

Elisa Bonati
Pubblicista, Coordinatore scientifico e Marketing Specialist di Lavorofacile.it
Diventa free member
Vuoi leggere questo articolo e le altre notizie e approfondimenti su Ninja? Allora registrati e diventa un membro free. Riceverai Breaking News, Marketing Insight, Podcast, Tips&Tricks e tanto altro. Che aspetti? Tieniti aggiornato con Ninja.
I social network, nati in origine per un uso strettamente privato come libera “piazza” per esprimere opinioni di qualsiasi genere e con qualsiasi tono, hanno conquistato anche la sfera lavorativa diventando veri e propri strumenti di lavoro.
Basti pensare a Facebook Workplace o a sales navigator di LinkedIn, dove il social diventa piattaforma lavorativa collegandosi direttamente al profilo personale del lavoratore.
La stessa WhatsApp è diventata una chat lavorativa in cui scambiarsi in tempo reale aggiornamenti sulle operazioni, magari nel gruppo aziendale, tra una sbirciatina e l'altra alle notifiche personali.
LEGGI ANCHE: Privacy, pagamenti ed eCommerce: le novità annunciate per Facebook, WhatsApp e Instagram all’F8
Ma non solo. Le aziende adottano i social network perché vogliono ampliare il proprio business, e capita che provino a spronarli (anche attraverso incentivi) a promuovere il brand aziendale e trasformando gli stessi, indirettamente, in digital ambassador, senza però regolamentare questa prassi ai limiti della correttezza tra le parti.
Fin qui, sembrerebbe che i social mettano d’accordo entrambe le parti, in una conviviale piattaforma sociale libera e felice. La realtà è molto più oscura.
Per il lavoratore, la sottile sovrapposizione che si ottiene dall’utilizzo dei social per motivi di lavoro e la tentazione di utilizzarli per scopi privati, durante l’orario lavorativo e magari con mezzi strumentali dell’azienda, è fortissima; di contro, per il datore di lavoro, sembra essere diventata quasi un diritto/dovere imprescindibile l’attività di spionaggio dei profili social del dipendente cercando di allargare i confini del suo potere di controllo.
La giurisprudenza si sta esprimendo sempre più frequentemente, prendendo decisioni di merito e legittimità in relazione ai licenziamenti disciplinari irrogati a dipendenti che mantenevano condotte improprie sui social network o a datori di lavoro che violano i diritti di privacy e riservatezza dei lavoratori.
Casi eclatanti hanno portato addirittura al licenziamento del lavoratore, in altri situazioni la giurisprudenza è rimasta più prudente ed in Cassazione ha risolto i conflitti comminando un provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore o obbligando il datore di lavoro a risarcire il dipendente a seguito di un abuso dei poteri direttivi.
LEGGI ANCHE: I leader migliori insegnano (e i dipendenti migliori vogliono imparare)
La sentenza della Cassazione n. 10280/2018, per esempio, ha analizzato il caso del licenziamento di una lavoratrice che aveva postato, sulla propria bacheca di Facebook, frasi ingiuriose nei confronti dell’azienda per cui lavorava e nei confronti del datore di lavoro.
In questo caso, la Cassazione ha confermato il licenziamento per giusta causa, comminatole dal datore di lavoro, in quanto le giustificazioni portate dalla lavoratrice ovvero “era uno sfogo personale fine a se stesso”; “non sapevo potesse diffondersi pubblicamente”, non erano considerate sufficienti per annullare il licenziamento.
Emerge quindi un concetto importante, i social non sono indenni dal reato di diffamazione e questa sentenza lo dimostra in modo chiaro.
LEGGI ANCHE: Investire sul benessere dei propri dipendenti fa bene alle aziende
I social sono una cassa di risonanza molto grande, un semplice post può infatti raggiungere un numero elevato di persone che non solo lo leggono, ma interagiscono attraverso ricondivisioni, commenti e like, alimentando il reato di diffamazione e aggiungendo anche l’offesa a mezzo stampa.
Va sottolineato però, che se la lavoratrice in questione avesse utilizzato Facebook con una privacy policy restrittiva, impendendo ad estranei (non solo ad amici e parenti) di visitare il proprio profilo, nulla di quanto sopra si sarebbe verificato, poiché le frasi ingiuriose postate erano rese disponibili ad un gruppo ristretto di amici, riservate quindi ai soli soggetti autorizzati dal titolare del dato e non di pubblico dominio.
Pertanto, se il datore di lavoro non fosse stato inserito nella cerchia di amici della lavoratrice non avrebbe visualizzato il commento ingiurioso, non avrebbe comminato il licenziamento per giusta causa e non avrebbe potuto comminarlo anche nel caso in cui, allertato da terzi che potevano visionare il commento, avesse creato un profilo fake per farsi inserire nella cerchia di amici e utilizzare il post offensivo come prova per il licenziamento.
La creazione di un profilo fake per intrufolarsi negli affari dei dipendenti, infatti, costituisce un’indebita intrusione del datore di lavoro nella sfera privata del lavoratore violando anche i principi di buona fede e correttezza, posto che il lavoratore abbia consapevolmente deciso di utilizzare un filtro privacy elevato.
Esistono altri casi esaminati dalla Cassazione che portano sempre in evidenza questo conflitto.
Occorre quindi trovare un equilibrio tra le parti, volto a rendere il più trasparente possibile l’utilizzo dei social in azienda.
Lato aziendale sarebbe opportuno adottare adeguate e dettagliate policy che regolamentino l’utilizzo dei social in azienda e il comportamento che il dipendente deve mantenere sui social quando “parla” dell’azienda.
Una buona policy deve:
Dal lato del lavoratore servirebbe una maggior attenzione ai contenuti delle policy aziendali, una maggior conoscenza dei social network e delle regole privacy che sarebbe opportuno adottare sulle piattaforme social, cosa è opportuno postare e cosa è opportuno non mostrare agli amici o amici degli amici.
Una sorta di decalogo che consenta di vivere una vita social consapevole e che non pregiudichi la sua reputazione e non lo esponga a rischi anche gravi come la perdita del posto di lavoro.