Le immagini del catalogo Ikea distribuito in Arabia Saudita stanno facendo il giro del mondo. Il colosso svedese ha deciso di rimuovere ogni traccia femminile dalle fotografie: con un sapiente uso di Photoshop ecco sparire le donne da divani e cucine. In un paese arabo foto simili, con braccia e volto scoperti sarebbero state giudicate indecorose e così il "problema" è stato rimosso in maniera drastica.
Le polemiche non hanno tardato ad arrivare, è intervenuto nel dibattito anche il ministro del Commercio svedese, Ewa Bjorling, dichiarando che "le donne non possono essere cancellate dalla società". La stessa Ikea, in un comunicato stampa si è scusata per l’accaduto, riconoscendo la palese contraddizione con i valori del brand.
Ma probabilmente quella di Ikea è stata, in parte, una scelta obbligata. Le donne compaiono di rado nelle pubblicità in Arabia Saudita, e quando avviene, tassativamente indossano abiti lunghi che coprono completamente la pelle (mani comprese), e il velo deve celare il più possibile il volto e la chioma. Anche Starbucks ha dovuto piegarsi ai dettami culturali e religiosi imposti dalla legge islamica, modificando il logo, raffigurante una "lasciva" sirena dai lunghi capelli, per avere il via libera all’apertura di punti vendita in Arabia Saudita:
Ma Ikea aveva davvero le mani legate? L’etica d’impresa non può far altro che piegarsi ai discutibili dettami islamici? L’unica alternativa è rifiutarsi di invadere il mercato arabo? Secondo me no. E ce lo dimostrano due casi in cui puntando sull’ironia si è riusciti a "salvare capra e cavoli". E, implicitamente, a lanciare una critica verso una cultura invalidante e umiliante nei confronti del sesso femminile, rafforzando i valori etici e morali dell’impresa, invece di sacrificarli.
Change è un brand di lingerie e beachwear. L’agenzia Ogilvy Jeddah è riuscita a trasformare la censura in arte e strumento di protesta, utilizzando la stessa immagine della campagna inglese con qualche "modifica":
Olay (in Italia meglio conosciuta come Olaz) è solita lanciare concorsi di bellezza. Anziché rinunciare all’iniziativa nei paesi arabi, per il divieto di mostrare volti scoperti, ha lanciato il concorso "Most beautiful eyes in Arabia". La vincitrice dagli occhi fatali è stata premiata con un viaggio a Londra (e mi auguro per lei, ci sia rimasta).
Due esempi che dimostrano che la censura si può aggirare senza mortificare la dignità delle donne, dai quali Ikea dovrebbe trarre esempio per le sue prossime iniziative nei paesi arabi. La censura esiste, ma non è meglio cercare di affrontarla, che cancellare goffamente il problema con un colpo di gommino di Photoshop? Voi cosa ne pensate?