protagonisti: da George W. Bush a Joe Biden

    “Steady Leadership In Times of Change”: quando nel 2004 George W. Bush viene rieletto alla Casa Bianca con questo claim, la sicurezza e la lotta al terrorismo sono i temi che più stanno a cuore agli americani. Le macerie delle Torri Gemelle sono ancora calde, così come il ricordo del presidente a Ground Zero che abbraccia un vigile del fuoco, pronunciando dal megafono il celebre “Bullhorn speech”: «I Can hear you, the rest of the world hears you. And the people who knocked these buildings down will hear all of us soon». La controversa guerra in Iraq del 2003 aveva in patria un’approvazione intorno al 72%, quasi quanto il gradimento personale del presidente in carica. La guerra all’Afghanistan del 2001 aveva un consenso perfino maggiore, praticamente plebiscitario. Vent’anni dopo la metà degli intervistati sostiene che quell’intervento sia stato un errore, come dimostrano le rilevazione di Gallup. Perfino nell’elettorato repubblicano si manifesta una grandissima percentuale di scontenti. L‘umore dell’opinione pubblica è stato alla base delle scelte di Trump e di Biden riguardo al disimpegno militare. La crisi economica devastante del 2008 e la pandemia hanno segnato due decadi difficili. Una cosa è certa: la sicurezza internazionale e il terrorismo non sono più in cima alla lista dei temi da cavalcare per vincere un’elezione negli Stati Uniti.
    Il parere dei cittadini americani sul coinvolgimento militare in Afghanistan dal 2001 al 2021. Fonte: Gallup
    Il parere secondo l’appartenenza politica – Fonte: Gallup
    Tra le dichiarazioni maggiormente condivise sui social nell’estate 2021, c’è sicuramente quella presidente Biden che, durante una conferenza stampa, afferma che nessuno sarebbe stato portato via dai tetti dell’ambasciata di Kabul come successo a Saigon nel 1975. L’immagine, diventata presto un meme, di Biden che controlla per ben tre volte l’orologio durante la cerimonia di rimpatrio delle salme dei caduti, ha scatenato invece reazioni durissime dell’opposizione e anche delle genitori dei caduti, come Shana Chappell, madre di un marine di 20 anni morto a Kabul, che ha manifestato il suo sdegno in un post di Facebook diventato virale. Lo stesso Instagram è stato costretto a scusarsi per un blocco operato nei confronti della signora nei giorni successivi all’attentato. Lanciato dalla piattaforma Save America PAC e andato in onda sulle TV via cavo (con un budget molto modesto), lo spot “Failure” è stato veicolato soprattutto online e sui canali Telegram legati all’ex presidente Trump. Un video che per Fox News rappresenta il primo spot della campagna elettorale 2024. Crudo e angosciante, rappresenta un concentrato di tecniche dei migliori negative ads. La font utilizzata ha le singole lettere tagliate, come per richiamare il concetto di catastrofe (crollo?), le immagini sono disturbate come in una vecchia TV, i volti dei bambini terrorizzati fanno leva sui sentimenti più profondi dell’audience. “People are  being left behind”, recita il messaggio, mentre scorrono le tragiche sequenze dei neonati passati ai soldati al di là del muro dell’aeroporto. Nella conclusione dello spot, il podio della conferenza stampa rimane vuoto, come se il ruolo di presidente risultasse vacante. A chiudere frettolosamente la porta (in faccia al pubblico/agli americani, come in una ritirata) è una ragazza dello staff che indossa una mascherina.

    I supermercati ancora vuoti, 20 anni dopo

    Quando nel marzo del 2020 venne annunciato il primo lockdown, nel tentativo di contenere l’epidemia da Covid-19, gli scaffali dei supermercati si svuotarono improvvisamente di frutta, verdura, pasta, carne, conserve e molto altro. Sembrava passato un ciclone ma era solo l’isteria alimentata da una narrazione mediatica allarmista. Chi non era troppo giovane per andare al supermercato da solo, si ricorderà gli scaffali il 12 settembre 2001: le stesse scene, lo stesso panico, gli stessi pensieri da fine del mondo. L’11 settembre ha sancito la fine di quell’ottimismo figlio degli anni ’80 e ’90, dove la crescita sembrava infinita, i problemi pochi, i soldi molti. Dopo la sconfitta dell’Unione Sovietica, per dirla con Nesi, si viveva “un’estate infinita” dove il domani sarebbe stato sempre migliore dell’oggi: almeno fino a quella mattina a Manhattan. Gli anni ’90 che tornano trovano un mondo molto differente e complesso, in cui spesso la soluzione delle grandi questioni passa per il modo in cui le si raccontano. Un racconto in cui il finale però non è mai scritto, a differenza di molte delle epopee politico e sociali novecentesche. Come diceva Keynes: «Ciò che accade in fin dei conti, non è l’inevitabile, ma l’imprevedibile».