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Come fare una strategia di influencer marketing per il non profit

Le 5 mosse per ottimizzare, non disperdere energie e lavorare bene sulla tua campagna di influencer marketing per la tua organizzazione no profit, e i consigli di Paolo Iabichino

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Valentina De Felice 

Social media strategist I Content editor

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Pubblicato il 13/11/2017

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Non per metterti ansia, ma il 2018 è alle porte e dovresti già iniziare a lavorare alla social media strategy della tua organizzazione non profit. Non l’hai ancora fatto? Iniziamo oggi stesso. In questo articolo, ti parleremo delle ultime tendenze sui social media, di quali e quante tipologie di influencer puoi contattare, e dove cercarli, come impostare e misurare una strategia di influencer marketing per la tua non profit. Dulcis in fundo, abbiamo chiesto a Paolo Iabichino il suo parere in materia.

Trend 2018

Non profit e influencer marketing

Secondo una ricerca di Adweek, al primo posto tra i trend in crescita nel 2018, troviamo quelli che sono definiti contenuti effimeri, che scompaiono, cioè, dopo essere stati visualizzati dal destinatario. Sembra dunque che nel 2018, i brand dovranno puntare sempre più su contenuti effimeri e di breve durata, specialmente se vorranno raggiungere i Millennial e la Generazione Z.
Secondo Gartner, entro il 2018 circa il 30% delle nostre conversazioni sarà gestito da servizi automatizzati, e l’utilizzo dei bot nel customer service potrebbe diventare un fattore importante di soddisfazione del nostro target. Largo spazio anche ai contenuti visual, livestreaming, e ai canali interattivi in cui poter conversare in tempo reale non solo con il brand, ma anche con altri utenti.

Cosa non cambierà, invece, con l’avvento del 2018, è l’esigenza di produrre contenuti sempre più in linea con gli interessi del nostro target, e per far questo, lo sappiamo, è necessario conoscere l’audience a cui vogliamo parlare, delineare le buyer personas, adottare un approccio narrativo e raccontare le storie in un modo e con un linguaggio che i nostri lettori sentano propri. Raggiungere gli influencer e chiedere loro di condividere le nostre storie è un altro modo per ampliare la portata del messaggio, e portare talvolta a vendite dirette. Questo vale sia per le aziende profit che per le organizzazioni non profit.

Vantaggi dell’influencer marketing nel non profit

Prima dell’avvento dei social media, fare influencer marketing significava entrare in relazione con una celebrità che avesse affinità con l’azienda o che fosse sensibile alle attività di una organizzazione non profit, chiedendogli di parlarne al pubblico di riferimento. Con il tempo, però, il termine influencer ha assunto una nuova accezione.

Se ti stai chiedendo quali vantaggi può ottenere la tua non profit dall’influencer marketing, la risposta è semplice: l’influencer marketing può aiutare la tua organizzazione a ottenere maggiore visibilità e donazioni, costruire fiducia e credibilità, coltivando una relazione con gli influencer, e la tua audience. Ma attenzione, non tutti gli influencer sono uguali. Quali sono gli influencer da contattare, e perché?

Non profit e influencer marketing

Ad aiutarci ci sono diverse categorizzazioni della figura: secondo Starngage, possono essere identificati tre tipi di influencer.
I Mega influencer: attori, artisti, atleti e star che sui social media hanno più di 500mila seguaci e ottengono, per ogni post, dal 2 al 5% di engagement. La loro influenza è bassa, e legata alla celebrità che il pubblico gli riconosce.
I Macro influencer, blogger e YouTuber che hanno da 50.000 a 500.000 follower e ottengono, per ogni contenuto postato, dal 5 al 20% di engagement. Hanno un’alta influenza su categorie specifiche come moda o business. Infine, ci sono i Micro influencer, consumatori quotidiani che hanno tra i 500 e i 100.000 follower, e i cui post ottengono il 25 - 50% di engagement. Hanno un’alta influenza sulla propria rete, per via dell’esperienza personale con il brand che promuovono, e per la stretta relazione con i propri follower.

Npengage, distingue invece tre tipologie di influencer, questa volta specificatamente per il non profit.
I primi sono gli Everyday influencer, i quali sono motivati dalla passione per una causa, e a cui puoi accedere più facilmente. Sono i contatti della tua mailing list, che spesso vengono trascurati poiché non hanno una grande popolarità, ma possono essere molto efficaci.
Il secondo tipo sono Blogger influencer: utili per la produzione di contenuti nei momenti chiave delle tue campagne, e soprattutto se hanno intrapreso attività con l'organizzazione. Infine, ci sono i Vip influencer: celebrità o vip connessi con l'organizzazione. Potrebbe essere un’opportunità coinvolgerli nelle tue campagne, per fare in modo che diventino gli ambasciatori della tua non profit.

Non profit e influencer marketingFare una strategia di influencer marketing per la tua non profit, in 5 mosse

Dati per assodati i tipi di influencer che si possono trovare, bisogna mettersi all'opera per sviluppare effettivamente la strategia. Un processo che richiede diversi passaggi.

Il primo step passa dall’elaborazione degli obiettivi: quanto più sono definitivi, tanto più saremo in grado di individuare la nicchia di pubblico cui rivolgerci, dove guideremo l’influencer nella scelta dei contenuti da condividere.

Il secondo step prevede l’individuazione degli influencer. È necessario creare un elenco di persone vicine ai contenuti della tua non profit, e che abbiano un gran seguito sui social media. Ricorda, però: la dimensione della loro rete è meno importante della pertinenza con il tuo brand. Gli influencer potrebbero essere persone che già conosci; in caso contrario, sarà necessario cercare chi è associato a determinate parole chiave. Come? Ci sono diversi strumenti per fare queste ricerche, molti sono gratuiti o a basso costo. Sul suo blog, Beth Kanter cita Attentive.ly, uno strumento per analizzare le persone della tua lista di posta elettronica, gli influencer sui social media e automatizzare i messaggi agli influencer.

Passiamo al terzo step: coltivare gli influencer. Dopo aver identificato la tua lista di influencer, inizia a condividere i loro contenuti sui tuoi canali social o sul tuo blog, invitali a partecipare ai tuoi eventi, e ricorda: l’influencer marketing si basa sulla relazione e richiede tempo. Dopo aver coltivato la tua lista di influencer, il passo successivo è quello di attivarli per una particolare campagna. Ciò comporta la richiesta diretta di condividere i tuoi contenuti o, meglio ancora, co-creare nuovi contenuti (un e-book, un post, una chat di Twitter o altro).

La quinta e ultima fase è quella della comparazione tra gli obiettivi della campagna e i risultati realmente ottenuti.

Iabichino: «Gli influencer del non profit non devono essere banner»

Per confermare quanto abbiamo scritto, e dare un punto di vista autorevole al nostro pezzo, abbiamo interpellato uno dei più importanti marketer d'Italia: il Chief Creative Officer del Gruppo Ogilvy & Mather Italia  Paolo Iabichino, che nel suo ultimo libro “Scripta volant. Un nuovo alfabeto per scrivere (e leggere) la pubblicità oggi” e nell’intervento al Digital for non profit 2017 ha egregiamente trattato l’argomento.

Inoltre, il primo dicembre, in occasione della Giornata mondiale della prevenzione all'Aids, sarà lanciata la nuova campagna di Anlaids, a cui Paolo Iabichino ha collaborato privatamente come direttore creativo e copywriter. Non possiamo svelarvi di più, se non che la campagna, con affissioni in tutta Italia, avrà come testimonial alcuni personaggi come Saturnino e Magnini, insieme ai volontari di Anlaids.

Non profit e influencer marketing

Gli influencer possono aiutare le no profit a raggiungere i propri obiettivi di comunicazione? E se sì, come?

«Se: si. Come: facendo in modo che l’influencer di turno senta suo il messaggio della non profit. Il rischio, quando si parla di questi temi, è che si ragioni per matrici operative. Per cui, se l’influencer marketing va di moda e funziona per il profit, allora coinvolgiamo l’influencer anche nel non profit. Così facendo, replichiamo dei modelli operativi e nessuno interiorizza niente.

Se l’influencer viene attivato solo per il numero di contatti che ha e la scelta è di GRP (Gross Rating Point), perdiamo l’occasione di cercare una persona che non scelgo solo per il seguito che ha, ma che, oltre al seguito, ha una narrativa vicina e pertinente a quella della non profit.
Non deve partire la fenomenologia dell’influencer, e devo evitare che l’influencer venga scelto solo per il numero di contatti, o per la tipologia del target che raggiunge.

Mi piacerebbe che l’influencer venisse coinvolto realmente nella vita della non profit, che si appropri della campagna e la faccia sua, altrimenti diventa un banner.
I grandi testimonial, più mainstream, in questo sono più credibili, nel senso che quando sposano una causa, ci mettono la faccia e quella causa diventa la loro: è difficile pensare che qualcun altro possa parlare della Lega del filo d’oro se non Renzo Arbore, come mi è difficile pensare all’associazione per la Sma (Famiglie SMA ndr) senza il suo cantastorie, il suo portavoce e la sua bandiera, Checco Zalone.
Mi piacerebbe ci fosse questo tipo di atteggiamento, invece tempo che la moda dell’influencer marketing abbia finito per fare in modo che gli influencer vengano scelti perché hanno un grosso seguito e possano sparacchiare in giro i loro video e non ci sia una reale interiorizzazione del messaggio che la non profit porta avanti».

Quali errori non deve commettere una non profit?

«Questo non è l’unico errore, è l’errore più marchiano: quello di obbedire a delle logiche, anche collaudate nel profit, ma che nel non profit depotenziano il lavoro che la non profit fa. Gli altri errori sono tutti sulla stessa scia, ovvero in tutti quei casi in cui il non profit obbedisce alle logiche di comunicazione che la eco che arriva dal mondo profit gli rovescia sul tavolo, le cosiddette mode.
Come il fenomeno del virale. Perché le non profit a un certo punto hanno iniziato a fare tutti questi video penosi sperando, in qualche modo, di ottenere l’effetto virale? L’hanno visto fare nel profit, senza sapere che il profit sul video virale investe molto, (oggi, illudersi che un video messo in Rete se ne vada a spasso contagiando i computer, è abbastanza naïf). Diventa virale una comunicazione come quella che Checco Zalone ha fatto per la Sla, ma lì c’è una scrittura straordinaria e una pianificazione ben calibrata e quell’oggetto non è nato per diventare virale, ma per innovare il linguaggio.
Al netto di questo, la problematica è un’altra, ovvero prendere le parole del mondo profit, e senza interiorizzarne la strategia, pensare che le si possa applicare nel non profit. Allora c’è l’influencer, andiamo tutti dall’influencer, c’è il video virale e allora facciamo video».

(A proposito di video, ve ne proponiamo uno, firmato da firmato da Paolo Iabichino e dal team di Ogilvy per Emergency, sull’importanza della solidarietà e dell’abbattimento di ogni barriera di fronte ai profughi e rifugiati da guerre e carestie. Lasciamoci ispirare)

Ci sono esempi di campagne di successo del non profit?

«Se usciamo dal ricatto intellettuale dell’Ice bucket challenge, e facciamo pace con il fatto che quella cosa non può essere replicata perché è stata straordinariamente fortunata per via delle tante variabili che si sono allineate per renderla tale, ecco, qualunque modalità di coinvolgimento dell’influencer in cui l’influencer sposa una causa e la condivide con il proprio seguito, secondo me è un buon esempio».

VUOI APPROFONDIRE L'ARGOMENTO?
  • npENGAGE
  • Beth Kanter
  • Social Media Examiner

Scritto da

Valentina De Felice 

Social media strategist I Content editor

Nata il 21 febbraio 1983 a San Benedetto del Tronto. Dopo una laurea in Scienze della Formazione e una in Psicologia, decide di rinnovarsi coniugando sociale e comunicazione. … continua

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