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Quest'articolo è stato scritto da Claudio Vaccaro, CEO di BizUp (agenzia di web marketing del gruppo Alkemy) e di UpStory e Docente del Master in Digital Marketing di Ninja Academy.
Quando persino un manager di IAB (Scott Cunningham), riferendosi ai formati pubblicitari online è costretto ad ammettere che “We Messed Up” (abbiamo fatto casino), significa che effettivamente qualcosa nel digital advertising non va.
Sempre più critiche, sia lato domanda (brand/advertiser) sia lato offerta (editori/publisher online) si levano contro il tradizionale modello di display advertising, che tanto ha caratterizzato i primi 23 anni di pubblicità online (il primo banner infatti vide la luce nel 1994).
Il Presidente di Pepsi ha affermato che “odia i pre-roll” (gli spot pubblicitari che si inseriscono prima della visione di un contenuto video online, ndr), mentre il boss del principale centro media al mondo (Martin Sorrell di WPP) ha confutato l’essenza stessa del sistema di misurazione dell’advertising online, facendo intuire grosse “falle” nel modo in cui la pubblicità viene proposta agli utenti e soprattutto venduta agli inserzionisti.
La display advertising insomma sembra essere in crisi di identità, nonostante i passi da gigante fatti in questi anni sull’automazione e la scalabilità della compravendita (grazie al programmatic), che le hanno indubbiamente ridato slancio e vitalità.
Lo capiamo da diverse spie:
Lato domanda (advertiser), i brand hanno iniziato ad affrontare questi problemi dell’advertising online anni fa, puntando su forme di promozione più accettabili per l’utente perché di maggior valore. Content marketing, Branded content (video, infocontent, reviews, fotogallery…) e influencer marketing vengono sempre più spesso utilizzati come alternativa alla pubblicità tradizionale (nel 2019 raccoglieranno circa 54 miliardi di dollari di investimenti), generando maggiore attenzione ed engagement e riscontrando un tasso di fiducia degli utenti 7 volte superiore a quello della Display advertising. Inoltre i contenuti sono permanenti e grazie alla SEO catturano maggiore traffico nel medio lungo termine, anche a campagna conclusa.
Ma il content marketing presenta alcuni problemi:
Lato offerta (editori, publisher e piattaforme), chi ha capito realmente cosa fare sono stati per primi i Social network. Forti della loro penetrazione e osservando il comportamento degli utenti su Mobile hanno capito che La pubblicità non avrebbe dovuto invadere lo spazio dei contenuti (a causa delle dimensioni degli schermi) e che invece avrebbe dovuto essere ottimizzata per l’orientamento verticale senza interrompere il flusso di navigazione (a scroll continuo).
Nel 2012 Facebook, anziché insistere sui classici formati display, ha lanciato un formato pubblicitario semplice ma rivoluzionario, lo sponsored post: questo formato presenta la stessa forma, dimensione e funzionalità (like, share) dei post prodotti dagli utenti, inserendosi nel flusso dei post del newsfeed senza interrompere la navigazione, seppur segnalato da una label di sponsorizzazione. Questa apparentemente banale novità ha portato i ricavi pubblicitari da Mobile di Facebook dal 12% al 75% sul totale in 5 anni.
I Social Network hanno indubbiamente trainato la nascita del Native “moderno” (anche se ci sono diversi precursori storici come gli annunci di Google Adwords e i recommendation Widget a fondo articolo), ovvero di annunci pubblicitari che:
Ma la vera novità di questi anni è il fatto che i formati nativi a cui siamo abituati in contesti social (vedi Facebook, Twitter, Pinterest, Instagram, Youtube) grazie alle tecnologie sfornate dai player mondiali dell’ad-tech, possono essere acquistati anche in contesti premium, ovvero siti gestiti da editori i cui contenuti sono sviluppati da una redazione.
Per standardizzare questo mercato in rapida evoluzione, lo IAB (Internet Advertising Bureau, l’associazione che definisce gli standard pubblicitari), ha codificato 6 formati “nativi”:
La maggiore critica che viene mossa a questa nuova forma pubblicitaria è quella di confondere l’utente, abbattendo il confine tra “Stato e Chiesa” (pubblicità Vs. contenuto). Obiezione lecita ma già smarcata dalla regolamentazione di IAB, che prevede di segnalare chiaramente qualsiasi contenuto sponsorizzato con una apposita etichetta (es: “sponsored by”, “advertisement” ecc…) garantendo la massima trasparenza.
Oltre a funzionare meglio della display advertising (vedi immagine seguente) e ad essere meglio “digerita” dagli utenti (in quanto meno intrusiva di altre forme pubblicitarie online), dal punto di vista dell’advertiser la Native Advertising è una tattica eccellente a supporto di una strategia di content marketing, uno strumento di amplificazione dei contenuti prodotti dal brand (ovvero i branded content).
Per poter amplificare contenuti brandizzati e messaggi promozionali utilizzando i formati pubblicitari native, è possibile acquistare visibilità da editori o piattaforme tecnologiche in grado di attivare e gestire campagne. Possiamo dividere i player di questa industria in queste categorie:
L’acquisto di queste campagne è possibile sia in reservation (classica vendita diretta dell’editore/network all’inserzionista) sia in programmatic, grazie al nuovo protocollo RTB 2.3 che ha consentito la standardizzazione delle creatività tra domanda e offerta, sebbene ancora non sia completa al 100%.
Nel 2018 si prevede che, solo nel mercato USA, gli investimenti in native advertising supereranno la cifra di 20 miliardi di dollari, segno di una sempre maggiore attenzione nei confronti di una forma pubblicitaria che si sta configurando sempre di più come la naturale evoluzione della display advertising.
>>> Di questi temi e di tanti altri aspetti e ripercussioni parleremo nel Master in Digital Marketing di Ninja Academy (formula Online + Digital Factory: a 60 ore di didattica online abbina un percorso pratico a Milano o Roma)!
Go native!
Oltre a funzionare meglio della display advertising e ad essere meglio “digerita” dagli utenti (in quanto meno intrusiva di altre forme pubblicitarie online), dal punto di vista dell’advertiser la Native Advertising è una tattica eccellente a supporto di una strategia di content marketing - Claudio Vaccaro, docente Ninja Academy