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Le crisi di reputazione esistevano anche prima dei social, ma oggi bisogna farsi trovare pronti

Il 91% dei consumatori sostiene di scegliere un brand anziché un altro per la sua trasparenza e autenticità

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Sara Poma 

Head Of Content&Community @DOING e Docente Ninja Academy

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Pubblicato il 01/10/2019

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Quando si parla di crisi di reputazione si tende a pensare che queste siano nate con i social media.

In Italia, soprattutto, esiste una specie di spartiacque che rafforza questa convinzione. Mi riferisco naturalmente al caso Guido Barilla. Correva l’anno 2013, il CEO dell’azienda di Parma venne intervistato durante la trasmissione radiofonica La Zanzara e affermò che negli spot Barilla non ci sarebbe mai stato spazio per famiglie non tradizionali. Si scatenò una tempesta perfetta: era l’anno in cui i social media – Facebook e Twitter in particolare – stavano crescendo in maniera smisurata nel nostro Paese e, con essi, si cominciava a dibattere di temi che in altri Paesi erano già rilevanti, come la rappresentazione LGBTQ+ nei media mainstream.

La cosa più interessante di quel pasticcio fu che dimostrava che il signor Barilla era lontano da tutto questo, dalla crescita dei social media, dalle conversazioni che si generavano al loro interno, dalle persone che ogni giorno passavano del tempo là sopra. Era come se fosse isolato, lontano da quello che accadeva nel mondo. E il video di scuse ne era la dimostrazione.

Ma, dicevamo, le crisi di comunicazione hanno una storia molto più vecchia dei social media.

Ecco quindi alcune delle più interessanti di sempre, partendo da quella peggio gestita per arrivare a quella meglio gestita.

1992 – Nike

Un articolo di Harper’s Magazine denuncia l’abitudine di Nike di far lavorare le persone nelle sue fabbriche in Indonesia in condizioni estreme. L’azienda decide di ignorare la storia, facendo finta di niente per anni fino a quando, nel 1998, Phil Knight in persona afferma senza mezzi termini che l’azienda di cui è CEO è diventata ormai sinonimo di schiavitù e annuncia, effetto immediato, innalzamento di salario e dell’età minima per poter lavorare nelle fabbriche Nike in Indonesia.

Ci sono voluti sei anni ma quantomeno l’ammissione di colpa è stata totale.

1982 – Johnson&Johnson

Sette persone muoiono a Chicago dopo aver assunto del Tylenol, un analgesico molto blando e popolare, prodotto da Johnson&Johnson. Si scopre che tutti i sette malcapitati avevano comprato il prodotto nello stesso supermercato della città. Mentre la dinamica è ancora in fase di accertamento, l’azienda non perde tempo. Decide di ritirare – a fronte di un danno economico considerevole – tutte le confezioni di Tylenol sul mercato statunitense, scegliendo di fatto people over product, come si dice.

Non solo: nel 1982, con trent’anni di anticipo, la Johnson&Johnson mette in atto una strategia multichannel: attiva una linea telefonica di assistenza 24/7, acquista pagine di quotidiani e spazi televisivi in cui il CEO in prima persona spiega l’accaduto e le misure intraprese. Nel frattempo, si scopre che il dramma di Chicago è legato al gesto di un pazzo che aveva iniettato una sostanza mortale in alcune confezioni del farmaco.

La prontezza di azione di Johnson&Johnson e l’aver deciso di salvaguardare le persone su tutto il resto permette all’azienda di uscire rafforzata in termini di reputazione e di poter reintrodurre, pochi anni dopo, il Tylenol sul mercato. Con una confezione a prova di sabotaggio.

Cosa si può imparare da una crisi di reputazione

Quest’ultimo caso – probabilmente in maniera un po’ estrema – dimostra come le crisi di reputazione possano anche essere degli eventi da cui le aziende possono imparare qualcosa, per quanto siano traumatici (in questo caso addirittura con delle morti di mezzo). La stessa Barilla, dopo il brutto inciampo a La Zanzara, è diventata un’azienda sensibile ai temi di diversity e inclusion intraprendendo azioni concrete al suo interno.

Le crisi, per chi fa comunicazione sono sempre state un pericolo da fronteggiare. Naturalmente, con l’avvento dei social media l’effetto domino è un altro elemento di cui tenere conto. I social hanno aumentato la velocità di propagazione di una crisi, ma soprattutto hanno reso gli attori più esposti.

I social, lo sappiamo bene, hanno cambiato per sempre la relazione fra aziende e consumatori secondo una logica molto semplice: tu, azienda, vuoi entrare in contatto con me. Io, consumatore, ti do fiducia e ti permetto di costruire una relazione diretta con me, dandoti persino accesso ai miei dati personali. Da te, azienda, mi aspetto trasparenza e reazione immediata nel momento in cui fai qualcosa che non mi sta bene.

Non solo: secondo uno studio di Cohn&Wolfe del 2017, il 91% dei consumatori sostiene di scegliere un brand anziché un altro per la sua trasparenza e autenticità. Mentre, un altro studio di Edelman, sempre del 2017, evidenzia come il 65% dei consumatori globali dichiara che non comprerebbe mai da un brand che decide di ignorare o rimanere in silenzio di fronte al dibattito pubblico.

Pensate a questo e, per dirne una, alla commercializzazione del Pride in tutto il mondo, persino da noi. E unite i puntini.

Ma torniamo alle crisi. I social media le hanno trasformate in slavine pericolosissime. Dal 2009 in poi – l’anno del famoso video dei dipendenti di Domino’s Pizza che pubblicarono su YouTube una clip in cui facevano schifezze su una pizza che sarebbe di lì a poco stata servita – i brand, almeno quelli più illuminati, dovrebbero cercare di farsi trovare preparati.

In quel caso, per Domino’s fu l’occasione di lanciare una strategia molto solida sui social media e di rafforzare una presenza all’epoca ancora in erba e che oggi invece fa scuola.

Altri brand si ritrovano a dover gestire crisi globali e rischi di boycott perché il loro CEO entra sui social e comincia a insultare popstar a caso o una nazione intera. In quel caso forse non c’è moltissimo da fare. Ma non è assolutamente vero che le crisi non si possano prevedere, o meglio, che non si possa prevedere un approccio sensato nella loro gestione.

È vero, esiste una tipologia di crisi che è assolutamente impossibile da prevedere: eventi atmosferici, incidenti e disastri vari, crisi generate da cose o persone esterne all’azienda. Sono tutte cose, su cui neppure i tool più sosfisticati possono allertarci. Ogni azienda però molto esposta sul digital dovrebbe avere una strategia anche per gli eventi più inaspettati.

Gestione Crisi

Come rispondere alla crisi

Utilizzare un approccio di Design Thinking e applicarlo alle possibilità di crisi può portare ad avere una mappatura di eventi di possibile rischio e ad associare a ciascun potenziale evento una potenziale reazione, decisa insieme a una serie di attori che saranno fondamentali se quel particolare evento si verificherà.

Facciamo un esempio: se abbiamo come cliente un’azienda tech, sapremo che fra i potenziali eventi critici ci potrà essere una serie di casistiche legate alla cybersecurity. L’idea è di mappare quante più situazioni potenziali e stilare una lista delle figure aziendali che saranno fondamentali nel divulgare informazioni e soluzioni, se mai quell’evento si verificherà. È un lavoro certosino, ma più è completo, più la gestione della crisi sarà facilitata.

Per tutto ciò che, invece, non è totalmente imprevedibile esistono i dati. Un sistema di monitoraggio efficace può facilmente informarci di anomalie nei volumi di conversazioni rispetto a un brand. E, se improvvisamente trecento persone cominciano a parlare tutte insieme di un brand, significa che qualcosa è successo. Verosimilmente nel 10% dei casi staranno inondando di commenti positivi la nuova campagna x, ma nel 90% è possibile che le conversazioni stiano generando sentiment negativo su qualche elemento sfuggito di mano in un post su FB o su una risposta discutibile data su Twitter. In quel caso, i dati permettono di agire tempestivamente, prima che la crisi si propaghi e diventi di dominio pubblico e rendono possibile attuare una strategia che, come nei casi imprevedibili, sarebbe meglio fosse stata ipotizzata in precedenza.

Non sto dicendo che per ogni crisi esiste una reazione standard. Assolutamente no. Ma avere svolto un lavoro a monte su una serie di potenziali eventi critici e sulle possibili azioni da intraprendere permette di non farsi trovare completamente travolti dalla slavina, o completamente isolati, come Guido Barilla nel suo personale Black Mirror del 2013.

Secondo uno studio di Cohn&Wolfe del 2017, il 91% dei consumatori sostiene di scegliere un brand anziché un altro per la sua trasparenza e autenticità.

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Scritto da

Sara Poma 

Head Of Content&Community @DOING e Docente Ninja Academy

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