Avete notato il circolo vizioso (o forse è meglio chiamarla "maledizione") che ultimamente affligge i brand di lusso sui social?
Si tratta di un complicato processo comunicativo costruito attraverso messaggi ambigui, i quali vengono interpretati dal pubblico social spesso in chiave negativa, scatenando così un vero e proprio colpo di frusta mediatico.
Sono molti i casi di backlash dal mondo social sin dai suoi albori. Brand che esagerano con le allusioni sessuali e i doppi sensi e quelli che sfruttano luoghi comuni sessisti o razzisti non sono nuovi agli utenti di internet, ma il processo causa/effetto non sembra essere lo stesso per ogni brand: apparentemente, più è alto il livello di reputazione (come per i luxury brand), più il contraccolpo può essere pesante.
Come il caso Dolce&Gabbana ha dato il via a una nuova era social
Potremmo quasi definirlo come la "Seconda Repubblica dei social", il periodo iniziato da pochi mesi per i luxury brand; un clima di tensione scatenato senza dubbio dalla più grande social crisis della storia della moda: il caso Dolce&Gabbana.
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Ricordate il climax mediatico? Video di cattivo gusto, commenti negativi, diffusione degli screenshot di Stefano Gabbana, indignazione generale, reazione iperbolica degli utenti cinesi, chiusura dello show programmato a Shanghai, scuse pubbliche da parte del brand.
I due designer, oltre a presentare pubbliche scuse scritte su Instagram, hanno scelto di metterci la faccia e mostrarsi al pubblico in un video molto discutibile che avrebbe potuto essere evitato. Nonostante ciò Dolce&Gabbana rimane vittima di uno shaming mediatico di portata impressionante che causerà non pochi danni non solo all'immagine social ma anche alla brand reputation a livello globale.
Prada, Gucci e Burberry: il nuovo iter social per evitare il backlash
Da questi avvenimenti i brand non hanno di certo imparato definitivamente a comunicare in maniera impeccabile e inoffensiva, eppure ciò che hanno capito bene è l'iter da seguire per evitare una caduta libera senza ritorno.
Il segreto (oltre quello di evitare di scrivere cattiverie gratuite durante una delicata fase di problem solving) è quello di arrendersi subito all'evidenza: quando un post o un'intera campagna inizia a generare un malcontento generale, la macchina mediatica deve spegnersi prima che i motori si surriscaldino.
Arrendersi in tempo significa cancellare ciò che ha turbato l'opinione pubblica e quindi minor rischio di schianto: più breve è il tempo di esistenza di un post "offensivo" più sarà veloce il processo di ripristino della normalità. È successo a Prada lo scorso dicembre e a Gucci poche settimane fa, ed entrambe i brand se la sono cavata relativamente bene.
Nello specifico, entrambe le Maison hanno ricevuto l'accusa di aver pubblicizzato prodotti che richiamassero al black face: Prada è finita nella polemica con la releas,e per la linea Pradamalia, di un portachiavi a forma di scimmietta con grandi labbra rosse che ricorda le caricature degli afro americani fatte dai bianchi che si tingevano la faccia di nero e mettevano in risalto le labbra con il rosso. Prontamente Prada ha ritirato dal commercio l'accessorio da 550$ e pubblicato un comunicato di scuse.
We are committed to creating products that celebrate the diverse fashion and beauty of cultures around the world. We’ve removed all Pradamalia products that were offensive from the market and are taking immediate steps to learn from this.
Full press release attached. pic.twitter.com/rKhnKjasDz
— PRADA (@Prada) 16 dicembre 2018
Sembra assurdo che appena un mese dopo lo scivolone di Prada sia ricaduta nella stessa trappola anche la Maison Gucci, che mette in vendita un maglione che richiama, anch'esso, il black face imaginary.
Il modello, nero e aderente, presenta la caratteristica di un collo molto alto fin sotto il naso che mostra un cut-out sulla bocca contornato di rosso.
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Stesso iter di Prada: articolo eliminato dalla vendita, pubbliche scuse, e il gioco è fatto prima che il terrore si diffonda.
Gucci deeply apologizes for the offense caused by the wool balaclava jumper.
We consider diversity to be a fundamental value to be fully upheld, respected, and at the forefront of every decision we make.
Full statement below. pic.twitter.com/P2iXL9uOhs— gucci (@gucci) 7 febbraio 2019
Il next step di Gucci? Diventare proattivo per scavalcare ancor meglio le accuse di razzismo grazie a una serie di interessanti iniziative.
L'azienda, guidata dal CEO Marco Bizzarri, annuncia l'apertura di una posizione come Direttore globale e regionale per la diversità e l'inclusività, l'avvio di uno scholarship program di Multicultural Design, un Awareness Program e un Exchange Program multiculturale.
Burberry come Gucci
Anche Burberry ha peccato di poca sensibilità, e stavolta non c'entra il razzismo ma un'argomento forse ancora più delicato: il suicidio. La causa è stato un accessorio di troppo durante la sfilata alla London Fashion Week, dove nell'ultima collezione del direttore creativo Riccardo Tisci è comparsa una felpa con una coulisse intorno al cappuccio sui generis: un vero e proprio cappio, ridimensionato, intorno al collo della modella.
A rompere il silenzio dopo la sfilata è stata la modella Liz Kennedy con un post Instagram diventato presto virale: l'accusa è chiaramente quella di aver peccato di mancanza di sensibilità e incoscienza mettendo in bella vista intorno al collo un chiaro simbolo legato al suicidio.
Dopo pochi giorni sono arrivate le scuse (social) di Tisci e del brand.
Anche Burberry, come Gucci, sceglie uno step in più dopo quello delle scuse pubbliche: dimostrare gli obiettivi di CSR ed HR scegliendo di implementare gli aiuti alle organizzazioni "che promuovono diversità e inclusività e che provvedono all'assistenza di persone in difficoltà, compresi i Samaritani, i quali offrono un ricovero sicuro e discreto a chiunque".
Stando all'ultimo aggiornamento del The Guardian, i Samaritani avrebbero confermato di essere stati contattati da Burberry ma che nessun accordo è stato ancora preso con il brand.
Bastano le scuse per evitare una social crisis?
Visto così schematizzato, questo iter di figuracce e scuse sembra concludersi quasi sempre con un lieto fine. Fatta eccezione per Dolce&Gabbana che ancora porta i segni, online e offline, di un duro colpo mediatico, per gli altri brand che hanno più o meno imparato la lezione, il sistema sembra quasi essersi standardizzato.
È interessante osservare come questa serie di scivoloni vengano "recuperati" così velocemente da addirittura bloccare in tempo un nefasto tam tam che conduce al baratro. A questo punto ci chiediamo: è la moda a prendersi troppe libertà espressive oppure è il pubblico social a puntualizzare sempre tutto (forse troppo?) interpretando come minaccioso anche ciò che vorrebbe invece essere semplicemente "estetica"?
La risposta non è così semplice. Di sicuro, per sopravvivenza e per il bene della propria reputazione, i brand stanno pian piano imparando a conoscere i rischi legati a una comunicazione sbagliata. Il terreno social è molto fertile ma sa essere alle volte anche assai impervio.