E’ unanimemente riconosciuto che la domanda finale di beni e servizi è diventata nel tempo più complessa, mutevole ed esigente. Il consumatore moderno è molto diverso da quello a cui Henry Ford, fondatore della Ford Motor Company, poteva permettersi di dire: “Any customer can have a car painted any colour that he wants, so long as it is black”.
Parallelamente, anche l’aumento della competizione e della concorrenza a livello di offerta, hanno contribuito a invertire i rapporti di forza tra impresa e consumatori: questi ultimi regnano praticamente incontrastati.
Un nuovo approccio analitico
Tutto ciò ha reso imprescindibile un approccio sempre più scientifico e strutturato nell’analisi della domanda, nella sua segmentazione e nelle attività di targetizzazione ad essa relative. A questo si è aggiunta, negli ultimi decenni, una nuova sfida, che, come tale, rappresenta anche un’opportunità: la multiculturalità.
Il marketing e la comunicazione, oggi, devono essere in grado di progettare, realizzare e comunicare value proposition ideate in base alle esigenze e alle caratteristiche specifiche dei diversi orientamenti culturali.
La cultura, definibile come un insieme di riferimenti ideali, valori e comportamenti comuni a un determinato gruppo di individui, è ancora, nonostante la globalizzazione, piuttosto pervasiva nell’influenzare o determinare le preferenze di consumo delle persone.
Questo concetto vale sia nel caso in cui un’offerta sia rivolta a un gruppo culturale interno al paese in cui l’azienda affonda le sue radici, ma anche (e soprattutto) quando la proposizione di valore sia esportata all’estero.
Quale deve essere quindi l’approccio che un’azienda deve seguire per sfruttare queste nuove opportunità? Certamente, le imprese non possono più limitarsi a studiare la domanda attraverso analisi demografiche o comportamentali, perché queste non considerano i fattori culturali appena visti.
In entrambi i casi precedenti è necessaria una conoscenza approfondita e specifica dei criteri valutativi di tipo culturale di un’etnia o un popolo. In mancanza di tutto ciò, infatti, si baserebbero le strategie di marketing e le politiche comunicative aziendali su stereotipi o convinzioni errate, inficiandone efficacia ed efficienza.
Quando le imprese sbagliano
Gli esempi di errori di valutazione delle aziende in questo senso sono molteplici. Quelli più significativi sono rinvenibili negli Stati Uniti, tra i paesi ancora oggi più interessati da forte immigrazione e da un continuo fermento etnico.
In America, infatti, una ricerca del Pew Research Center stima che il 43% dei cosiddetti millennials non è di origini bianche, ma ispanico, nero, asiatico o di altre etnie minori. E’ chiaro quindi come, proprio in questo paese, le sfide per le aziende sono maggiori.
Negli Stati Uniti l’80% della musica hip hop è ascoltata da uomini bianchi delle periferie, contrariamente all’opinione prevalente, che considera questo genere una prerogativa esclusiva della popolazione nera.
Sempre in questa direzione, una ricerca di Nielsen riguardo agli americani che consumano salse da condimento alternative al Ketchup, ha dimostrato che, all’interno di quel cluster di consumatori (10% del totale) che acquista la metà della produzione di salse, solo il 13% appartiene all’etnia ispanica, stravolgendo anche in questo caso il sentore comune.
In un mercato dai grandi volumi come quello statunitense, fondare le proprie azioni su convincimenti errati può determinare un’efficacia minore o nulla delle politiche adottate e può rappresentare la causa del mancato sfruttamento di preziose opportunità di crescita.
Quando invece un’impresa decide di esportare la propria offerta in un altro paese, specie se molto diverso da quello di partenza, è imprescindibile una conoscenza più che approfondita della cultura di quest’ultimo, al fine di comprenderne le abitudini di acquisto, consumo e comunicazione.
L’errore più grave sarebbe quello di tentare di riprodurre all’estero, senza variazioni, un approccio utilizzato in patria per la vendita e la comunicazione di un’offerta.
Il rischio, certo, sarebbe duplice: da un lato si adotterebbe un approccio inefficace e dall’altro si apparirebbe come una sorta di invasore che intende imporre un modo di vivere e di pensare ad un altro popolo, che potrebbe sentirsi discriminato o addirittura oltraggiato, con inevitabili conseguenze negative in termini di immagine.
Un nuovo concetto di cultura
Fino a qui abbiamo considerato la cultura come vincolata all’appartenenza a una determinata etnia. Una visione di questo tipo sarebbe tuttavia parziale e limitante.
In molti frangenti, infatti, la cultura non è predeterminata, ma si sceglie. Lo sport da praticare, il cibo, la musica da ascoltare e lo stile di abbigliamento fanno parte, sempre più frequentemente in un mondo globalizzato, dell’autodeterminazione del singolo individuo.
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Considerare la cultura anche in questa nuova e differente accezione, significa conferire e riconoscere la possibilità di scelta al singolo consumatore e, soprattutto se questi fa parte di una minoranza, implica una sensazione positiva di maggiore inclusione nella società.
Appare quindi necessario andare oltre agli approcci più tradizionali di analisi della domanda, cercando di penetrare particolarmente a fondo nella componente culturale di quest’ultima. Solo in questo modo, le aziende, riusciranno ad affrontare in maniera vincente le sfide avvincenti della multiculturalità.