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A lezione di cattiva reputazione da Ryanair

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Antonio Esposito 

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Pubblicato il 18/09/2012

Ogni volta è la stessa storia, non importa in che parte d’Europa tu sia. Sali sull' aereo e ti fai strada tra i resti di persone emotivamente distrutte dopo aver pagato qualche inaspettato centinaio d’euro, colpevoli di qualche kg in eccedenza (giurano fosse addirittura meno di un kg!), un check-in online dimenticato o un bagaglio a mano di dimensioni solo per poco inferiori al Boeing 737 che a momenti li farà volare (bastava spingere un po' e sarebbe entrato nella cappelliera, dai!).

Come? Non è una situazione a voi familiare? Significa che non avete mai viaggiato con Ryanair, la low-cost per eccellenza.

L’irlandese volante ha “europeizzato” il vincente business model dell’americana Southwest Airlines, ottenendo un enorme successo. In termine di profitti, si intende.
Difatti l’azienda con sede a Dublino non ha, eufemisticamente parlando, una brand reputation positiva e non fa neanche nulla per fomentarla o limitare i danni.

A scuola di buone maniere

Dove eravamo rimasti? Ah, si! Sospesi in volo. L’aereo atterra, c’è lo squillo delle famose trombe e ti dirigi verso casa. Entri online e noti come una tra le anime scontente sull’aereo stia facendo “rumore” su Facebook, protestando per l’ingiusta (a opinione sua e delle 350mila persone circa che l’hanno supportata) penale pagata in seguito alla mancata stampa delle carte d’imbarco della sua famiglia.

Ecco che l’azienda low-cost (e low-manners in questo caso) sale in cattedra ed insegna a tutti i manager del pianeta cosa NON si debba fare in una situazione del genere. Cancella tutte le conversazioni negative sulla sua pagina e risponde con un comunicato stampa, per mezzo del quale il CEO Michael O’Leary dichiara che la viaggiatrice Suzy McLeod abbia pagato "per essere stata idiota". Si, l’ha fatto davvero!

Glissando sulle valutazioni riguardo le dinamiche del settore in cui l’azienda "blue and yellow" ha rotto le regole del gioco (i numeri parlano a suo favore), è interessante valutare quali siano gli scenari che si prospettano con una politica del genere.

La rete è "piccola" e la gente mormora

Sebbene, come evidenzia un analisi di B2C, almeno il 44% dei commenti al post della donna furiosa difendessero mamma Ryanair, il vero errore è stato commesso dopo. La gente si era mossa contro la smemorata viaggiatrice e quella del comunicato stampa è stata una mossa alquanto azzardata.

Facendo un bilancio dell’ultimo mese tra zecche a bordo e una sciagurata gestione del caso McLeod, è difficile pensare come l’impresa non abbia incassato un ennesimo incremento del buzz negativo online.

Per non parlare della storia del vetro rotto riparato con nastro adesivo, i continui atterraggi d’emergenza o le depressurizzazioni della cabina a cadenza mensile, il tutto generosamente archiviato dal sito I Hate Ryanair. Insomma, cose che ti fanno pensare che il tanto biasimato applauso all'atterraggio non è più cosa da sciocchi zoticoni, ma un sollievo!

Oltre a constatare, dunque, che evidentemente Michael O’Leary non abbia letto Marketing non convenzionale di Cova, Giordano e Pallera (o ne ignora i principi). Bisogna dunque prendere atto di una miope assenza di cultura del word-of-mouth marketing.

Questione di customer feelings

E i profitti? Il business Ryanair è florido ma potrebbe addirittura essere migliore con un minima brand orientation del management. Basti pensare che secondo Nielsen almeno il 70% delle persone sono influenzate dalle critiche online. Rischiando di essere banali, quindi, possiamo affermare che storie e conversazioni negative fanno male alla reputazione.

La marca appartiene alle persone e non è quello che l’azienda vuole, bensì ciò che le persone pensano. Nell’era di internet, tra l’altro, la coincidenza tra brand identity e brand image è difficile a farsi, facile a di-sfarsi.

Lo stesso B2C evidenzia che nel mese di Luglio solo il 6% delle conversazioni attorno all’azienda erano positive. Dopo due mesi possiamo aspettarci che quella percentuale si riduca ancora di più.

Ad ogni modo, l’ostinazione di Ryanair che si comporta come se non avesse una marca da curare, sentendosi inattaccabile dall’alto dei suoi 80 milioni di passeggeri annui, potrebbe con il tempo trasformare un' activity in una liability.

Fuori dal coro

E’ interessante osservare, attraverso i risultati proposti da SocialBakers, come in realtà il tasso d’engagement nei social media dell’intero mercato del trasporto aereo sia secondo solo a quello delle telecomunicazioni.

Volare, per molte persone, non è come bere un caffè. Cercano fiducia e connessioni con le aziende. La stessa Southwest Airlines sfrutta al meglio l’opportunità delle conversazioni bilaterali essendo la compagnia con il secondo numero di followers su Twitter, mentre un’infografica di un anno fa su Kuandika la incoronava addirittura come la più brava sui social media. La “nostra” Ryanair neanche appare nella graduatoria.

Ritorno al futuro

Tuttavia non c’è attualmente nessuno che possa darle fastidio e la sola che ci prova, non sempre riuscendoci, è Easyjet.

L’impresa continua a volare alto (è il caso di dirlo!) come non mai, osservando la progressiva autodistruzione dei concorrenti (ultima in ordine di tempo quella della siciliana Windjet).
Il giorno in cui scenderà in campo un competitor in grado di impensierirla, l’azienda fondata da Tony Ryan pagherà con gli interessi i suoi atteggiamenti e sarà costretta a sfruttare il branding  per "mettere sotto chiave" il consumatore nell'offerta (evitando che lasci la compagnia), imparando il significato di espressioni quali “sense of community” e “active engagement”.

Qualora ciò avvenisse, gli stessi clienti potrebbero decidere di abbandonare la nave. O l'aereo, ad essere precisi.

Fino a quel momento il sistema di offerta rimarrà quello di sempre. Low-cost in tutto. Il prezzo base è quello. Non hai la bibita, non hai il panino, non hai il posto assegnato, non hai il brand. Take it or leave it!

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Scritto da

Antonio Esposito 

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