Da alcuni anni molte aziende adottano strategie di “marketing non convenzionale”. Ne parliamo con Alex Giordano e Mirko Pallera, che nel 2000 hanno dato vita a NinjaMarketing, il primo osservatorio italiano di azioni di marketing alternativo…
Come i guerrieri ninja, anche voi utilizzate tecniche non convenzionali per ottenere il massimo del risultato con il minimo di risorse. Potete descrivere una vostra azione?
No! La risposta è secca perché il difficile del nostro mestiere è dato proprio dal fatto di non poter reiterare all’infinito schemi predefiniti. Questa è stata una chimera di tutto il sistema industriale televisivo, noi navighiamo verso rotte diverse. Non è un caso che al di là dei narcisismi linguistici (nel nostro libro abbiamo recensito centinaia di nuovi marketing: dal buzz marketing al guerrilla marketing, dal wom arketing all’ignorance marketing…) abbiamo introdotto in Italia il concetto di non convenzionale, che ha in sé il seme della rivoluzione continua e permanente: quello che oggi non è convenzionale, domani lo sarà, quindi…
Nel vostro “decalogo della sacra scuola del marketing nonconvenzionale” dichiarate che “non ci sono target da colpire ma persone con cui risuonare”. Qual è la strategia che porta all’attuazione di questo processo?
In realtà qui entra in gioco soprattutto la sensibilità. Oggi l’impresa non può non essere culturale e deve tener conto che la società non vuole più essere colonizzata dalle dinamiche di mercato su ogni livello di relazione possibile. Un approccio anti-coloniale richiede attenzione alle prospettive dei marketer, nonché a quelle dei consumatori e degli altri rappresentanti operativi. Essi possono, similmente ad aziende o altri rappresentanti societari, introdurre un significato, un’idea ecc. nel marketplace e nella società stessa. Anzi sono proprio queste le idee più rilevanti per i diversi pubblici contemporanei. Si tratta, banalmente, di aprire un po’ più le orecchie per chiudere un po’ la bocca. Di questo il Clue Train manifesto sono anni che ce ne parla. Su un piano operativo è fondamentale ritornare a una sana ricerca di tipo etnografico, la sola che ci consente di entrare nel senso che le persone attribuiscono al loro stare insieme, al loro divertirsi, al loro consumare.
Insieme a Bernard Cova avete scritto il libro “Marketing non convenzionale”, che illustra le nuove strategie di marketing virali. Potete descriverci il concetto di societing?
Ironia della sorte, il libro doveva proprio chiamarsi Societing, che è in realtà quello che ci sforziamo di fare nella nostra vita. La parola (e non solo) “marketing” ci ha stufato, ma per l’editore era ancora troppo presto. Ma ancora una volta l’invito è a non innamorarsi di questo o quel nome, ma ritornare a un sano “senso della misura”, intesa come un abbandono del proprio fondamentalismo per cominciare ad apprendere dall’altro: raramente viene considerata dall’azienda l’idea che il consumatore abbia delle conoscenze che possano essere interessanti per l’impresa. L’azienda deve invece “lasciar fare”, cioè lasciare che i consumatori “prendano il controllo” delle variabili di marketing tradizionalmente predefinite dall’impresa (distribuzione, informazione sul prodotto, erogazione del servizio, comunicazione sulla marca).
Dal vostro osservatorio, qual è la situazione italiana?
Esistono come sempre due Italie: quella di chi lavora, pensa, fa ricerca, sperimenta, e quella dei parassiti opportunisti. Fortunatamente c’è una scena che negli ultimi anni è cresciuta nei circuiti underground e oggi ha sempre più visibilità, sia in Italia che all’estero, dove vantiamo eccellenze di primissimo piano, anche se per lo più sconosciute dai media mainstream del Paese. Per esempio Salvatore Iaconesi e Oriana Persico di Art is Open Source, che hanno organizzato il primo Roma Europa Fake Factory; il LaRiCA (Laboratorio di Ricerca Comunicazione Avanzata) dell’Università di Urbino che conduce importanti studi sul socialnetworking e infine mi piace per una volta menzionare anche il DISTRA (dipartimento di Studi e Ricerche Aziendali) dell’Università di Salerno che, bypassando l’attitudine tipicamente meridionale ad entrare in questa o quella parrocchia politica per competere su un piano regionale, ha capito che ormai è tempo di confrontarsi su un piano internazionale, grazie al lavoro svolto dal team del professor Metallo, nel gruppo di ricerca Euromediterraneo sul Marketing Mediterraneo.
Quale azienda italiana legata al design secondo voi applica meglio la strategia di marketing non convenzionale?
Che dire… il paradosso del marketing non convenzionale è che il miglior prodotto è quello che non ha bisogno del marketing. È quel prodotto che possiede ciò che abbiamo definito Viral DNA, cioè quelle caratteristiche che rendono il prodotto talmente utile e culturalmente attuale che i suoi pubblici sono portati a diffonderlo spontaneamente come un virus. E in questo la cultura del Design italiana, la cultura del progetto ci viene in aiuto. Bisogna lavorare a un buon progetto ma anche affinché questo nei suoi passaggi produttivi non corrompa troppo quella che era l’idea archetipica a cui si ispirava. Questo vale per il prodotto, vale anche e soprattutto per il marketing e la comunicazione. In Italia abbiamo grandi case history mondiali di marketing contemporaneo, come Illy e il gruppo Miroglio con il brand Elena Mirò, Fiat che lavora alla grande su tutto quello che è marketing digitale, e Diesel che lascia decidere ai suoi utenti qual è il suo posizionamento (è street o è fashion? è cool o è underground?). TimTribù è un caso d’eccellenza in termini di marketing tribale, l’unico che è riuscito (sino ad ora) a usare in maniera sostenibile tutte le tecniche del marketing non convenzionale in maniera orientata al societing (nel senso che non le usa in maniera opportunistica, ma con grande rispetto e partecipazione del suo pubblico). Il Mulino Bianco con il progetto “Il mulino che vorrei” ha preso atto che non sono più i soli attori di mercato ad agire ma che tutti possiamo agire sulla società con azioni che hanno ricadute sul mercato. Queste marche non sbagliano mai? Certo che sì, ma mai come oggi è stato vero che sbagliando s’impara…
a cura di Giorgia Losio