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Sharing economy: la vera sfida dell'innovazione è non proibire

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Nicola Purrello 

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Pubblicato il 10/06/2014

Dare un passaggio ad un autostoppista, ospitalità ad un viandante, ripetizioni di matematica ad uno studente. Concetti e principi non certo innovativi, da sempre o quasi applicati sul mercato. Condivido, o vendo, qualcosa che ho e di cui hai bisogno. La metto a fattore comune per il beneficio di entrambi, perché condividere è meglio che possedere.
Perché allora si fa tanto parlare della crescita, anzi del boom, dell’Economia Collaborativa?

Cos’è la "sharing economy", l'Economia Collaborativa

Stiamo parlando del fenomeno conosciuto come sharing economy (perché senza l’ennesimo inglesismo non sarebbe altrettanto cool), che si basa di fatto su principi antichi, quelli dello scambio e baratto di beni e servizi tra singoli. Airbnb con le proprie stanze ed appartamenti (omologhi dei vecchi B&B ed affittacamere), Blablacar con i posti delle auto (la versione digitale dell’autostop con spese condivise), passando per locloc per il noleggio di utensili e strumenti di lavoro.

Ma se i principi sono antichi, e pertanto solidi, nuovi e dirompenti sono gli strumenti con cui vengono erogati. Applicazioni, mobile e social ne hanno improvvisamente decuplicato la portata, mettendo in contatto facilmente, a distanza, offerenti ed utilizzatori. La portata del fenomeno è tanto maggiore quanto più basso è l’uso di un bene condivisibile (si stima che le automobili stiano parcheggiate ed “inutilizzate” per il 95% del tempo), e quanto più alto è il costo tramite il canale convenzionale (è il caso della ricettività alberghiera).

Perché l'economia collaborativa funziona?

L’economia condivisa funziona perché permette con facilità di creare i cosiddetti “win-win”, ma anche grazie al cambiamento di alcuni paradigmi culturali ed una sapiente dose di garantismo offerta dalla piattaforma madre. Ma andiamo con ordine.

Il win-win è quello dell’offerente che monetizza il tempo inutilizzato del proprio bene, e dell’utilizzatore che ne può usufruire senza dover possedere e ad un costo più contenuto rispetto al canale tradizionale. L'adattamento culturale poi è decisivo. La spersonalizzazione del contatto, l’informalità dell’incontro telematico, la possibilità di scegliere il proprio referente,  e magari una foto profilo rassicurante creano un conforto psicologico rispetto ad un accordo “de viso” di cui saremmo tipicamente scettici e sospettosi.

Se ci aggiungi poi sopra un sito internazionale con un brand forte, marketing a puntino, ed un sistema di recensioni a garantirci della bontà della scelta, il gioco è fatto. In Italia siamo ancora agli inizi, con meno del 15% della popolazione che si stimi abbia utilizzato almeno un’applicazione di Economia Collaborativa, contro il 60% del Regno Unito.

Dall'esperienza Uber e Airbnb: nasce l'esigenza di regolare, non di proibire

Ma se il win-win trionfa quasi sempre c’è qualcuno che ci rimette, perde, e si arrabbia. Ricordate la rivolta dei tassisti a Milano contro il servizio di passaggi a tra privati cittadini a pagamento offerto da Uber-pop? A perderci è il servizio convenzionale, già messo alle strette dalla crescita del car sharing (altro esempio di Economia Collaborativa) ed a rischio collasso se davvero chiunque possedesse una macchina offrisse un servizio alla stregua di un radio taxi (tramite la prenotazione con app) ed a prezzi certamente concorrenziali (se non altro perché non hanno da ammortizzare il costo di una licenza).

Il problema è quindi che molti servizi dell’Economia Collaborativa scavalcano le leggi e norme di settori regolamentati, o dove quantomeno bisognerebbe pagare le tasse. È evidente che affittare di tanto in tanto una stanza, non pesta i piedi agli albergatori ne allo stato. Ma se un privato cittadino affitta sistematicamente una o più stanze, allora gli albergatori si arrabbiano per una concorrenza illegale (senza licenza, controlli, standard di qualità) e lo stato per il mancato introito in termini di tasse e tributi.

Ad Amsterdam, dopo un primo blocco di Airbnb, si è passato ad un regime regolamentato, sottoposto a tassa di soggiorno e limite di affitto per due mesi l’anno.

Entrambi i contendenti hanno probabilmente ragione, ma non si può pensare di limitare quello che inevitabilmente, ed inesorabilmente, sta accadendo sull’onda di questa nuova rivoluzione sociale e digitale. Chi protesta alla fine della fiera è chi si rifiuta di affrontare nuovi tipi di concorrenza. Se si potesse votare in democrazia, perderebbero.

Il regolatore, notoriamente pachidermico, deve aggiornare le regole del gioco. Tassiti ed albergatori dovranno adattarsi ad una nuova agile e temibile concorrenza, magari abbassando i prezzi ed aggiornando il modello di servizio. Gli attori dell’Economia Collaborativa devono però fare la loro parte, capendo che non tutto ciò che è social è lecito ed adattandosi alle regole della comunità ci cui comunque fanno parte.

L'innovazione dell'econoia collaborativa: dove arriveremo

Si fantastica già su applicazioni avveniristiche dell’Economia Collaborativa, in campo alimentare, educativo e delle spedizioni. Alcuni economisti la ritengono uno strumento di redistribuzione della ricchezza, di distruzione o indebolimento di monopoli di fatto, lobby e lobbisti.

Un paradosso che viene spesso evidenziato è che però questi servizi, offerti da startup innovative, sviluppano valore soprattutto per i fondatori o fondi di venture capital che li finanziano. Le persone, vere depositarie del valore, non partecipano alla distribuzione del valore finale. Basti pensare ai 10 miliardi di Euro di valutazione a cui gira attualmente Airbnb, più di alcuni colossi dell’alberghiero da cui ha drenato valore tramite i comuni cittadini. Vedremo presto la sharing economy anche dei risultati economici di una startup di sharing economy?

Scritto da

Nicola Purrello 

Siciliano, consulente di strategia aziendale focalizzato su economia verde, gestione dei rifiuti e finanza aziendale. Laureato in Economia e Finanza presso la Bocconi, ha cons… continua

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