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Business del calcio italiano in crisi. Addio serie A [Parte 1]

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Pubblicato il 02/09/2014


Lo hanno chiamato "l'anno zero del calcio italiano": si tratta della possibilità, in termini di soldoni, per molte delle nostre squadre di mettersi in discussione e trovare un modo per rendere sostenibile un business a dir poco speculativo. Accettare la svalutazione delle maglie oppure affrontare un grande cambiamento manageriale, prima che gli interessi finanziari finiscano di mangiare anche la passione alla base di questo grande mercato.
Intanto gli spettatori stanno già voltando le spalle al calcio preferendo altri contenuti, e con lo show dei mondiali appena terminati, si è visto che anche i calciatori non sembrano essere stimolati a fare del loro meglio. Una crisi che può solo mettere in discussione questo abnorme star system: un'analisi di Cristiano Carriero, oggi nostro ospite.
Buona lettura,
Rosanna Perrone

Dalla prima giornata di serie A emerge subito un dato di fatto: sette squadre sono senza sponsor. Non era mai accaduto prima, e si tratta di un record negativo anche nei confronti dei quattro campionati top d'Europa (Liga, Bundesliga, Premier League e Ligue 1) che, per inciso, da oggi diventano cinque visto che il Milan ha appena venduto, per una cifra irrisoria (6 milioni di euro) uno dei suoi talenti di maggiore prospettiva, Bryan Cristante, al Benfica, campionato portoghese. Fantacalcio, fino a qualche anno fa. La verità è che il nostro campionato si appresta a diventare, sempre di più, un cimitero di elefanti. Con tutto il rispetto per gente come Fernando Torres.

La svalutazione delle maglie italiane

Fino a dieci anni fa le maglie di Milan e Inter erano tra le più vendute al mondo. Oggi Adidas e Nike si inventano, di tutto, anche togliere le strisce dalle maglie, per vendere l'invendibile. Ma non basta comprare Osvaldo o Menez, se non sei competitivo. Roma, Lazio, Fiorentina, Genoa, Palermo, Cesena e Sampdoria sono prive di sponsor, per motivi differenti, in ogni caso non paragonabili a quelli nobili che un tempo accomunavano Athletic Bilbao e Barcellona. Entrambi i club, simboli inequivocabili dei Paesi Baschi e della Catalogna, non volevano sporcare le divise con una volgare scritta e rifiutavano offerte miliardarie per difendere un principio. Finché non sono arrivati gli sceicchi del Qatar a mettere il loro marchio sulle maglie azulgrana. Curioso notare che tra gli sponsor che pagano meglio, nel mondo, ci siano tre compagnie aeree arabe: Qatar Airways (Barcellona), Fly Emirates (Real Madrid, Milan, Arsenal, PSG) ed Etihad (Manchester City).

Il calcio italiano, Milan a parte, fa storia a sé. Sempre a proposito di compagnie aeree, la Roma ha rinunciato a 5 milioni di euro da Turkish Airlines, non ritenendo l'offerta adeguata alle aspettative del brand. La nuova divisa Nike merita, secondo i dirigenti giallorossi, almeno una sponsorizzazione da 10-15 milioni. La Fiorentina invece ha perso 5 milioni da Mazda e per il momento si "accontenta" di Sky Sport, ma è evidente che la maglia viola non abbia più l'appeal di una volta. Così come il Genoa e la Sampdoria che da par sua può campare la scusante del cambio di proprietà. Magari presto potremmo vedere sulle maglie blucerchiate i titoli dei film delle sale di Ferrero. A proposito, che personaggio il nuovo presidente della Samp.

Costi, cultura e imitazioni del merchandising

Parliamo di cifre: la serie A vale attualmente 117 milioni di euro contro i 908 della Premier. Non per niente Falcao sceglie il Manchester United (e non la Juve) e Diego Costa il Chelsea. E hai voglia a dire che il Milan ha fatto un affare vendendo Balotelli al Liverpool. Ad Anfield Road pensano esattamente il contrario, ed hanno ragione. D'altronde se voi rappresentaste una multinazionale dove mettereste il vostro brand? Sulla maglia del Liverpool o su quella della Lazio? Investireste a Londra o a Palermo? Senza contare che un eventuale nuovo flop internazionale potrebbe portare a 2 le nostre rappresentanti in Champions. Mala tempora currunt.

Anche sul fronte del merchandising, dove ci attestiamo a 1,18 milioni di maglie vendute contro una media europea di 2,6, il piatto piange. Vero è che le maglie costano troppo (circa 70/80 euro) in un contesto di crisi, verissimo è anche che da noi non si usa, come in Inghilterra indossare la divisa ufficiale allo stadio. Aggiungete a questi dati il fenomeno delle imitazioni e delle maglie e avrete chiaro il quadro della situazione. Persino in Francia si vendono più maglie e gli sponsor offrono di più. Per non parlare della Spagna dove il Real Madrid acquistando James Rodriguez per 80 milioni è riuscito a rientrare del 20% dell'investimento solo con la vendita di camisetas blancas.

Le doppie sponsorizzazioni e i diritti televisivi fanno i conti con le nuove scelte dei giovani spettatori

A dire il vero, in Serie A c'è anche chi di sponsor ne ha due: è il caso di Napoli e Torino. Lete e Garofolo per la prima, Beretta e Suzuki per la seconda. Qualcosa di simile accadeva in Francia dieci anni fa, ed era considerato quasi immorale in Italia. Infatti non affermiamo niente di male dicendo che il doppio sponsor rende la maglia bruttissima. E di conseguenza difficilmente vendibile fuori dal circuito dei tifosi. Anche gli sponsor tecnici possono così permetterci di speculare sulle nostre squadre. Se la Juventus percepirà dall'Adidas 23 milioni a stagione, il Manchester United ne riceverà più di quattro volte tanto. Togliendo dal conto Inter, Milan e Roma ci accorgiamo che tutte le altre squadre di Serie A non arrivano a questa cifra. E le cose non possono che peggiorare. I campioni scelgono altre destinazioni, i nostri giovani (non solo Cristante ma anche Immobile, Verratti, Donati e lo stesso Balotelli che ha solo 24 anni) scelgono altri campionati. I diritti televisivi sono sempre più difficili da vendere, complice anche il fatto che piazze come Bologna, Catania, Bari e Perugia sono in Serie B mentre in Serie A ci sono piccole provincie e matricole terribili.

De Laurentiis, Presidente del Napoli, propose qualche anno fa una lega bloccata con le città più rappresentative d'Italia in Serie A. Poi parlò di un unico campionato europeo. Qualcuno lo prese per pazzo, oggi questa appare una delle poche soluzioni praticabili per uscire da questa situazione. La svolta del campionato inglese passò, un ventennio fa per una serie di operazioni molto drastiche, compresa quella del cambio di nome. La Big League diventò la Premier e iniziò pian piano a rappresentare il top del calcio mondiale. Una delle aspirazioni massime di un calciatore.
Nel frattempo, da noi, si raccontava la favola del campionato più bello del mondo.

E se fosse il momento di dire davvero addio alla Serie A?

Cristiano Carriero
Classe '79, calciatore mancato (troppo estroso), chitarrista mancato (suono ai falò a ferragosto), professore mancato (ho una laurea in lettere a chilometro zero). I progetti, almeno quelli, non mancano. Socialmediacoso di mestiere, giornalista per passione, canto il calcio come se fosse una storia d'amore e perdo amori come fossero partite di calcio. Ma resto un tipo sportivo. Editor di blogdisport, contributor de Il Giornale Digitale, autore di Che Storia La Bari (Gelosorosso, 2014).
www.cristianocarriero.me

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