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Cosa resterà di quest’haka: Nivea, il Milan e i sentimenti da non toccare

L'attività promozionale di Nivea Men con l'AC Milan che ha fatto discutere la rete

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Francesco Gavatorta 

Columnist @Ninja Marketing

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Pubblicato il 22/04/2016

Nelle settimane scorse, su alcuni quotidiani sportivi erano comparse immagini di un presunto “motivatore” neozelandese che si aggirava per i campi di Milanello, headquarter dell’AC Milan, intento a insegnare ai calciatori l’haka, la danza di guerra resa celebre dalla nazionale neozelandese di rugby.

da chiamarsibomber.com

da chiamarsibomber.com

 

Di J. Maori (un nome, un programma) si era parlato con curiosità mista a stupore, visto che una danza presa a prestito dal glorioso popolo residente agli antipodi, per quanto pittoresca, non poteva esser certo la medicina giusta per una squadra abituata a vincere e da un po’ confinata alle periferie del calcio che conta.

Il perché un team globale come il Milan si dedicasse al ballo invece che al saltare i conetti e provare le marcature è stato poi spiegato in occasione del match di serie A Milan Carpi, quando alcuni rossoneri vestiti sono apparsi in campo mostrando quella che è stata definita la “Tekitanka”.

Un ballo svolto per conto di Nivea Man: attività promozionale che ha anche ricollegato la presenza del sedicente motivatore a un’azione teaser, per certi versi anche abbastanza riuscita.

Gli spettatori, forse ingannati dai nomi sulla schiena delle magliette, hanno intravisto - sbagliando - i giocatori che da lì a poco avrebbero dovuto entrare in campo per provare a salvare le residue speranze di Europa League. E, diciamo così, non hanno molto apprezzato.

Anche perché l’haka, come detto prima, non era la versione originale, bensì una Tekitanka: e i calciatori, veri o presunti che siano, non minacciavano alla maniera dei Maori gli avversari, bensì mimavano la fase di detersione della pelle.

Autore della campagna, lo sponsor dell’AC Milan Nivea Uomo, che forse non si aspettava così tanti feedback negativi.

Puoi parlare di tutto, ma non della mamma e la squadra di calcio

Il calcio è terreno ricco di possibilità per i marketer. Ne sanno qualcosa Nike e Adidas, che sulla commercializzazione dell’immagine dei grandi calciatori hanno costruito il proprio esser love brand.

Questo perché lo sport, in generale, sa racchiudere tutto ciò che di più puro e stimolante l’uomo moderno porta con sé, a livello soprattutto valoriale e aspirazione: la capacità di andare oltre i propri limiti, superare l’avversario, vincere, entrare nella storia.

Uno sportivo è prima di tutto un modello positivo, non solo nello sport ma nella vita. Ne sanno qualcosa gli amanti di una disciplina che non a caso è definita “Nobile arte”: la boxe, protagonista di commercial che prima che essere comunicazioni di brand diventano narrazioni di vita.

https://www.youtube.com/watch?v=TirvIBZlznA

In questo contesto, il rugby ha portato all'attenzione del mondo uno sport che, prima dell’avvento di alcuni grandi team contraddistinti da fenomeni autentici e irripetibili (Johan Lomu, ma anche Sébastien Chabal) e soprattutto dalle TV satellitari, non riscuoteva il successo che meritava.

In questo, gli All Blacks hanno saputo catturarsi le simpatie del pubblico perché in grado di riversare nelle partite che giocavano tutto l’orgoglio e la tradizione di un paese piccolo e lontano, la Nuova Zelanda, del suo popolo, delle sue radici.

Quella danza così unica e affascinante era diventato copyright del brand All Blacks: proprietà intellettuale e simbolica che rafforzavano il legame con gli spettatori, facendo diventare potenzialmente esplosivo qualsiasi uso che se ne fosse fatto in termini commerciali.

Come in uno spot per un’auto italiana, dove casalinghe arrabbiate affrontavano il traffico, ad esempio:

L’haka diventa caratteristica, divertente, riconoscibile tanto quanto la squadra di Bob giamaicana, ritratta addirittura in un film.

Nivea però sbaglia soggetto. Perché un'haka possono ballarla delle donne moderne che cercano l’auto dei sogni, ma non una squadra di calcio: perché un team di serie A, di Premier o della Liga vive di quelle stesse emozioni, e su quelle stesse emozioni vince le partite. È padrona quindi del destino del tifoso, della sua felicità o della sua delusione.

Sensazioni che il tifoso non è disposto a scambiare con nulla. E il brand che sfida quella sfera emotiva, solleticando l’immaginario con leggerezza, non può che portare a un risultato: la delusione.

Un insuccesso prevedibile?

Difficile dire se l’operazione avrebbe potuto essere gestita diversamente.

Certo è che pianificare prima del turno infrasettimanale, in una partita con poco pubblico e con una squadra appena uscita da un esonero di allenatore traumatico e un gruppo in piena crisi di risultati, poteva essere rischioso. Se poi il ballo incriminato è messo in scena prima di uno scialbo zero a zero, ecco che la crisi è pronta per esser servita.

Nivea ha scelto di giocare su un campo (è proprio il caso di dirlo) difficile come quello calcistico, usando però un linguaggio difficile da digerire per chi il calcio lo vive sulla propria… pelle.

Puntare sull'agonismo e la voglia di vittoria, decontestualizzando e banalizzando un rito appartenente a un altro sport, a un’altra squadra, a un’altra nazione, è equivalso a rendere una caricatura il gesto in sé, facendolo diventare ridicolo, per di più perché associato a un team che di grinta sembra proprio non averne.

Non a caso fra i pochi commenti ricevuti sulla brand page di Nivea Men su Facebook, si legge:

“Ragazzi amo i vostri prodotti e sono milanista. Ma lasciatevi dire che state accostando la vostra immagine ad una squadra ridicola e giocatori ridicoli. Dopo il barbiere spesso mi piace regalarmi qualche prodotto da uomo, oggi la vostra crema dopo barba mi ha ricordato montolivo e l'ho lasciata sullo scaffale. Fate una riflessione anche su questo.”

Il tifoso vede il prodotto che impoverisce di significato una gestualità condivisa, per di più ridicolizzando i propri amati colori, e ripensa a tutto ciò che imputa colpevole di rendere poco competitivo il team (nel caso del suddetto, Montolivo). Un processo associativo abbastanza semplice, aggravato dal fatto che la gestualità diventa macchietta, considerando come dalla minaccia al nemico il ballo di San Siro sia diventata celebrazione della cura della propria pelle.

Fail epico, ripreso (ahinoi) addirittura da Mashable, che si chiede:

Can you imagine club legends Paolo Maldini, Gennaro Gattuso or Clarence Seedorf performing a fake haka for their sponsors? It would never happen.

Una comparazione che ogni domenica si fanno i tifosi del Milan, sempre pronti a ritirar fuori i successi del decennio scorso, contrapponendoli agli insuccessi di oggi.

Lo sbaglio è stato tutto lì: credere che il calcio potesse esser vissuto come un gioco, come un contenuto spendibile nelle conversazioni a commento della reclame fra primo e secondo tempo: “Hai visto che divertenti, le signorine che ballano come i maori?”.

Peccato per l’occasione persa, Nivea. Peccato per il Milan, che sembra non riuscir a uscire - neanche a livello di marketing - dall’involuzione tecnico-tattica di questi anni.

Ma con le narrazioni di prodotto non si scherza, soprattutto se incrociano le esperienze più vere.

La regola universale per costruire narrazioni efficaci

Heineken ha da tempo focalizzato il proprio rapporto con il mondo del calcio sulle persone, raccontando la linfa che rende magico il momento del match. L’ultima campagna, "The Dilemma", si concentra proprio sul rapporto squadra di calcio - amicizia, e di come le gesta dei calciatori siano solo l’occasione per costruire una coscienza collettiva insieme alle persone cui si vuole più bene.

Inutile dire che siano queste le meccaniche più efficaci per costruire non spot, ma storie. Racconti dove la marca diventa il collante delle relazioni, fra prodotto e consumatore, e fra gli stessi consumatori.

Certo, una birra lo è di più che una crema per il viso: è vero altresì che ogni brand, così come ogni prodotto, ha in pancia le risorse per diventare storie che sappiano entrare in empatia con chi le ascolterà.

Basta stare attenti, e sembra una banalità, a non “scherzare con il fuoco”. O per dirla in maniera più attuale, con le cose serie come la fede calcistica.

Update

La pagina di Nivea for Men in Australia ha appena pubblicato le sue scuse per ciò che è capitato in Italia: perché se con il calcio non si scherza, ancor più cauti bisogna andare con le tradizioni culturali di un popolo!

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Scritto da

Francesco Gavatorta 

Columnist @Ninja Marketing

Strategist, trainer, giornalista pubblicista. Specializzato in Comunicazione Multimediale e di Massa e Storytelling. Columnist @Ninja Marketing. Trainer @Ninja Academy. Pe… continua

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