Thomas Piketty, autore del saggio Le Capital au XXIe Siècle, al centro dell'attenzione mediatica mondiale
Non si può negare che il tema della disuguaglianza tra gli uomini tocchi particolarmente le nostre sensibilità, al punto che restiamo abbastanza diffidenti di fronte alle argomentazioni economiche che lo affronta con lo scopo di risolverlo.
In questo caso però sarebbe disonestà intellettuale porsi nei confronti de Le capital au XXIe siècle, il saggio dell'economista francesce Thomas Piketty che sta facendo discutere il mondo da mesi, conservando una tesi di torto o ragione sul lavoro che ha compiuto.
Il libro solleva questioni economiche che dovrebbero avere impatto sulle politiche dei Paesi di tutto il mondo, proponendosi come una lettura storico-filosofica che richiama le tesi sul Capitalismo di Carl Marx, sul Reddito di Simon Kuznets, sulle politiche per l'occupazione di David Ricardo o la migrazione delle popolazioni di Arthur Young, per citarne alcuni tra i più importanti all'interno della trattazione.
Eppure davanti la tesi per la quale la disuguaglianza tra classi sociali è destinata ad aumentare, il mondo dell'informazione si è diviso senza uscirne molto bene.
Paul Krugman, economista americano di stampo liberal-democratico, concorda con il collega Piketty
Ad esempio la critica di Chris Giles, il caporedattore del Financial Times, confrontatasi con la voce di Paul Krugman, alla fine si è risolta in una figuraccia, oppure la sottile disfatta di Carlo Formenti su MicroMega che dichiara impotenti i neoliberisti e i conservatori italiani nei confronti delle tesi di Piketty risulta più una propaganda mirata che un servizio di informazione ai cittadini, per non citare grandi gruppi editoriali come L'Espresso che ha deliberato totale adesione alle tesi del nuovo Capitale, rilanciando in buona sostanza altrettante posizioni conservatrici, da cui invece l'autore si distacca perché dichiara il bisogno di un profondo rinnovamento sociale globale.
Perché il bombardamento mediatico non sta tutelando l'informazione
Il capitale al XXI secolo è un mattone di quasi mille pagine, veramente bello e molto più facile da consultare di quanto non si immagini, che parla in estrema sintesi delle differenze sociali che dipendono dalla ricchezza economica. Molti lo considerano -erroneamente- la continuazione de Il Capitale di Marx, anche se è senza dubbio destinato a diventare un classico dell'economia.
La distribuzione della ricchezza tra le popolazioni: uno sguardo alle condizioni delle favelas brasiliane
Diviso in quattro parti, questo libro si basa principalmente su una raccolta di dati sui redditi delle famiglie in tre secoli, guardando soprattutto a Paesi come Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti, comparandoli con grandi realtà come Canada e Cina.
Ma non è facile difendersi dal bombardamento mediatico che critici, giornalisti ed economisti stanno facendo contro i lettori di tutto il mondo, contro di noi perché spesso non vengono chiariti i motivi di tanto assenso, o dissenso, sull'analisi condotta in questi ultimi quindici anni da Piketty, motivi che invece sono alla base di una corretta informazione.
L'economia come scienza e il giornalismo come dovere di informazione alla base della democrazia hanno iniziato a deragliare con la loro politicizzazione, condizione che induce ad anteporre il problema della distribuzione della ricchezza al problema della sua creazione, se non addirittura a confondere i due problemi.
Ed è questa confusione che ha creato un'opinione pubblica convinta del fatto che la ricchezza esista di per sé, come esiste l'aria, e il guaio sta nella sua mala distribuzione.
Che la distribuzione della ricchezza sia iniqua e moralmente inaccettabile è vero, ma che ridistribuire ricchezza possa generare maggior ricchezza è falso, perché attivare politiche economiche di redistribuzione potrebbe produrre invece maggiore povertà, quindi si otterrebbe un danno economico incalcolabile: è dovere dell'economista guidare i politici verso certe scelte, ma è dovere dei cronisti di tutto il mondo spiegarlo in maniera molto seria e senza fare ideologismi.
Scrivo queste righe prima di tutto da lettrice. La mia penna vuole mobilitarsi in difesa del lettore e provare a spiegare quali sono gli elementi del ragionamento di ogni parte del libro, e per ognuna di esse rispondere ad una domanda, con l'obiettivo di non dover più leggere da ora in avanti un blocco di informazioni sottoforma di recensione o critica non spiegata, ma dotarci di alcuni elementi fondamentali per rispondere a questo chiacchiericcio mediatico.
1. La prima causa della disuguaglianza sociale: c'è ricchezza e ricchezza
Global Wealth Report
Da notare: Piketty ci mette oltre cento pagine prima di scrivere la parola "disuguaglianza".
Non lo fa per via di lunghe introduzioni, anzi, perché dopo aver dato le definizioni di base dei concetti di cui si servirà più tardi, spiega qual è la sua prima proposta: rimettere la questione della ripartizione della ricchezza al centro dell'analisi economica.
Parlando di ricchezza, distingue la ricchezza di un paese dalla ricchezza del mondo nel suo insieme, intuitivamente per arrivare a concludere che se ognuno ci mettesse un minimo e si riuscisse a investire una parte della ricchezza "comune" soprattutto nei paesi più poveri e aiutare le economie emergenti, si potrebbe fondare una giustizia sociale a garanzia della competività vera tra i Paesi.
Distingue l'origine di questa ricchezza, in modo da farci capire che esiste una ricchezza "reale", che è il frutto della produzione, e una ricchezza "virtuale", che è il frutto dei ricavi dati dagli scambi economici.
Dopo la crisi finanziaria del 2008 che ha colpito l'Occidente, sappiamo ormai bene che è la ricchezza virtuale, basata sul debito, che permette ricavi maggiori ma allo stesso tempo favorisce speculazioni, corruzione, bolle di mercato, con annessa perdita del potere d'acquisto e sfruttamento del lavoro, quando c'è ancora. Inoltre, sono i ricavi che permettono la crescita dei patrimoni da parte di alcune classi sociali.
Si tratta di patrimoni che un tempo le famiglie ricavavano dal proprio lavoro e che si tramandavano nel corso delle generazioni, con una crescita lenta e progressiva, ma tutto sommato proporzionata alla reale ricchezza che era stata creata con questo lavoro. Dalla Guerra Fredda in poi, invece, i patrimoni sono stati completamente persi da alcuni e messi in piedi da zero nel giro di pochissimi anni da altri.
La differenza rispetto al passato è che però questi patrimoni sono sì connotati da una crescita molto più elevata e veloce, ma si trovano in mano ad una percentuale di persone in netta minoranza rispetto al passato.
Prima domanda: è giusto pensare alla convergenza delle economie ancora come obiettivo perseguibile?
La famosa "champagne-glass distribution"
Insomma: in passato la società era caratterizzata da un numero più elevato di persone ricche rispetto ad oggi, ma esse possedevano proporzionalmente meno ricchezza. Oggi ci sono in società molte meno persone ricche rispetto al passato, ma in compenso ognuna di loro detiene una ricchezza inimmaginabilmente elevata rispetto a tutte le altre, che restano molto molto povere.
Alla luce del raggiungimento di una certa uguaglianza economico-sociale, la convergenza delle economie dei singoli Paesi propone obiettivi comuni, come mantenere un certo rapporto tra debito pubblico e Pil, istituire tassi di cambio o interessi sugli scambi uguali per tutti, per fare qualche esempio, che, l'esperienza europea post Trattato di Maastricht insegna, non sempre sono effettivamente perseguibili o, per lo meno, non lo sono senza fare altrettante vittime di ingiustizie (si vedano i casi di Germania, Grecia e Spagna).
In qualche modo quindi, secondo me, per potersi far ispirare dalla lettura di questo saggio di Piketty bisogna scegliere quale delle due condizioni si preferisca. In seconda istanza, bisogna poi ragionare sull'adozione di una politica economica che però possa garantire a tutti libertà e benessere. Inutile tergiversare: non bisogna tradurre il ragionamento di Piketty come una propensione al livellamento sociale verso il basso, in una situazione in cui l'uguaglianza corrisponderebbe ad una nuova forma di socialismo (per quanto mi riguarda, sicuramente da temere).
Bisogna comprendere invece che l'analisi che ci viene fornita è utile a convincerci dell'intelligenza e dell'utilità per tutti di adottare politiche di economia etica che aiutino i Paesi di tutto il mondo a tendere verso una dimensione di maggiore benessere e sostenibilità sociale.
In questo senso, sì, assolutamente sì, è bene (ri)pensare ad una certa convergenza tra i Paesi. E Piketty suggerisce anche come ottenerla: formando le future generazioni, ovvero riportando al centro dell'interesse sociale l'istruzione e l'utilizzo appropriato delle tecnologie.
2. La dinamica del rapporto Capitale/Ricavo: per i ricchi è un gioco
Nella seconda parte del saggio Piketty tocca temi come il capitale nazionale, la differenza tra ricchezza pubblica e ricchezza privata e la privatizzazione del patrimonio nei Paesi ricchi, accostandoli ai due concetti di "illusione" e di "realtà". Tra tutti gli argomenti, mi ha colpito però quello del ruolo della fortuna: la speculazione sul debito, un po' come il gioco d'azzardo, è teso al ricavo massimo di un movimento di soldi basato su una pura scommessa, quindi su un evento economico sul quale non vi è certezza, che sia la vincita di una partita piuttosto che di una chiusura azionaria in borsa, facendo a volte anche guadagnare qualcosa.
Certamente ad un povero questo gioco non è concesso per il semplice fatto che non si trova nella condizione di poter rischiare una parte della sua ricchezza per tentare la fortuna e moltiplicarla, senza aver generato né lavoro né produzione, come dovrebbe accadere in un mercato reale.
La differenza che esiste tra il mondo illusorio della speculazione sulla presunta ricchezza e il mondo reale del lavoro che crea reale ricchezza, è la sottile linea rossa che disegna le regole di una competività reale che, fondamentalmente, non esiste.
All'interno di questa situazione la tecnologia funge da fattore di facilitazione nel calcolo delle probabilità di vincita, sostituendo l'abilità dell'uomo di favorire un certo tipo di eventi attraverso la sua azione e il suo lavoro.
Seconda domanda: ma allora il capitale umano è un'illusione?
Per spiegare il potere del capitale umano, Piketty si serve del caso delle società agricole tradizionali che, attraverso il "saper fare" hanno dotato nel corso della storia un valore al lavoro umano, che ha fondato la vera ricchezza di intere popolazioni.
La tecnologia però, inserendosi all'interno dei processi di produzione per velocizzarla e facilitarla, ha aumentato il valore del lavoro, seppure non più svolto dagli uomini, riducendo il valore del capitale terriero, immobiliare e finanziario delle famiglie. Se tutto questo è corretto, dice Piketty, all'interno di questa forma strutturale del lavoro allora non ha più senso il fattore umano, perché la tecnologia ha teoricamente migliorato il lavoro. Eppure non si spiega come mai allora la tecnologia diminuisca inversamente il valore del capitale.
Forse perché l'accumulo del capitale non passa, in questo momento, per il lavoro umano?
Ne "I capricci delle tecnologie" risponde giustamente l'autore che la tecnologia di per sé non conosce limite né morale, quindi è importante che venga qualificata attraverso le competenze umane affinché la forza del capitale accumulato trionfi sul capitale umano.
3. La struttura della disuguaglianza
La teoria più accreditata che spiega la disuguaglianza è quella che fa capo al ruolo dell'educazione e della tecnologia. Questa teoria è basata sull'ipotesi che la produttività di un lavoratore all'interno di un'azienda dipende dalla sua qualificazione, quindi i salari dipendono dalla domanda che una società fa di un certo livello di qualificazione. La qualificazione del personale dipende dal livello di tecnologia raggiunto dalla società stessa, quindi dalla disponibilità di quell'ecosistema a produrre beni e servizi consumati dalla società.
L'offerta e la domanda di lavoro qualificato dipendono entrambe dal sistema educativo sul quale è fondata la società, in particolare dalle politiche pubbliche e dai criteri di selezione all'interno delle diverse filiere, dal modo di finanziare il sistema e dal costo degli studi per le famiglie, quindi dalla possibilità di formazione professionale reale.
Il progresso tecnologico dipende inoltre dal ritmo delle invenzioni e conduce generalmente ad una domanda di nuova qualificazione, nonché ad un rinnovamento permanente dei contenuti dei mestieri corrispondenti.
Tutto questo comporta che la disuguaglianza è prima di tutto relativa le società: quanto più sono avanzati tecnologicamente alcuni Paesi e quanto più alti sono i salari che i suoi lavoratori percepiscono, tanta più qualificazione, intesa come conoscenza tecnologica, viene richiesta. Tralasciando l'analisi sui ricavi marginali del lavoratore e i dati sulla trasformazione dello stato patrimoniale dei Paesi nord-occidentali, Piketty arriva a concludere in questa parte del suo studio che tale situazione porta in ultima istanza ad un sistema estremamente meritocratico per la spartizione della ricchezza, e che la meritocrazia non è un criterio di selezione per garantire tutto a tutti, bensì per garantire il meglio della ricchezza ai migliori assoluti.
La disuguaglianza mondiale dei patrimoni nel ventunesimo secolo in questo momento è perciò fondata non su chi crea la ricchezza totale, ma sul modo attraverso cui essa viene conquistata, portando ad una divergenza internazionale di tipo oligarchico: un esempio è la Cina che "si appresta a possedere il mondo", scrive Piketty. Questo Paese però, insieme all'India e ad altre economie emergenti, non considera i bisogni della popolazione, che sono lontani dall'essere soddisfatti, oltre a tassarla in maniera più elevata che gli Stati europei o americani.
Terza domanda: se la crisi economica è un problema di sistema, come si fa ad uscire dalla recessione?
Immagine emblematica utilizzata da Elio e le Storie Tese nell'album "Sta arrivando la fine del mondo"
Il paradosso, insomma, è che i Paesi che detengono più ricchezza sono proprio i Paesi più poveri, mentre i Paesi che producono questa ricchezza sono quelli che vivono in situazioni di maggiori stenti a sacrifici, all'interno dei quali la popolazione fatica a formarsi in maniera professionalizzante, quindi ad essere economicamente competitiva rispetto alle altre popolazioni del mondo.
Piketty tocca a tal proposito diversi argomenti, come quello del merito e dell'eredità, quello dei fondi pensione e i fondi petroliferi, e arriva a concludere che chi governa e beneficia di tale ricchezza, sostanzialmente, non è chi la produce.
Ecco in cosa consiste la disuguaglianza ed ecco perché è nel ruolo dell'educazione, della politica e delle istituzioni la chiave di lettura per un cambio di scena.
4. Regolare il Capitale nel XXI secolo
Quando si scrive "cambio di scena" e si parla di regolamentazione del mercato, è vietato concludere approssivatimante con l'augurio di uno Stato Sociale capace di redistribuire la ricchezza.
Le forme di welfare state del ventunesimo secolo sono tante e per riuscire a rinnovarle occorre stabilire al centro della ridistribuzione una logica di diritto. Ciò significa che andrebbe prima di tutto rinnovato lo Stato, il modo cioè in cui esso risponde ai diritti all'educazione e alla formazione, al diritto alla salute e al modo in cui le istituzioni educative, in particolare, permettono la mobilità sociale. Piketty prende l'esempio della massificazione della scolarizzazione dagli anni '70 in poi che però non è stato accompagnato da un cambio generazionale dell'insegnamento e arriva al tasto dolente dell'università, che ancora è l'ambiente in cui la meritocrazia si scontra con l'oligarchia verso una rincorsa per il prestigio. Il problema è che questo prestigio, quindi, non viene raggiunto dai migliori, bensì da coloro i quali hanno la forza finanziaria per sostenere il percorso di formazione.
All'interno di questa panoramica, gli stati emergenti non hanno spazio per agire e la lotta per l'appropriazione della ricchezza resterà sempre in mano ai Paesi che hanno già conquistato le posizioni di dominio per assicurarsi la stessa: il cerchio del ragionamento si chiude così e Piketty arriva quindi a fare la sua proposta operativa, che ritiene utopica.
Quarta domanda: come difendersi da tutte le bugie sulla crisi?
L'utopia consisterebbe nel ripensare all'imposta progressiva sui salari e stabilire invece una politica economica capace di inserire un'imposta mondiale sul capitale, con l'obiettivo di generare trasparenza democratica e finanziaria, agendo attraverso la trasmissione automatica delle informazioni bancarie.
Secondo Piketty nonostante questa proposta possa essere considerata utopica, è un'utopia utile per reinventare la democrazia, proporre nuove logiche politiche e culturali, stabilendo un'infrastruttura economica completamente diversa da quella che ci governa oggi. All'interno di questa proposta, conclude, è dovere sia della ricerca sociale che del giornalismo informare correttamente i cittadini, ed è dovere dei cittadini cercare di comprendere le leggi che li governano, perché la disuguaglianza sociale e la compromissione dei sistemi educativi e tecnologici dipendono proprio da questo.
In conclusione: abbiamo diritto ad un'economia etica
Abbiamo capito che non è vero in alcun modo che la distribuzione della ricchezza produce ricchezza e che quindi la disuguaglianza sociale non deriva dalla cattiva distribuzione della ricchezza.
Se guardiamo già solo alla storia italiana, ci rendiamo conto che la nostra economia è stata prevalentemente agricola, ovvero era un'economia di sostentamento. Dopo la lunga stagnazione medievale si è avuto un primo accumulo di ricchezza grazie al commercio delle città marinare ma è la ricchezza prodotta dalla società pre-industriale era considerata ricchezza da consumare, per costruire per esempio palazzi, chiese e bella vita, non era cioè ricchezza da accumulare per investimento, quindi ricchezza in denaro da investire nel processo economico.
Quindi, fino alla rivoluzione industriale, cioè la rivoluzione della macchina che moltiplica a dismisura il lavoro manuale, l'uomo è vissuto in grande povertà e fino al Novecento l'uomo occidentale non ha conosciuto quella che sarebbe poi diventa la società del benessere, che in Italia è durata solo una cinquantina d'anni, per poi entrare in fase di recessione economica, cioè in una fase in cui il sistema viziato non ha saputo più dare abbastanza posti di lavoro, non ha saputo più qualificare e remunerare il lavoro, non ha saputo più innovarsi tecnologicamente né rinnovare il proprio sistema educativo, finendo così in una condizione di peggioramento economico e sociale che non si è ancora arrestato, a causa principalmente delle politiche inadeguate a favorire i cambiamenti necessari per rispondere ai bisogni della popolazione.
Come e quando usciremo da questa recessione gravissima non è dato saperlo, anche e letture acute della realtà come quella fornita da Piketty ne dà una vaga idea. Grazie all'economista francese infatti oggi sappiamo che il punto da capire per uscirne, però, è che il diritto a qualcosa sussiste solo se quel qualcosa c'è.
Se esiste quindi un diritto alla ricchezza, un "diritto ai soldi", esso presuppone che i soldi vengano prima creati. In bocca al lupo a noi: la pagina per una politica che abbracci l'economia etica è ancora tutta da scrivere.