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Advertising

Come e perché il Native Advertising sta cambiando il modo di fare pubblicità online

Dalla crisi d'identità della display advertising ai 6 formati nativi IAB

Ninja Prof 

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Quest'articolo è stato scritto da Claudio Vaccaro, CEO di BizUp (agenzia di web marketing del gruppo Alkemy) e di UpStory e Docente del Master in Digital Marketing di Ninja Academy.

 

ClaudioVaccaro-SQUARE

Quando persino un manager di IAB (Scott Cunningham), riferendosi ai formati pubblicitari online è costretto ad ammettere che “We Messed Up” (abbiamo fatto casino), significa che effettivamente qualcosa nel digital advertising non va.

Sempre più critiche, sia lato domanda (brand/advertiser) sia lato offerta (editori/publisher online) si levano contro il tradizionale modello di display advertising, che tanto ha caratterizzato i primi 23 anni di pubblicità online (il primo banner infatti vide la luce nel 1994).

Il Presidente di Pepsi ha affermato che “odia i pre-roll” (gli spot pubblicitari che si inseriscono prima della visione di un contenuto video online, ndr), mentre il boss del principale centro media al mondo (Martin Sorrell di WPP) ha confutato l’essenza stessa del sistema di misurazione dell’advertising online, facendo intuire grosse “falle” nel modo in cui la pubblicità viene proposta agli utenti e soprattutto venduta agli inserzionisti.

La display advertising insomma sembra essere in crisi di identità, nonostante i passi da gigante fatti in questi anni sull’automazione e la scalabilità della compravendita (grazie al programmatic), che le hanno indubbiamente ridato slancio e vitalità.

Lo capiamo da diverse spie:

  • Siamo bombardati da pubblicità: l’utente è sempre meno attento e sempre meno propenso a “sorbirsi” un banner, aumentando i costi per “comprare” questa attenzione. Basti pensare che i CTR medi di una campagna display si attestano intorno allo 0,11% (un utente su mille clicca sui banner)
  • I formati pubblicitari display sono sempre più intrusivi e invasivi: come normale risposta al bisogno di catturare l’attenzione degli utenti, da un lato i brand optano per formati “rich media” (con animazioni, espansioni ecc…), dall’altro gli editori, spinti dalla necessità di monetizzare la propria inventory, infarciscono le proprie pagine web di pubblicità. Questo ha determinato una reazione degli utenti che in massa hanno installato software di Ad Blocking, bloccando la visualizzazione dei banner. Nel 2015 sono stati “bruciati” circa 41 miliardi di dollari a causa di questi software.
  • La viewability mette con le spalle al muro gli editori e network: perché come inserzionista dovrei pagare 100 impression per ottenere soltanto 50 impressioni realmente viste dagli utenti? (il tasso di viewability media dei banner è circa il 50%, ndr)
  • La brand safety non è garantita: gli investimenti in online advertising, che virano sempre più sul modello “programmatic” (macchine che comprano da macchine) presentano un rischio legato al controllo dei contesti in cui le impression vengono erogate, soprattutto in sui social network
  • I formati non sono ottimizzati per il mobile: nonostante il 60% del traffico di un sito provenga ormai da smartphone e gli utenti passino un terzo del loro tempo su schermi verticali (“Mobile is eating the world”, per dirla come Benedict Evans), i formati pubblicitari non si sono evoluti di conseguenza, mutuando erroneamente le stesse logiche del desktop (popup, Interstitial, overlay…). Questo ha generato negli anni scorsi un livello di monetizzazione ancora basso delle pagine mobile (i ricavi medi degli editori erano fino a poco tempo fa di 0,75$ per mille impression), oltre che naturalmente una maggiore frustrazione degli utenti.

Chi ha capito come reagire a tutto questo?

Lato domanda (advertiser), i brand hanno iniziato ad affrontare questi problemi dell’advertising online anni fa, puntando su forme di promozione più accettabili per l’utente perché di maggior valore. Content marketing, Branded content (video, infocontent, reviews, fotogallery…) e influencer marketing vengono sempre più spesso utilizzati come alternativa alla pubblicità tradizionale (nel 2019 raccoglieranno circa 54 miliardi di dollari di investimenti), generando maggiore attenzione ed engagement e riscontrando un tasso di fiducia degli utenti 7 volte superiore a quello della Display advertising. Inoltre i contenuti sono permanenti e grazie alla SEO catturano maggiore traffico nel medio lungo termine, anche a campagna conclusa.

Ma il content marketing presenta alcuni problemi:

  1. Ha alti costi di produzione e necessità di know how specifico
  2. È limitato rispetto a reach (copertura) e scale (ampiezza di pubblico), fondamentali per garantire i volumi necessari a raggiungere e convincere il target
  3. La diffusione “spontanea” non è controllabile

Lato offerta (editori, publisher e piattaforme), chi ha capito realmente cosa fare sono stati per primi i Social network. Forti della loro penetrazione e osservando il comportamento degli utenti su Mobile hanno capito che La pubblicità non avrebbe dovuto invadere lo spazio dei contenuti (a causa delle dimensioni degli schermi) e che invece avrebbe dovuto essere ottimizzata per l’orientamento verticale senza interrompere il flusso di navigazione (a scroll continuo).

Nel 2012 Facebook, anziché insistere sui classici formati display, ha lanciato un formato pubblicitario semplice ma rivoluzionario, lo sponsored post: questo formato presenta la stessa forma, dimensione e funzionalità (like, share) dei post prodotti dagli utenti, inserendosi nel flusso dei post del newsfeed senza interrompere la navigazione, seppur segnalato da una label di sponsorizzazione. Questa apparentemente banale novità ha portato i ricavi pubblicitari da Mobile di Facebook dal 12% al 75% sul totale in 5 anni.

I Social Network hanno indubbiamente trainato la nascita del Native “moderno” (anche se ci sono diversi precursori storici come gli annunci di Google Adwords e i recommendation Widget a fondo articolo), ovvero di annunci pubblicitari che:

  • Assumono la forma del contesto in cui sono inseriti
  • Ereditano la funzione della piattaforma in cui vivono (es: il like di Facebook)
  • Non interrompono la navigazione dell’utente
  • Sono rilevanti per l’utente che li visiona

nativeadv1

Ma la vera novità di questi anni è il fatto che i formati nativi a cui siamo abituati in contesti social (vedi Facebook, Twitter, Pinterest, Instagram, Youtube) grazie alle tecnologie sfornate dai player mondiali dell’ad-tech, possono essere acquistati anche in contesti premium, ovvero siti gestiti da editori i cui contenuti sono sviluppati da una redazione.

Per standardizzare questo mercato in rapida evoluzione, lo IAB (Internet Advertising Bureau, l’associazione che definisce gli standard pubblicitari), ha codificato 6 formati “nativi”:

  • In-Feed: annunci a pagamento inseriti nel listing di contenuti di un sito editoriale
  • Paid Search: annunci a pagamento inseriti nella pagina dei risultati di un motore di ricerca
  • Recommendation widget: annunci a pagamento che promuovono contenuti correlati ad un articolo
  • Promoted listings: annunci a pagamento inseriti nel listing di prodotti di un ecommerce o classified
  • In-Ad: contenuti inseriti all’interno di un formato pubblicitario standard (es: il 300x250)
  • Custom: iniziative speciali tailor made condotte da un brand autonomamente o in collaborazione con un editore (es: articoli sponsorizzati)

La maggiore critica che viene mossa a questa nuova forma pubblicitaria è quella di confondere l’utente, abbattendo il confine tra “Stato e Chiesa” (pubblicità Vs. contenuto). Obiezione lecita ma già smarcata dalla regolamentazione di IAB, che prevede di segnalare chiaramente qualsiasi contenuto sponsorizzato con una apposita etichetta (es: “sponsored by”, “advertisement” ecc…) garantendo la massima trasparenza.

Oltre a funzionare meglio della display advertising (vedi immagine seguente) e ad essere meglio “digerita” dagli utenti (in quanto meno intrusiva di altre forme pubblicitarie online), dal punto di vista dell’advertiser la Native Advertising è una tattica eccellente a supporto di una strategia di content marketing, uno strumento di amplificazione dei contenuti prodotti dal brand (ovvero i branded content).

nativeadv2

Per poter amplificare contenuti brandizzati e messaggi promozionali utilizzando i formati pubblicitari native, è possibile acquistare visibilità da editori o piattaforme tecnologiche in grado di attivare e gestire campagne. Possiamo dividere i player di questa industria in queste categorie:

  • Piattaforme pubblicitarie proprietarie di Social Network (es: Facebook, Twitter, Pinterest, Instagram, Youtube…)
  • Network pubblicitari che consentono di ottenere amplificazione su siti premium attraverso formati pubblicitari proprietari (es: Outbrain, Ligatus e Sharethrough a livello internazionale, in Italia UpStory e Quantum)
  • Grandi editori che offrono la pubblicazione di un contenuto sponsorizzato co-prodotto tra brand e redazione (es: Repubblica, Corriere, ecc…)
  • Piattaforme di influencer marketing che consentono la pubblicazione di un contenuto sponsorizzato o di video su influencer e blog verticali (es: UpStory, Mosaicoon, Buzzoole, Instabrand)

L’acquisto di queste campagne è possibile sia in reservation (classica vendita diretta dell’editore/network all’inserzionista) sia in programmatic, grazie al nuovo protocollo RTB 2.3 che ha consentito la standardizzazione delle creatività tra domanda e offerta, sebbene ancora non sia completa al 100%.

Nel 2018 si prevede che, solo nel mercato USA, gli investimenti in native advertising supereranno la cifra di 20 miliardi di dollari, segno di una sempre maggiore attenzione nei confronti di una forma pubblicitaria che si sta configurando sempre di più come la naturale evoluzione della display advertising.

>>> Di questi temi e di tanti altri aspetti e ripercussioni parleremo nel Master in Digital Marketing di Ninja Academy (formula Online + Digital Factory: a 60 ore di didattica online abbina un percorso pratico a Milano o Roma)!

 

Go native!

Oltre a funzionare meglio della display advertising e ad essere meglio “digerita” dagli utenti (in quanto meno intrusiva di altre forme pubblicitarie online), dal punto di vista dell’advertiser la Native Advertising è una tattica eccellente a supporto di una strategia di content marketing  - Claudio Vaccaro, docente Ninja Academy