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  • Cosa possiamo imparare dalla social crisis di Gucci per il maglione “blackface”

    L’equilibrio precario della reputazione delle aziende accusate di razzismo, il Caso Gucci

    12 Febbraio 2019

    È di qualche giorno la notizia del brand del lusso Gucci accusato di razzismo, proprio durante il Black History Month, per un maglione della nuova collezione con un collo alto-passamontagna su cui c’è raffigurata una bocca rossa ben evidente. Si tratta di un modello che ricorda la blackface utilizzata per 200 anni in America per identificare in maniera discriminatoria e vessatoria le persone di colore. La crisi online si innesca a poche ore dalla presentazione della nuova collezione primavera-estate 2019 che l’art director Alessandro Micheli dedica al musical americano, con capi ispirati al cinema anni ’50 come “Un americano a Parigi” e “Gli Uomini preferiscono le bionde”.

    Gucci ha ritirato subito il prodotto dal mercato, pubblicando immediatamente un messaggio di scuse in cui afferma che l’incidente è “un potente momento di insegnamento, una lezione per il team Gucci”, impegnandosi a “promuovere maggiormente la diversità” nelle sue creazioni.  

    Un esempio di crisis online management

    Da un punto di vista procedurale bisogna dire che Gucci ha agito da manuale per quanto riguarda la gestione della crisi, ritirando subito il prodotto dal commercio e pubblicando nel giro di poco tempo delle scuse formali online, facendo un mea culpa chiaro e totale. Il rischio maggiore in caso di crisi online, appunto, è proprio rispondere in maniera tardiva o troppo debole dando adito così al gonfiarsi di polemiche e dibattiti sul tema. O anche negare il problema, com’è stato per il recente caso di Dolce&Gabbana accusati di razzismo nei confronti dei cinesi, proprio in occasione del lancio della nuova collezione a Shangai, con uno spot che faceva sfoggio di una serie di stereotipi razziali e inoltre, nella opinione di chi scrive, fortemente sessista. LEGGI ANCHE: Perché la sassaiola cinese contro Dolce&Gabbana rischia di essere peggiore delle accuse di razzismo In quel caso, all’inizio, quelli di Dolce&Gabbana hanno reagito con stizza e hanno immediatamente preso un volo per tornare in Italia contravvenendo a un’altra regola basilare per affrontare le crisi (online e offline), cioè la presenza, continua e materiale, nel luogo dove la crisi è in atto. LEGGI ANCHE: Dopo Dolce&Gabbana tocca a Burberry, bufera sui social in Cina

    L’onda (anomala) delle crisi reputazionali

    Nell’ultimo periodo sono stati numerosi i casi di online crisis legati ad accuse di discriminazioni come, oltre i già citati Gucci e Dolce&Gabbana, anche H&M con il caso del bambino di colore e la t-shirt con la scritta “the coolest monkey”, Adidas con le scarpe celebrative del Black History Month completamente bianche, fino ad arrivare a marchi minori.   Cosa succede? Probabilmente niente di nuovo lato brand. Quello che sta cambiando, e sta cambiando profondamente, è la sensibilità delle persone sempre più attente e, soprattutto, sempre più consapevoli di non dover accettare passivamente comportamenti discriminatori e offensivi, e che – come recitava uno slogan di qualche anno fa – sono davvero loro al centro e ad avere sempre ragione.

    Il problema è alla base

    I brand sono così chiamati a prestare maggiore attenzione ai comportamenti offensivi, di qualsiasi livello del management. Una soluzione? Ironicamente viene proposta proprio da un utente di Twitter che fa notare che se nel team di Gucci ci fosse stata una rappresentazione più inclusiva delle minoranze, si sarebbero sicuramente accorti prima dell’offensività del prodotto. Le differenze sono davvero un accrescimento, un ampliamento di idee e posizioni. Il crisis management parte forse dall’HR e dal pensare all’inclusività non in termini di compliance, ma in termini di arricchimento e di rappresentazione reale del giudice più severo, il cliente.

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