In un'Europa caratterizzata da un tessuto economico dove le piccole e medie imprese rappresentano il 60% del totale, con un numero di occupati pari a circa 100 milioni di persone, il venture capital dovrebbe essere una pratica consolidata e finalizzata a stimolare l’innovazione e lo sviluppo economico. Purtroppo i dati di alcune ricerche e articoli pubblicati in questi ultimi giorni smentiscono il precedente assunto, proviamo a comprenderne i motivi.
L’Europa
Nei due articoli apparsi a distanza di pochi giorni l’uno dall’altro su Arctic Startup (1,2), viene dipinta una situazione grossomodo drammatica che vede l’Europa fanalino di coda per capitali investiti in imprese ad alto potenziale di sviluppo tecnologico. I dati parlano chiaro, se negli Stati Uniti l’investimento in startup si attesta intorno ai 72$ per capita (in SV, 1800$), in Europa l’investimento resta completamente al palo con una media pari a 7$ per capita investiti. Le uniche realtà nazionali che riescono a mantenere alto il livello degli investimenti in startup restano: la Finlandia con 46$ e la Svezia con 45$ per capita sostenute anche da un sistema di istruzione e formazione che spesso affianca i National Hubs nella risoluzione dei problemi e nella commercializzazione dell’innovazione. Una particolare menzione va anche ad Israele (del quale avevamo già parlato in un precedente articolo) che fa registrare un dato pressoché doppio a quello degli Stati Uniti, con 142$ per capita, giustificato anche da un alto numero di investitori e fondi internazionali con sede in Israele.
L’Italia
In Italia, invece, per quanto riguarda il venture capital privato, non abbiamo cifre definitive ma solo stime non ufficiali che parlano di un capitale disponibile per il 2011 compreso tra una forbice di 300/350 milioni di euro solo per le imprese dell’ICT. Dal lato venture capital pubblico invece, secondo una ricerca effettuata dall’AIFI per il Sole 24Ore, tra Regione, Provincie e Camere di Commercio sono stati e verranno investiti 508,45 milioni di euro per questo 2011. Come era d’altronde prevedibile, solo un terzo di questi fondi sono stati stanziati da enti della Regione Lombardia (Finlombarda e doti camerali), 96,4 milioni nella Regione Toscana (Regione Toscana, Camere di Commercio di Prato e Pisa), 65 milioni per la Regione Veneto, 35 Milioni per la Sardegna (Zernike Meta Venture) e 34 per la Sicilia (fondo Cape, Cimino e Associati). A quanto pare le opportunità non mancano anche se il volume di capitali stanziati resta nettamente inferiore alla media dei paesi che più investono in imprese ad alto contenuto tecnologico. Forse ciò che manca all’insieme dell’iniziativa pubblica è, a detta dei tecnici, un generale coordinamento delle opportunità di finanziamento che spesso restano conosciute solo a livello locale.
Le criticità
Sia l’Europa che l’Italia soffrono di alcuni fattori strutturali che purtroppo limitano e disincentivano l’investimento in venture capital. Dal punto di vista normativo si parla spesso di forti barriere legali, oltre che burocratiche, all’entrata e all’uscita di capitali nelle società. Si registra inoltre una scarsa propensione all’imprenditorialità (emblematico a tal proposito è un claim di Enlabs che recita: Precario? Fai impresa) oltre ad un’educazione non allineata alle esigenze dello sviluppo economico e che pone poca enfasi nello STEM (sciences, technology , economy, maths) o nell’LLL (life long learning). Le università soffrono inoltre di una scarsa propensione a fare spinoff e di forti ostacoli alla trasformazione della ricerca in business. Ed infine oltre alla presenza di linee guida estremamente eterogenee che disciplinano il mercato a livello europeo si registra anche una scarsa cultura del fallimento ed una bassa propensione delle aziende c.d. big a fare acquisizione di startup per crescere e innovarsi. A chiudere, e soprattutto in Italia, mancano storie di successo che possano incentivare l’arrivo di capitali internazionali.
Alcune riflessioni
E’ inevitabile che davanti ad un quadro complessivo descritto in questo modo, la situazione del venture capital e il relativo sviluppo di un valido ecosistema di startup, stentino a decollare (anche a prescindere dal volume di capitali a disposizione). Ed è chiaro che, data la natura delle criticità appena elencate, l’intervento della politica diventa strategico. A mio avviso difatti i limiti del sistema non risiedono, né sul lato Venture Capital, né sul lato startup, bensì nell’ambiente all’interno del quale i due attori sono costretti ad operare. Sono in molti, difatti, a richiedere un’azione propositiva da parte delle istituzioni e delle forze politiche attraverso: la semplificazione del diritto societario, l’azzeramento delle barriere agli entry/exit di capitale ed il passaggio ad una burocrazia web-based. Mentre dal punto di vista dell’educazione e della formazione culturale si dovrebbe stimolare la creazione di un legame tra università e mondo dell’imprenditoria, dal lato del finanziamento pubblico si richiede di uniformare le opportunità di investimento che gli enti locali offrono e darne una maggiore visibilità. Tutte azioni che solo una efficace manovra politica, che tenti di orientare il sistema su basi more startup friendly, può garantire.