C’è una terza via tra persecuzioni e pirateria: Joi Ito è venuto in Italia per spiegare la filosofia del «Creative Commons», e cioè come Harvard e Stanford stanno sviluppando il volto umano del copyright.
Secondo il guru giapponese «uno degli effetti più interessanti che si osservano quando delle forze si mobilitano per comprimere le libertà civili è che, altrettanto rapidamente, nascono nuovi movimenti per controbilanciare l’attacco».
Joi Ito, 38 anni, tecnologo, venture capitalist ed instancabile conferenziere giramondo, è stato definito dal World Economic Forum una delle 100 personalità più influenti dello scenario hi-tech globale. Fa parte del board di Creative Commons e, dal 2004, del consiglio di amministrazione dell’Icann.
Creative Commons nasce nel 2001 e conta tra i suoi sostenitori il Center for Public Domain (fondazione creata da Bob Young e Mark Ewing di Red Hat) e soggetti del calibro della William and Flora Hewlett Foundation, forte di 5 miliardi di dollari di patrimonio, creata da uno dei due fondatori di Hp.
Contro le norme restrittive
Creative Commons, presieduta da Lawrence Lessig, nasce in seno alle più prestigiose istituzioni giuridiche statunitensi come il Berkam Center for Internet & Society (facoltà di legge di Harvard) e la Stanford Law School.
La ratio di questo progetto è che la maggior parte degli uomini-chiave della dottrina giuridica americana ritiene che le norme sul diritto d’autore siano ormai divenute troppo restrittive rispetto a quanto è ormai reso possibile dalla distribuzione interattiva.
Le licenze Creative Commons non sono state disegnate per il software (come Gnu) ma per le altre opere dell’ingegno come libri, musica o produzioni video. Lo scopo non è solo quello di incrementare il montante di contenuti liberamente disponibili on-line ma anche quello di renderne più agevole l’accesso e soggetti come Yahoo! stanno già implementando in beta sezioni specializzate per la ricerca di contenuti licenziati sotto Creative Commons.
Le licenze di questo tipo consentono di distribuire le proprie produzioni in una maniera molto più articolata rispetto al classico copyright. Si va dal Founder’s Copyright, dove i diritti rimangono riservati per 14 anni (rinnovabili per altri 14) contro i 70 anni della vigente legislazione sul copyright classico al Music Sharing License dove il copyright rimane di proprietà dell’autore ma viene consentita la distribuzione dell’opera dell’ingegno attraverso i canali del P2p.
Articolare, non abolire
Creative Commons non abolisce il copyright ma introduce un’articolazione più consona alle possibilità tecnologiche esistenti e la febbrile attività di conferenzieri come Joi Ito è tesa a chiarire le valenze industriali e sociali di questo framework evidenziando l’inadeguatezza storica del rigido approccio tenuto sin’ora dalle major. Nelle scorse settimane Joi Ito ha tenuto una serie di conferenze a Roma e Milano.
Nella conferenza di Roma e in maniera ancora più eloquente nell’ambito di una cena informale con alcuni giovani analisti, Joi Ito ha avuto modo di chiarire il proprio punto di vista che è poi quello di uno dei più ascoltati consulenti strategici del momento con un portafoglio di importanti società clienti come per esempio Nokia: «Il P2p farà crollare Hollywood? Beh, non facciamo da tempo neanche più le piramidi ma la civiltà non si è certo fermata per questo»...
Il pensiero di Joi Ito è che non vale la pena di cercare da subito modelli di business per giustificare il P2p e tranquillizzare l’ansia delle major. Basta pensare che killer applications come Hotmail o eBay nacquero senza modelli di business (Pierre Omidyar, fondatore di eBay, era un suo compagno di college) ma «solo per essere utili». Se in seguito divennero grandi business è «perché sulla Rete è facile adattare il business model», sostiene Ito.
Marketing virale
Il guru non nasconde di guardare alla Rete come a un immenso laboratorio sociale dove le innovazioni sembrano susseguirsi senza soluzione di continuità assecondando «un processo bottom-up che potenzia le applicazioni vincenti grazie al passaparola.
La verità è che siamo nel bel mezzo di una lotta tra due visioni del marketing: da una parte c’è il marketing virale, quello della Rete basato su blog, chat line e passaparola, dall’altro c’è quello tradizionale con immensi investimenti pubblicitari che tentano di forzare il mercato verso scelte preconfezionate. Se avremo il coraggio di rinunciare al vecchio marketing avremo più soldi per R&S e ricerche di mercato e saremo in grado di dare meglio e prima quello di cui la gente ha veramente bisogno.
Content divide
Secondo Joi Ito ci stiamo avvicinando pericolosamente a una situazione di content-divide enfatizzata dalla impossibilità di gestire il digital right management del copyright tradizionale che si articola nazione per nazione imprigionando la distribuzione on-line dentro un caleidoscopio di contratti che variano Paese per Paese. «Tutto questo accade mentre il media mix sta diventando sempre più importante, servono standard aperti, cross-media. Del resto non bisogna dimenticare che la generazione Y, quella degli under 30, ritiene che interagire sia un diritto.
I giovani non si scambiano gli Mp3 solo perché sono gratis ma anche per interagire, per essere partecipi di una community.
Le major non vogliono capire ma il dato di fatto è che grazie al P2p ed agli Mp3 la gente ascolta più musica e presto verranno fuori modelli di business anche per il P2p. Aumentano gli atteggiamenti esplorativi e dimuisce il monopolio delle hit intese come frutto di ingenti iniziative promozionali.
Probabilmente non avremo più un altro Michael Jackson ma una miriade di iniziative spesso autoprodotte». Una visione che trova conferma nei rendiconti finanziari di un colosso come Pinnacle che ha recentemente acquisito la tedesca Steimberg, leader nel software di autoproduzione: «Vogliamo rendere democratica la produzione della musica dando strumenti di produzione audio di qualità professionale al maggior numero possibile di utenti della Rete in modo che possano poi accedere a forme innovative di distribuzione come il P2p».
L’incontro con Joi Ito si conclude in tarda serata e prima di congedarci gli domandiamo se negli Usa si avvertano segni di ostilità verso soggetti come Sony che, tutto sommato, oltre a produrre soluzioni software e hardware controllano etichette di primo piano tanto nel cinema quanto nell’industria discografica.
La risposta di Joi Ito è laconica: «L’università di Stanford utilizzava un software di una casa poi acquisita dalla Sony. Appena i vertici dell’università hanno avuto notizia dell’acquisizione si sono ben affrettati a revocare ogni contratto cambiando fornitore».
Dove ci sta portando l’enfasi sui diritti d’autore
Lawrence Lessig insegna alla Stanford Law School ed è il fondatore dello Stanford Center for Internet and Society. Guida il progetto Creative Commons. È autore di Code: and other laws of cyberspace e The future of ideas (non ancora tradotti in italiano).
In compenso è tradotto, e fresco di stampa, Cultura libera che esce per i tipi di Apogeo; 256 pagine, 15 euro.
Alla ricerca di una terza via tra chi vuole proteggere tutto, difendendo interessi acquisiti, e chi vorrebbe tutto “libero”, Lessig ha una posizione articolata e profonda, in equilibrio fra anarchia e controllo: difende l’idea di un creative commons, uno spazio pubblico di libertà, ed è a favore di licenze limitate, in cui non «tutti», ma solo «alcuni diritti» sono riservati.
Per combattere l’estensione illimitata dei diritti di proprietà, che porterebbe a una sciagurata «feudalizzazione» della cultura.