What a Space è un marketplace dedicato a locali affittati temporaneamente per usi quali temporary store e shop sharing, ma anche location per photoshooting, corsi, riunioni ed eventi aziendali.
Domanda e offerta si incontrano in uno spazio virtuale dedicato soprattutto ad aziende e professionisti che necessitano di far soffiare un vento di novità su brand, prodotti/servizi, e perché no, anche dipendenti e stakeholder.
Spazi inesplorati spesso offrono un punto di riferimento materiale agli eCommerce o l'occasione per un meeting a realtà imprenditoriali complesse.
Nel Belpaese il fenomeno ha particolarmente attecchito a Milano, ricca di occasioni di visibilità che ogni giorno vede Owner e Space User intrecciare accordi fruttiferi. I primi sono i possessori di spazi commerciali, che possono iscriversi alla piattaforma online, creare autonomamente un annuncio e ricevere direttamente le richieste dei secondi. La rosa delle possibilità include dunque vetrine nelle vie più trafficate, spazi unconventional e location di qualunque tipo.
Questo avviene soprattutto grazie a What a Space, startup pioniera nel settore del temporary retailing, fondata nel 2013 da Daniela Galvani e Andrea Sesta.
L'ultimo traguardo attraversato porta il nome di "Pop Up Alliance 2016". Si tratta di un'accordo internazionale di collaborazione tra startup leader nel settore in diverse realtà nazionali. Dall'Europa all'Asia, l'alleanza include Go Pop Up (Germania, Austria e Svizzera) My Pop Corner (Francia), la promotrice Pop Places (Spagna), Pop Scout (Hong Kong) e What a Space (Italia).
Ulteriori dettagli li apprendiamo direttamente dai fondatori. La parola a Daniela e Andrea.
Per quale tipologia di evento e di location What a Space registra maggiore traffico?
D&A - Sono due macrotemi presenti nella piattaforma: spazi evento e temporary retail. Anche se per noi sono sostanzialmente la stessa cosa, il pubblico li percepisce in modo diverso; la presenza di una vetrina e le finalità di vendita cambiano le prospettive degli utenti.
Per quanto riguarda gli eventi, "unconventional space" è un concetto chiave. Le location più particolari vengono richieste in base alle necessità del cliente in quel preciso momento. A titolo di esempio, Google Italia ha richiesto una location in centro a Milano per un primo evento, e una all'aperto con piscina per uno successivo.
Per il retail le richieste si concentrano sulle vie di passaggio, ma quali siano nello specifico dipende dal periodo e dal settore commerciale coinvolto.
I clienti non chiedono mai gli stessi spazi: ogni volta le richieste sono diverse, ma la piattaforma risponde automaticamente. In casi eccezionali i clienti possono chiamarci per effettuare una ricerca specifica, ma sono eccezioni. È il digitale a consentirci di tenere bassi i costi e solo questo è il core business.
Volendo identificare dei trend tra gli spazi più gettonati, vanno per la maggiore location rustiche, locali ampiamente sviluppati in verticale, e una caratterizzazione vintage.
Space user e Owner. Allo stato attuale delle cose, quale categoria di interlocutori necessita maggiormente di essere guidata?
D&A - Siamo nel settore da 3-4 anni e ancora unici in Italia: l'effetto novità è ben presente e la percezione, anche imprenditoriale, limitata.
Molte sono le agenzie di comunicazione ed eventi che ci contattano una prima volta per poi utilizzare la piattaforma in modo seriale per conto di diversi Space User finali. Per loro è un servizio utile!
Da nessun'altra parte è possibile reperire un simile database. Le proprietà sono uniche, e il sistema di crowdsourcing funziona anche per la facilità del processo di iscrizione, che peraltro è gratuito. I proprietari apprezzano la possibilità di inserire autonomamente la propria location.
Un possibile approccio interessante riguarda invece soggetti che gestiscono più spazi destinati esplicitamente a diventare temporary shop: utilizzare allestimenti modulari e consegnare i locali chiavi in mano al cliente; il giorno dopo la firma è già possibile popolare il negozio con i prodotti. Si tratta di uno scenario ancora pionieristico, ma è un modello che si potrà espandere anche in centri più piccoli.
Spazi virtuali e luoghi fisici: che testimonianza potete dare dell'evoluzione degli eCommerce verso una strategia omni-channel?
D&A - Vogliamo diventare il trait d'union tra spazi fisici e digitali: è questa l'essenza di What a Space. Gli interlocutori più allineati alla nostra vision parlano una lingua digitale con la necessità di fare una sortita nel mondo fisico. La società di oggi è ancora fortemente legata ad esso: gli acquisti offline ancora si attestano attorno al 90% del totale.
Gli eCommerce avvertono la necessità di farsi conoscere e capire come reagisce il cliente a toccare e provare il prodotto. Adottano così una strategia di sperimentazione, coinvolgendo la nostra piattaforma. Questo perché un eCommerce che nasce online, ma prima di diventare un'azienda grande ha bisogno di un negozio fisico. Non si può prescindere da questo passo.
Quello che funziona è un approccio integrato tra virtuale e fisico: la vendita sempre più online, la parte esperienziale offline.
What a Space offre la possibilità di testare un modello MVP (minimum viable product) il cui investimento è infinitesimale rispetto all'apertura diretta. Il progetto può perfino prendere una piega permanente, come accaduto al ristorante "The Stage" di Replay.
Sul fronte degli eventi, invece, molte aziende sentono distintamente la necessità di avere uno spazio unconventional, soprattutto se arricchito dai servizi aggiuntivi forniti da What a Space. Un esempio tra tanti è stato l'evento "The Nature of Motion" organizzato da Nike in occasione del Salone del Mobile 2016.
Quali sono i vantaggi e le difficoltà di operare internazionalmente?
D&A - Con quest'iniziativa abbiamo costituito un network, ci siamo è allineati con i competitor: normalmente sono molto temuti nel mondo delle startup, ma non è questo il caso.
Sconfinare negli altri paesi non ha senso: i rispettivi mercati interni sono sufficientemente ampi per rispondere alle esigenze di crescita di ogni membro della Pop Up Alliance 2016, anche se la scalabilità è complessa, perché serve una forte connessione con il territorio.
Creare un'alleanza dal basso è un modello vincente e il metodo più veloce per rendere operativo il tutto è stato scambiarsi gli annunci: l'utente finale che conclude un accordo all'estero non si accorge nemmeno di rivolgersi ad un altro portale.
Alla luce della vostra esperienza, quale consiglio dareste ad uno startupper la cui azienda è in fase di seeding/pre-seeding?
Daniela - Serve innanzitutto determinazione. Puoi avere l'idea più bella e il team più preparato, ma devi portare avanti il tuo credo: ci sono tanti ostacoli nel percorso (cambiare modello di business, assumere personale, ...) e vanno superati tutti. La fortuna, poi, non guasta mai; all'inizio si opera in perdita e questo periodo può durare anche 3 anni. Ma soprattutto conta il team! Le competenze condivise devono essere trasversali e complementari, ma oltre a questo va messo da conto che il business si sviluppa attraverso momenti dalla forte carica psicologica che vanno superati insieme.
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Andrea - Il team al primo posto! Poi la disponibilità a mettere sempre in gioco la propria idea, a mettersi in discussione. Nulla è assodato, soprattutto nel mondo delle startup. Infine raccomando di testare le cose il prima possibile, con il minor sforzo possibile: occorre saper fallire, e saperlo fare in fretta.