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Lo stiamo imparando a piccoli passi e alcune startup riescono anche a farne un business. Si può condividere l’uso dell’auto, la casa per le vacanze, perfino il bus per lunghe percorrenze o la cena. Insomma, la sharing economy sta diventando davvero pervasiva, frutto un po’ della moda e un po’ della convenienza economica di questo modello. Ma avresti mai pensato di poter condividere anche il lavoro?
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In Svizzera è stato stimato che ormai tra il 19 e il 27% delle ditte offra la possibilità di fare job sharing.
Sebbene in Italia questa forma contrattuale sia appena stata eliminata dal Jobs Act, il job sharing, o lavoro ripartito, è stato fino a qualche mese fa una forma di contratto regolare, forse troppo poco conosciuta e sfruttata.
Con il contratto di lavoro ripartito due lavoratori si obbligano a fornire la stessa prestazione lavorativa, con la facoltà di sostituirsi tra loro discrezionalmente e in qualsiasi momento, o di modificare la collocazione temporale dell'orario di lavoro.
In caso di malattia di uno dei lavoratori, per esempio, il datore di lavoro può pretendere l'adempimento da parte dell'altro, sempre che - ovviamente - non sia malato a sua volta.
Sotto il profilo degli effetti, insomma, il job sharing è assimilabile al lavoro part-time, ma se ne differenzia sostanzialmente per il fatto che esiste un unico contratto di lavoro subordinato e non due distinti contratti di lavoro a tempo parziale. Da questo fondamentale elemento di distinzione discende che, a differenza dal part-time, nel job sharing la prestazione lavorativa è unica.
Sviluppatosi nell’America di fine anni ’60, in Europa il job sharing sta prendendo piede soprattutto in Svizzera, nel tentativo di soddisfare le esigenze del personale e quelle dell’economia. È stato stimato, infatti, che tra il 19 e il 27% delle imprese elvetiche offrano attualmente posti di lavoro ripartiti.
La Svizzera ha la proporzione più alta di lavoratori a tempo parziale in Europa (36,5%), dopo l’Olanda. Qui il 59% delle donne lavora a tempo parziale, contro il 14% degli uomini.
Secondo molti imprenditori elvetici, il lavoro flessibile tende a soddisfare le esigenze dei dipendenti, a prescindere dall’età e dal sesso. Contribuisce a integrare i dipendenti e a mantenerli nel tempo in azienda, diventando un fattore chiave della continuità.
Ma oltre a una maggiore flessibilità, il job sharing permette anche di coniugare competenze diverse, soprattutto tra giovani e meno giovani, e di gestire meglio le assenze dovute a malattie e vacanze.
“Questa ripartizione del lavoro permette di favorire l’innovazione, aumenta le prestazioni e permette di scovare i migliori talenti”, afferma Elena Soldini, responsabile delle risorse umane alla Swisscom, la principale azienda svizzera di telecomunicazioni.
Tra i motivi per cui i dipendenti tendono a preferire questo tipo di contratto gli uomini menzionano il desiderio di trascorrere più tempo con la famiglia. Oggi, però, solo il 2% dei contratti di job sharing riguardano gli uomini, mentre circa il 90% è riservato unicamente alle donne.
Se la media europea delle aziende che offrono job sharing è del 25%, la Gran Bretagna è al primo posto con il 48% delle aziende che offrono contratti di lavoro ripartito.
Il job sharing, insomma, sembra essere la soluzione perfetta per i dipendenti che cercano maggiore flessibilità coniugata con un impiego di responsabilità, ma anche per i datori di lavoro che spingono a una maggiore produttività del personale.
Perché funzioni, però, la chiave è conoscere davvero il proprio partner di lavoro, e riuscire a coordinarsi in modo efficiente: a volte non si ha il tempo di parlare col proprio collega e si rischia di perdere la traccia del lavoro svolto.
Vi sono, infatti, anche pareri negativi riguardo a questa tipologia di contratto. In particolare, secondo un sondaggio del 2014 condotto dalla società Robert Half tra 1.200 manager, quasi un terzo degli intervistati si è dichiarato convinto che “condividere le responsabilità in un impiego potrebbe complicare le relazioni all’interno del team e comprometterne il buon funzionamento”.
E in effetti soprattutto gli uomini sono più reticenti perché convinti che responsabilità e potere non possano essere condivisi.
Reclutare e seguire due persone implica qualche costo iniziale aggiuntivo per il datore di lavoro, e anche per il personale potrebbe essere destabilizzante doversi confrontare con due capi al posto di uno.
Infine c’è sempre il rischio che due impieghi al 50% si traducano in realtà in un carico di lavoro supplementare, magari non retribuito.
Insomma, anche in questo caso c'è ancora da capire quali possano essere i reali effetti della sharing economy, che un certo fascino, almeno negli ideali, lo esercita e non solo sull'ultima generazione pronta a esplorare il mercato del lavoro.