È partito da tre settimane e già sembra esser diventato uno dei case history più interessanti della stagione televisiva: stiamo parlando della prima edizione di The Apprentice, in onda su Cielo (gruppo Sky) ogni martedì sera a partire dalle 21.
Il format è molto semplice: 16 professionisti, 8 uomini e 8 donne, si sfidano per diventare manager con un ricco contratto ("a sei cifre, per minimo un anno" come recita il discorso inaugurale di presentazione) in una delle società del "Boss": Flavio Briatore. Le sfide si svolgono a squadre (quella delle donne ha scelto il nome Lux, quella degli uomini Il Gruppo): in ogni puntata i due team scelgono un Leader, che in caso di sconfitta va automaticamente in "nomination" insieme ad altri due componenti della squadra, scelti da lui. Fra i tre sarà il Boss a scegliere chi dovrà abbandonare la competizione. La location delle sfide è Milano, ritratta in maniera sapiente da una regia di qualità che ne sa valorizzare l'anima operosa e vogliosa di innovarsi (frequenti le carrellate d'immagini della nuova zona di Porta Garibaldi, ricca di alti grattacieli super tecnologici che ricordano moltissimo la City delle grandi capitali mondiali).
Nato in America, The Apprentice è diventato un evento internazionale grazie al successo ottenuto negli Stati Uniti, grazie anche alla presenza del noto magnate Donald Trump nelle vesti di "Boss": oggi il programma è replicato in molti paesi, riscuotendo in ognuno massicci consensi di pubblico.
Fin qui, la cronaca: perché abbiamo deciso di parlarne?
Un imprenditore anacronistico?
Flavio Briatore è uno degli imprenditori più chiaccherati d'Italia, eppure ha saputo inanellare nella sua carriera manageriale molti successi diversi, da quelli raccolti in Formula 1 fino a quelli ottenuti nel mondo della ristorazione e dell'intrattenimento, su tutti la creazione del Billionaire, ambitissima location di VIP durante le estati passate in Sardegna. L'immaginario che porta con sè si rifà a una figura quasi intoccabile dell'imprenditore/magnate, che non offre solo lavoro ma "concede" di entrare in un mondo fatto di altre leggi fisiche e morali. Una sorta di Mito Moderno, al pari di altri industriali che nel nostro Paese hanno fatto strada.
Flavio Briatore, dicevamo prima, sa toccare l'immaginario dello spettatore perché sfrutta il suo esser icona per affermare ancor di più il suo ruolo di leader indiscusso: i candidati gli riconoscono, per quella che è una brillante scelta autoriale, il titolo di Boss facendolo percepire ancor di più austero e intoccabile agli occhi dello spettatore.
Una domanda sorge spontanea: posto che The Apprentice rimane un format legato a un modo "analogico" di concepire i media (sarebbe interessante vedere una versione più "social" dove ad esempio il Boss interagisce con i professionisti attraverso la Rete) la scelta dell'imprenditore è stata azzeccata? Televisivamente, certo. Ma quanto sarebbe stato utile proporre una figura più legata ai nuovi modelli di business? E quanto ne avrebbe giovato il programma?
Se al posto di Briatore ci fosse stato un rampante giovanotto della Silycon Valley, italiano trapiantato negli USA alla ricerca di legami con le proprie origini, forse il dislivello fra il nostro Paese e il futuro sarebbe stato più marcato, denunciando anche la necessità di proiettare l'industria in una dimensione dove la creatività e il talento sono premiati a dispetto anche dell'essere "macchine da business". Certo, lavorare ad altissimi livelli richiede fermezza e autorità: ma sempre più sta emergendo, grazie anche a realtà come Google e Pixar, come sia necessario privilegiare la creatività e la soggettività del dipendente per ottenere prestazioni ottimali. Nel digitale e nel campo della comunicazione è sempre più evidente, ma non è da escludere che presto quest'approccio culturale sbarchi anche nel campo industriale. Per questo, forse l'approccio briatoresco è quasi anacronistico, anche se potenzialmente funzionale per il linguaggio televisivo.
I concorrenti di The Apprentice
I candidati, forse per scelta, sono competenti in materie diverse e assolutamente di alto profilo: si spazia fra manager assicurativi a pubblicitari rampanti, da commerciali scafati a studentesse di lingue straniere. Un vero e proprio spaccato di profili professionali, che si giocano un ruolo non meglio definitivo ma di sicuro interesse. Un aspetto non secondario, visto che l'attenzione dello spettatore si concentra fin da subito sui candidati stessi e il loro esser in gioco, spostando così il focus non tanto su ciò che andranno a fare, quanto sul percorso per raggiungere il risultato.
Le prove di selezione fin'ora hanno messo in mostra alcuni tratti distintivi del profilo ricercato: capacità commerciali, preparazione eclettica, innato gusto per il bello, leadership, obiettività, pragmaticità. Aspetti che devono necessariamente sposarsi al sapersi lasciare alle spalle i possibili rapporti umani che potrebbero crearsi nel gruppo, dato che non vi sono confessionali dove nascondersi per dire chi deve uscire e chi no.
The Apprentice si presta molto quindi a una lettura feroce, dove il lavoro - soprattutto se di livello e di responsabilità - corrisponde a un mondo fatto da regole ferree dove vince il più forte, non c'è posto per l'approccio più umano e dove il migliore è anche il più spietato: forse è così, forse no. Certamente, a livello d'intrattenimento risulta essere un ottimo programma che diverte, perché molto ben costruito. Interpretarlo come una metafora di un normale percorso di crescita professionale forse risulta essere azzardato e semplicistico, considerando che in molti sono riusciti a fare strada mantenendo una propria autonomia di valori e di pensiero, provando a riversare nel proprio lavoro una precisa volontà di migliorare le cose.
Sarebbe stato bello trovare, anche in questo programma, una proposta alternativa. Lungi da noi dar consigli al "Boss" su come gestire le proprie aziende e la selezione del personale che dovrà lavorarci, ma forse un arricchimento per il pubblico avrebbe potuto essere il proporre un nuovo modello anche di professionisti, che concepiscano il "produrre" non come una competizione ma come uno degli ingranaggi per migliorare il mondo. Utopistico aspettarsi forse da un programma che - crediamo - ha come primo obiettivo quello di intrattenere più che di far riflettere e restituire una concezione diversa del mondo: è però altresì vero che forse, in questo periodo storico, sarebbe necessario provare a mettere in scena uno spettacolo diverso, anche per ciò che è un processo di selezione per una posizione lavorativa, che in periodi di crisi possono essere sempre più percepiti come battaglie da vincere ad ogni costo.
The Apprentice è insomma un prodotto di valore ma che può assumere contorni diversi, arrivando ad essere non solo uno spettacolo ma un vero e proprio prodotto culturale. Certo, è una lettura ideale e per certi versi azzardata: ma perché non provare?