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  • Gillette prova a rendere l’uomo meno macho nel suo ultimo spot, ma qualcuno non l’ha presa bene

    Breve analisi di una campagna davvero emozionante che non sta suscitando le reazioni che ci saremmo aspettati

    16 Gennaio 2019

    Lo spot storico della Gillette che, durante il Super Bowl del 1989, era entrato con forza nell’immaginario del pubblico recitava “The best men can get” e su questo claim ha costruito per anni la sua identità di prodotto, sottolineando durevolezza dei rasoi e nuovi materiali. Tutto puntava appunto sul concetto di forza, così ogni declinazione della strategia di comunicazione di Gillette. Il rasoio, oggetto privilegiato maschile era associato appunto alla forza in un assioma semplice quanto potente. Donne che si gettano nelle braccia di uomini forti, uomini che fanno sport, che si abbracciano goliardicamente dopo una bevuta in confraternita, che sollevano bambini con una  sola mano: tutto corredato da una magnifica canzone che recita “You’re the champion, you deserve the best a men can get”. Negli ultimi anni Gillette ha dovuto rispondere a un mercato sempre più competitivo che lo ha costretto ad abbassare del 15% il costo dei propri rasoi e perdere il suo ruolo di leadership nel prodotto. Probabilmente anche per questo, in linea con il la campagna #MeToo “We believe”, per incoraggiare un cambio di paradigma nell’educazione dei giovani uomini contraria alla violenza di genere, ha deciso di dare una sterzata alla sua brand identity. O anche perché, probabilmente, le recenti ricerche di mercato di Nielsen (2017) suggeriscono come il cluster dei Millennial prediliga campagne legate alla corporate social responsability. Nasce così il nuovo slogan e il nuovo spot “The best men can be”.

    L’ondata di odio

    Lo spot è bellissimo, emozionante. Riesce ad affrontare il grande tema dell’educazione alla violenza, della sua normalizzazione e infine della banalizzazione di harrassment e comportamenti di odio e di violenza attraverso il grande cliché “boys be boys” che in italiano corrisponde abbastanza fedelmente all’espressione “sono ragazzi”, la frase che oscenamente è stata ripetuta finanche a difesa di uno stupro, in Italia, nelle zone dell’Aquila. Eppure le reazione online (almeno negli Stati Uniti) è stata tutt’altro che positiva nelle ultime ore. Migliaia di uomini sono insorti riempiendo di commenti negativi e dislike il video YouTube, promettendo di non comprare mai più un prodotto Gillette (e affini). L’azienda è accusata di additare il maschio bianco etero come unico colpevole. Il tono dei commenti, paradossalmente, dimostra una comunità di consumatori solida e decisamente maschilista che si scaglia contro il brand che vorrebbe ridurre la loro mascolinità a soy-boy (interessante insulto dispregiativo legato alla community healthy), freak e gay ovviamente. Non tarda a farsi sentire su Twitter il presentatore Piers Morgan che raccoglie un vasto consenso online.

    Gillette ha sbagliato?

    Innovare semplicemente non è così facile. Questo non vuol dire che non è possibile cambiare un linguaggio e uno storytelling che contribuiva in parte promuovere stereotipi di genere negativi.  Forse però sono stati commessi alcuni errori. Bisognerebbe cambiare tenendo innanzitutto sempre ben presente chi compra i propri prodotti, qual è la nostra vera base di consumatori e su quali valori per trent’anni abbiamo costruito la nostra comunicazione. A partire dalla visione realistica di questo, bisogna cercare di non cadere nella trappola della corporate social responsibility costruendo una comunicazione in negativo. Lo spot è bellissimo, ma la prima reazione del pubblico è fortemente negativa, perché il messaggio di fondo è duro e generalmente mal digerito. Chi ha pensato e creato questo spot sapeva bene che avrebbe creato una spaccatura, aperto un dibattito. Anzi, era sicuramente quello che voleva, solo che non si aspettava fosse così ampio, così condiviso e soprattutto così aggressivo.

    Il precedente di Nike e la strategia nel medio periodo

    Una soluzione sarebbe potuta risiedere in un racconto in chiave positiva del cambiamento di paradigma maschilista, che non attaccasse l’intera categoria di uomini (e non rinnegando in qualche misura la storia comunicativa del brand). Tuttavia siamo sicuri che sul lungo periodo l’impatto di questa campagna sarà davvero così negativo? Ricordiamo il recente caso di Nike che ha scelto come testimonial Kaepernick, estromesso dai campi si gioco per la sua dura protesta contro discriminazioni razziali – e in generale a danno delle minoranze – e contro la brutalità della polizia. Anche in questo caso la prima reazione del pubblico era stata fortemente negativa, reazione che Nike aveva preventivato ma che si fondava su dati molto solidi in tema di mercato. LEGGI ANCHE: Sei volte in cui i brand si sono schierati politicamente nella pubblicità (prima di Nike) Un esempio? Secondo dati Morning Consult (luglio 2018) il 55% dei Millennials in USA ritiene che Nike abbia valori forti e positivi. La stessa indagine rilevava che il 71% degli elettori di Trump è meno propenso ad acquistare i prodotti di una azienda che appoggia la protesta di Kaepernick. Inoltre, secondo un tracking di YouGov il 46% degli acquirenti Nike ha una opinione positiva di Colin Kaepernick, a fronte del 34% registrato sulla popolazione generale americana. (Fonte: Ipsos) Quali dati non hanno forse pesato di più nella strategia di Nike considerando che sul medio periodo la campagna ha portato Nike ai livelli di vendita più positivi di sempre? Quale sarà, dunque, l’effetto di mercato di Gillette nel medio periodo? Un certo numero donne ha già manifestato l’intenzione di acquisto di passare a Gillette e – farei notare ironicamente – a casa mia, il rasoio a mio padre, l’ha sempre comprato mia madre.

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