Il marketing al tempo dei social passa anche - e sempre di più - attraverso gli influencer.
Mai come adesso, l’influencer marketing gode di ottima salute: per il 2017, moltissimi brand sono intenzionati ad incrementare gli investimenti nei progetti digital con blogger e volti noti del web, anche a seguito della dilagante diffusione dell’ad blocking.
I risultati, anche se non sempre direttamente misurabili, sono stati finora incoraggianti. Affidarsi ad un influencer per incrementare la brand awareness - e spesso anche le vendite - funziona. Certo, però, dipende anche da tante variabili, prime fra tutte la capacità e la professionalità nel comunicare e comunicarsi, e la coerenza tra brand e influencer stesso.
Cosa ne pensano i follower? Bloglovin’, nota piattaforma dedicata a blogger e influencer, ha recentemente condotto uno studio proprio per comprendere meglio quale sia l’attuale percezione da parte di follower e potenziali consumatori. Quanto ci fidiamo di un post su Instagram in cui ci consigliano - anche solo indossandolo - l’orologio o l'abito di turno? E se i "consigli” diventano un po' troppi?
In particolare, la ricerca si è concentrata sul pubblico femminile (con un campione di oltre 22.000 donne nordamericane) e i risultati scaturiti sono tutt’altro che scontati.
Ben il 54% delle intervistate afferma di aver acquistato un prodotto grazie alla raccomandazione di un influencer; il 45%, inoltre, ha iniziato a seguire un brand proprio perché lo ha visto o scoperto grazie al post di un influencer. Numeri più che positivi insomma. Ma non è sempre tutto rose e fiori.
A nessuno piace essere inondato da troppi contenuti “pubblicitari". Ed è comprensibile, visto che la vera forza che ha sancito il successo degli influencer è stato proprio l’essere agli antipodi delle figure tradizionali dei testimonial: persone "reali", più simili e vicine ai consumatori. In una parola, autentiche.
Quando un influencer pubblica troppi contenuti di prodotti o servizi, accade infatti che il 37% delle intervistate propende per una mossa radicale: smette di seguirlo.
Con il passare del tempo, infatti, i follower - anzi le follower, è il caso di dire - sono diventate molto più attente e capaci di distinguere un post genuino da uno fake. Se non c’è coerenza tra il personaggio e il prodotto o servizio menzionato, il messaggio rischia di risultare fastidioso e suona quasi come un tradimento (e il 59% delle intervistate afferma di essere in grado di accorgersene).
Non a caso, negli USA si è recentemente diffusa la pratica di inserire nelle caption dei post "pubblicitari" hashtag come #paid o #ad, in nome di una maggior trasparenza per gli utenti (si tratta, a dire il vero, di un delle linee guida dell’FTC, Federal Trade Commission, in seguito ai troppi commenti negativi e alle lamentele da parte di consumatori che si sentivano in qualche modo "ingannati").
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Ciò nonostante, più del 30% dei post che riportano gli hashtag in questione finiscono per essere considerati inautentici. Ma c'è davvero bisogno di questi hashtag?
Guardando al panorama italiano e curiosando tra i commenti degli utenti, i post brandizzati non sembrano infastidire più di tanto la fanbase degli influencer: anzi, la trasparenza risulta sempre una carta non solo apprezzata, ma anche vincente. Anche senza hashtag così espliciti come quelli indicati dall’FTC negli Stati Uniti, gli utenti sembrano diventati ormai abbastanza abili nel comprendere quando un brand è realmente in linea con l’influencer oppure no, e soprattutto a riconoscere che quella dell’influencer è una vera e propria professione.
Con queste premesse, lunga vita all'influencer marketing. E ai follower informati e consapevoli.