Tutti hanno diritto al piacere.
Avete mai provato ad assaggiare una lattuga biologica appena raccolta da un orto? Non ha bisogno di condimenti, tale e tanto è il sapore. Costo d’acquisto limitato: non c’è bisogno di pagare trasporto e rivenditori vari. Ma per poterla assaporare potreste essere costretti a perdere molto di tempo. Ci siamo disabituati al vero sapore di molti cibi, soppiantati per comodità ed economicità allo scaffale, da alimenti prodotti con modalità industriali, belli da vedere ed insapori al palato, perché palati diseducati non possono che fidarsi dei propri occhi.
“Tutti hanno diritto al piacere, quindi bisogna difendere le culture, le tradizioni e i saperi che rendono possibile questo piacere, favorendone la fruizione collettiva attraverso appunto l'aggregazione in associazione e la realizzazione di eventi pubblici".
È il motto di un movimento pronto a riportare il palato davanti agli occhi. E se il fine, eticamente e moralmente è sicuramente nobile, il motore è indubbiamente economico. Basti pensare che nel 2012, i marchi DOC ed IGP italiani hanno fatturato qualcosa come 12 miliardi di euro al consumo.
Slow Food&Co.
Stiamo parlando di Slow Food, o dello Slow Food. C’è un po’ di confusione sul tema. La prima è la celebre e fortunata associazione internazionale senza scopo di lucro nata nel 1986 a Bra, piccola località di provincia di Cuneo. La seconda è un po’ la filosofia, un imprint, quasi un neologismo che proprio l’associazione ha creato e che oggi viene utilizzata in generale per definire questo diverso modo di concepire, rispettare, interpretare il cibo e l’alimentazione.
Ma l’associazione Slow Food di oggi è anche diventata una formidabile macchina economica. Che solo in piccola parte cattura questo enorme interesse e valore economico che sempre più gente ripone nella ricerca dei sapori, di varietà tipiche, e della località e naturalità del cibo. E non c’è assolutamente nulla di male che sia così.
Soprattutto se si ha il merito di aver tirato fuori dal dimenticatoio centinaia di prodotti della tradizione destinati a sparire di fronte a modelli industriali di produzione e distribuzione dei cibi, e di aver fatto comprendere a tantissime persone, soprattutto nate e cresciute in città, che si sono abituati a mangiare cibi che dell’originale hanno solo il nome.
I numeri
I numeri parlano di 100.000 associati paganti nel mondo, volontari e sostenitori in 150 paesi, e 30 dipendenti a tempo indeterminato nella sola sede centrale di Bra tra cui il leader carismatico Carlo Petrini, inserito nel 2004 nell’elenco degli “eroi del nostro tempo” nientedimeno che dalla rivista Time. Il tutto senza vendere una sola forma di Maiorchino dei Nebrodi o violino di capra della Valchiavenna, certificare o controllare nulla.
Ma i prezzi dei prodotti che diventano “presidio” slow food schizzano talvolta anche del 100%, cambiando le sorti di agricoltori ed imprenditori agricoli, attirando sponsor e l’attenzione dei consumatori. Tra i numerosi progetti spiccano certamente l’Università della Gastronomia, costata quasi 20 milioni di euro pagati da oltre 300 sponsor e con un retta annuale di quasi 20 mila euro, ed il Salone del Gusto di Torino, che nel 2012 ha registrato un giro d’affari di circa 30 milioni di Euro, incluso ovviamente le ricadute sul settore alberghiero locale, e di cui 9 milioni spesi all’interno dei padiglioni per acquisti e ristorazione. Alla faccia della crisi!
Mangiando l’onda
Cosa può fermare slow food e la sua crescita ed affermazione, in apparenza inarrestabile? L’unica vera minaccia, a detta anche di molti associati e seguaci, è che alla fine la logica commerciale e di “mercato” prevalga ed avvilisca lo spirito originale. In questo senso rischia di dare una forte spallata l’abbraccio con Eataly di Oscar Farinetti, che dal giorno dell’apertura del primo punto vendita a Torino, annovera slow food come “consulente strategico” per lo sviluppo di Eataly, individuando fornitori, monitorando la qualità e sviluppando l’attività formativa .
La genialità di Eataly è di aver portato proprio il tassello mancante che slow food, per statuto e concezione non poteva dare: una logica di mercato ed un’impostazione da grande distribuzione organizzata applicata ai prodotti locali e presidiati da slow food, passati in un battibaleno dal chilometro zero alla distribuzione internazionale con punti vendita da Dubai a Los Angeles. Tanto di guadagnato per piccoli imprenditori che altrimenti non sarebbero mai arrivati a questi mercati. Lato consumatori, i bisogni soddisfatti ed il target di consumatori sono assolutamente coincidenti.
Corre rapida Eataly, con altri 15 punti vendita in apertura ed un fatturato 2014 che dovrebbe attestarsi sui 400 milioni di Euro. A seguito di recenti investimenti da parte di fondi di investimento, la società è valutata circa 600 milioni di equity, e prepara lo sbarco in borsa entro 2-3 anni. L’abbraccio a slow food resterà tale o diventerà mortale?
Il cibo è slow, ma il business è certamente fast.